sabato 23 novembre 2019

Una CDU conservatrice, liberale e sociale. Dopo il discorso di AKK a Lipsia - Riflessioni di un filosofo

Lipsia. Sto cercando il contenuto e l'ho trovato, ma non del tutto, del discorso della politica tedesca, tenuto a Lipsia. Annegret Kramp-Karrenbauer, la succeditrice di Angela Merkel, alla guida della CDU, vuole essere il leader dell'intero partito, in  tutte le sue correnti: conservatrice, liberale e sociale. Forse e' l'unico modo in cui si può "guidare" un tale partito. 

7 minuti di applausi - che ha ricevuto, però, non significano ancora nulla; si può anche diventare leader di partito e candidato a cancelliere con un voto del 100% nel partito e fallire completamente (come è accaduto due anni fa a Martin Schulz, SPD. 
La lealtà è certamente un valore, anche se non vorrei insistere sulla mancanza di lealtà degli altri partiti (Friedrich Merz con la SPD). 

Eppure ho bisogno di più chiarezza sul contenuto o sui contenuti. Qui ci faccio solo alcuni esempi.

L'approccio di AKK al problema insorto dopo l'invasione di Erdogan in Siria settentrionale è buono, ma qual è esattamente la sua agenda internazionale: sta pensando all'Europa e all'Europa in relazione a un continente come l'Africa? Il discorso di Lipsia permette di capire qualcosa di più specifico in questo settore (finora ho letto solo il riepilogo e la valutazione FAZ)? In che modo vuole contribuire alla crescita della comprensione e della pace tra gli "stati- continenti" (uso questo termine di Alberto Methol Ferré, che esprime solo una visione)? Cosa fare affinché personalità di spicco come Donald Trump, Vladimir Putin e Xi Jinping si affrontino con un progetto politico alternativo, senza per questo aggravare le posizioni e i contrasti (il sostenimento politico a favore di Hong Kong negli USA potrebbe non essere stato utile e in questo caso, forse, Donald Trump ha giocato un ruolo positivo)?

Se dice di essere anche "conservatrice", cosa intende esattamente? Ha il coraggio di dire chiaramente quello che il nuovo presidente del PPE polacco Donald Tusk ha affermato: "nella politica di sicurezza non cedere in nessun caso a populisti e autocrati"; nei partiti popolari in Europa si dovrebbe mostrare resistenza  alle voci come quelle di Matteo Salvini (Italia) o di Viktor Orbán (Ungheria); anche qui senza favoreggiare inutili inasprimenti. 

Se vuole essere "sociale", come pensare "prosperità e benessere" non come contraddizioni economiche, ma come fecondità polare? 

Se vuole essere "conservatore", cosa ne pensa del tema "benessere dei bambini" - vuole togliere la responsabilità educativa ultima dei genitori attraverso un emendamento costituzionale sui diritti dei bambini? Vuole fermare un tale emendamento? 

Se vuole essere "liberale", cosa ne pensa della politica monetaria della BCE?  La posizione di Mario Draghi, che forse anche Christine Lagarde continuerà in sostanza, era ed è per me l'assunzione di "responsabilità politica" da parte della banca europea; si può certamente mettere in dubbio che questo sia il compito di una banca, ma che questo è un compito che va preso sul serio, nessuno che prende sul serio l'unità dell'Europa, potrà negarlo. 

Sembra avere una posizione precisa sulla strategia digitale. Ma ciò che dice corrisponde a ciò che i giovani pensano, hanno bisogno e sentono?  Vedremo. 

E cosa pensa esattamente del cambiamento climatico? Il fatto che i motori a combustione in Germania vengano mantenuti al loro posto tiene conto di questa dimensione di cura della nostra casa comune? 

Angela Merkel, sebbene cristiana riformata, alla fine ha avuto un accordo "pratico" con l'atteggiamento "politico" del Papa: importanza dell'Europa come poliedro (diversità di posizioni come opportunità); relazioni tra continenti anche come forma di poliedro (contro una concezione sferica) (relazioni economiche positive con la Cina come esempio) per consolidare la pace. E l'AKK?

Penso che l'idea di un anno sociale obbligatorio per i giovani sia un buon modo per combattere l'"egoismo collettivo" fin dall'inizio.

Come fece Augusto Del Noce per la "Democrazia cristiana" di allora, vorrei che la CDU si posizionasse più "filosoficamente", ad esempio con un termine come "legittimità critica della modernità" - la posizione intermedia dell'AKK: conservatrice, liberale e socialmente  è certamente una posizione che corrisponde a questo termine, ma avrebbe dovuto svolgersi un dibattito che non solo serva a formulare una "minaccia di rassegnazione". La politica è la formazione del potere, ma non solamente "volontà di potere". E abbiamo bisogno di una politica che tenga conto dell'ecologia dell'uomo (Benedetto XVI) e dell'ecologia tout court (Francesco). Una politica che vede la "povertà" (non la miseria) come un valore. Quanto alla questione dell'aumento dell'età in cui è possibile andare in pensione, essa non corrisponde tanto ad un contributo per comprendere per la positività del lavoro, ma solo ad una misura economica di risparmio che non tiene conto del fatto che alcuni lavori, dopo una certa età, non sono più sopportabili. 

In breve: il mio giudizio sul discorso dell'AKK è ancora in "statu nascendi", ma ho voluto scrivere qui alcune cose, che sono importanti per me.


Tradotto con www.DeepL.com/Translator (da me rivista) 

Nach der Rede von AKK in Leipzig - Überlegungen eines Philosophen



Leipzig. Ich suche nach Inhalten und bin auch fündig geworden, aber nicht ganz. Annegret Kramp-Karrenbauer will die Parteivorsitzende von allen Richtungen der CDU sein: konservativen, liberalen und sozialen Strömungen. Womöglich kann nur so sie "führen".

7 Minuten Applausen bedeuten noch gar nichts; man kann auch mit 100 % Stimme in der Partei Parteivorsitzender und Kanzlerkandidat werden und vollkommen scheitern.

Loyalität ist sicher ein Wert, wobei ich über den Mangel von Loyalität anderer Parteien nicht insistieren würde (Friedrich Merz mit der SPD).

Und dennoch brauche ich mehr Klarheit über die Inhalten. Hier nur ein paar Beispielen.

Der Vorstoß von AKK bezüglich von Nord Syrien ist gut, aber was ist genau ihre internationale Agenda: denkt sie über Europa und über Europa in Bezug auf einen Kontinent wie Afrika nach? Lässt die Leipziger Rede etwas genaueres in diesem Bereich verstehen (ich habe bis jetzt nur die Zusammenfassung und die Einschätzung der FAZ gelesen)? In welcher Weise will sie beitragen, dass untern den "Staatskontinenten" (ich verwende dieser Terminus von Alberto Methol Ferré, der freilich nur eine Vision ausdrückt) Verständnis und Friede wachsen möge? Was soll getan werden, damit führende Persönlichkeiten wie Donald Trump, Vladimir Putin und Xi Jinping Paroli geboten wird ohne die Positionen zu verschärfen (die Stellungnahme pro Hongkong in den USA dürfte keine Hilfe gewesen sei und in diesem Fall, womöglich, hat Donald Trump sogar eine gute Rolle gespielt)?

Wenn sie sagt, dass sie auch "konservativ" sei, was meint sie genau? Hat sie den Mut klar zu sagen, was der neue polnische EVP- Präsident Donald Tusk gesagt hat: "in der Sicherheitspolitik untern keinen Umständen gegenüber Populisten und Autokraten nachgeben"; in den Volksparteien in Europa sollte Stimmen, wie die von Matteo Salvini (Italien) oder Viktor Orbán (Ungarn) Paroli geboten werden; auch hier ohne in nicht helfenden Verschärfungen zu geraten.

Wenn sie "sozial" sein will, wie bedenkt sie "Wohlstand und Wohlfahrt" nicht als wirtschaftliche Widersprüche, sondern als polare Fruchtbarkeit zu sehen?

Wenn sie "konservativ" sein will, was denkt sie über das Thema "Kindeswohl" - will sie eine Bevormundung der Eltern durch eine Verfassungsänderung über die Rechte der Kinder einführen? Will sie sie stoppen?

Wenn sie "liberal" sein will, was denkt sie über die Geldpolitik der EZB? Die Position von Mario Draghi, die vielleicht auch von Christine Lagarde im Wesentlich fortgesetzt werden wird, war und ist für mich übernahmen von "politischer Verantwortung" seitens der europäischen Bank; man kann freilich in Frage stellen, dass dies Aufgabe einer Bank ist, dass aber dies eine Aufgabe ist, die ernst genommen werden sollte, wird keiner, der die Einheit Europas ernst nimmt, negieren können. 

Über die Digitalstrategie scheint sie eine präzise Position zu haben. Aber entspricht das, was sie sagt, was jungen Menschen denken, brauchen und empfinden? Wir werden sehen.

Und was denkt sie genau über den Klimawandel? Das Festhalten der Verbrennungsmotoren in Deutschland berücksichtigt diese Dimension der Pflege unseres gemeinsamen Hauses?

Angela Merkel, auch als reformierten Christin, hatte letztendlich eine "praktische" Übereinstimmung mit der "politischen" Haltung des Papstes: Wichtigkeit Europas als ein Polyeders (Vielfalt der Positionen als Chance); Beziehungen untern Staatskontinenten auch als Form eines Polyeders (versus Sphäre) (positive Wirtschaftsbeziehungen zu China als Beispiel), um den Frieden zu konsolidieren. Und die AKK?

Die Idee eines sozialen Pflichtjahres für die Jugend finde ich gut, um den "kollektiven Egoismus" von Anfang an zu bekämpfen.

Wie Augusto Del Noce damals für die "Democrazia cristiana" tat, wünsche ich mir, nämlich dass die CDU sich "philosophisch" mehr positioniert, etwa mit einem Begriff wie die "kritische Legitimität der Moderne" - die Zwischen-Position von AKK: konservativ, liberal und sozial zu gleich ist durchaus eine Position, die diesem Begriff entspricht, aber es musste eine Debatte stattfinden, die nicht nur dazu dient eine "Rücktrittsdrohung" zu formulieren. Politik ist zwar Gestaltung der Macht, aber nicht nur "Wille zur Macht". Und wir brauchen eine Politik, die die Ökologie des Menschen (Benedikt XVI) und die Ökologie tout court (Franziskus) berücksichtigt. Eine Politik die "Armut" (nicht Elend) als ein Wert sieht. Was die Frage nach der Erhöhung der Jahren, in denen man in Rente gehen darf, betrifft, sie entspricht nicht so sehr eine Erziehung zur positività der Arbeit, sondern nur eine Sparmaßnahme, die nicht berücksichtig, dass manche Arbeiten, nach einem gewissen Alter, nicht mehr auszuhalten sind.

Kurz und Gut: mein Urteil über die AKK Rede ist noch in "statu nascendi", aber ich wollte hier ein paar Dingen festhalten, die für mich wichtig sind.

lunedì 18 novembre 2019

La Siria vista con gli occhi di Rafik Schami - "L'amore unisce, la religione separa".

Lipsia. Mi mancano ormai pochissime pagine (sono arrivato alla pagina 416 delle 431 pagine) per completare la lettura del romanzo- giallo di Rafik Schami, "Die geheime Mission des Kardinals" (La missione segreta del cardinale; Monaco di Baviera, 2019). La figura del commissario Barudi mi ha catturato, per la sua gentilezza ed intelligenza. Non sono d'accordo con tutto ciò che Rafik Schami fa pensare e scrivere al commissario: la sua polemica contro la superstizione, a volte, mi sembra esagerata, ma anche lui lascia uno spazio alla possibilità di una vera capacità guaritrice nell'uomo, da distinguere dai trucchi dei ciarlatani e per quanto mi riguarda, avendo letto quasi tutto ciò che forse "l'uomo più dotto del ventesimo secolo", per usare l'espressione di Henri de Lubac, ha proposito di Hans Urs von Balthasar, ha scritto su Adrienne von Speyr so che vi è una mistica sana e vera, che non  è per nulla contraria alla gratuità dell'amore e alla teologia o alla filosofia e che non è contraria all'amore per questa nostra vita, che ci è stata donata gratuitamente. Ma tutto ciò non tocca ancora cosa davvero mi ha "catturato': lo  sguardo che Rafik Schami pone sulla Siria e sul cristianesimo in Siria e che per ora avevo incontrato solamente negli scritti di Riccardo Cristiano. Ed infine quell'eredita di Padre Dall'Oglio che nel dialogo tra cristiani e mussulmani sa che:  "L'amore unisce, la religione separa". Il momento di verità nella critica di Rafik Schami alla superstizione consiste nel fatto che essa è una pseudo risposta al "vuoto insopportabile" del nichilismo odierno e che un popolo superstizioso è facile da manipolare per gli scopi dei sovranisti e dittatori populisti di tutti i colori...

All'inizio della lettura del libro scrissi a quest'ultimo una lettera pubblica in Facebook: 



Caro Riccardo Cristiano, 

sto leggendo un romanzo, di Rafik Schami, nato a Damasco nel 1946, vive in Germania dal 1971, scrive in tedesco; è "solo" un giallo e sono arrivato alla pagina 201 delle 431; contiene delle pagine polemiche contro Benedetto XVI e ancor più contro Padre Pio, che non mi convincono, ma alla pagina 115 parla con un calore umano molto forte di un gesuita, Paolo Siriano, che in vero sembra essere il nostro caro amico padre Dall'Oglio (dico amico, sebbene io non lo abbia mai incontrato di persona).

Il commissario Barudi, il personaggio principale del giallo, è cattolico orientale, unito al Papa, e la sua posizione si lascia semplicemente riassumere in un: fede si, superstizione no. La storia del romanzo è quella di un cardinale che viene in Siria e viene ucciso, si chiama cardinal Cornaro: ha una posizione "illuminata", e non gli piacciono, tanto poco quanto al commissario, i guaritori (e le guaritrici), che considera come un fenomeno da baraccone e come superstizione. La missione segreta consiste nel fatto che deve valutare se un guaritore musulmano, che vive in una chiesa e considera Gesù come un'autorità più grande di Maometto, sia davvero un guaritore autentico. Questa figura "romanzesca" del cardinal Cornaro viene contrapposta all'altra del cardinal Buri, che ha un clan famigliare e mafioso (coinvolto anche con la vendita di armi) nel nord della Siria, dove il cardinal Cornaro verrà ucciso.

La storia è scritta bene e pur contenendo posizioni che non condivido mi sta prendendo ad un livello a cui non lascio arrivare un "giallo", che leggo piuttosto per gusto intellettuale.

Questo cardinale che per mettere alla prova la propria fede "illuminata" rischia e perde la sua vita nella sua missione segreta, questo tema di una connessione intima tra islam e cristianesimo, questo sguardo disincantato sui cristiani della regione che appoggiano un dittatore violento, in qualche modo sono in connessione anche con le cose che dici tu e che scrivi e che in questi anni di conoscenza mi hanno interrogato molto; per questo te ne volevo parlare.
Con affetto, Tuo 

Ora alla pagina 416 so che i cardinale è stato ucciso da un vescovo e dal marito di una pseudo guaritrice di Damasco. Purtroppo so che il commissario Barudi fallisce, perché dall'alto (cioè il dittatore, che viene presentato come un vero criminale, non vuole che si dica che un vescovo siriano ha ucciso un cardinale italiano). Un vescovo cattolico che per vendetta fa uccidere un cardinale e non a causa del riconoscimento del guaritore islamico, ma perché sta mettendo in luce tutto un mondo di corruzione che si copre con la venerazione di pseudo guaritrici come quella di Damasco, è un tema esplosivo. Tanto più esplosivo perché il vescovo mafioso usa anche il culto di Maria per difendere un regime ed un dittatore criminale. Ho scritto ieri sera in un messaggio privato a Riccardo Cristiano: 

Dal giallo di Rafik Schami ne esce fuori un’immagine della Chiesa in Siria davvero terribile. Anche se il patriarca invece ne esce bene (quando ieri sera avevo scritto questa frase non avevo ancora letto la critica radicale che ne fanno il commissario e la sua amica Nariman alla pagina 419), ma ancor più il "popolo fedele" . Il libro di Schami, mutatis mutandis , ha l’effetto su di me che ha fatto il libro di Tornielli e Valente "Il giorno del giudizio", cioè l'effetto di una chiesa che si massacra dal di dentro. Nel romanzo Benedetto XVI viene presentato come una persona debole, ma alla fine, grazie a Dio, prende una decisione forte ed anche se il dittatore della Siria ha difeso il vescovo criminale, lo riduce allo stato laicale. Padre Paolo ne esce dal romanzo in modo grandioso. Come il rappresentante di quella idea del dialogo tra l'Islam e il cristianesimo che si è rispecchiato nel documento di Abu Dhabi sulla fraternità di tutti gli uomini. Di questa abbiamo bisogno, non di magia!

Nel giallo è scritta in grande l'amicizia tra il commissario italiano Marco Mancini e quello siriano, Zaccaria Barudi. Insieme giungono alla soluzione del caso, con l'aiuto di un emiro terrorista, Scharif, che permette di vedere anche con uno sguardo differenziato il mondo del terrorismo islamista, senza aver alcuna simpatia per la loro idea di una repubblica islamica.

È scritto in grande l'idea dell'innamoramento tra uomo e donna come la forza erotica dell'eterno femminino, che conosciamo nella letteratura cristiana da Beatrice e Dante, fino ai nostri giorni.

Ma forse la pagina più profonda è la traduzione di un passaggio del cardinale Cornaro, che distingue tra "armonia" e "monotonia": l'armonia presuppone la differenza come valore. Il cardinale conosce nel profondo l'anima umana e forse per questo è stato ucciso. Sa che esiste una scissione nell'anima, anche in quella degli uomini intelligenti, per cui puoi esprimere un ideale e comportarti come un mafioso. Questa scissione nel cuore dell'uomo, anche cristiano deve essere superata, perché si ricomprenda che solo l'amore gratuito (anche e soprattutto quello vergine per cui Rafik Schami ha simpatia solo nella figura di Padre Paolo) è credibile. E con questo finisco il mio breve articolo citando ancora una volta un passaggio del diario del cardinale "fittizio": "L'amore unisce, la religione separa".

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Forse puoi leggere anche del mio amico Riccardo Cristiano (alla pagina 422 del giallo, che ho letto dopo aver scritto l'articolo, si cita esplicitamente che il successore del vescovo criminale è un giovane vescovo di Homs):



Si dice che alle volte il diavolo farebbe le pentole ma non i coperchi. Chissà se è il caso di quando va accadendo in Libano. Comunque sembra estremamente significativa la decisione che sarebbe stata annunciata in questi giorni dal vescovo greco cattolico di Beirut: in un incontro con il clero avrebbe detto che l’arcivescovo Isidore Battikha, già titolare della diocesi siriana di Homs, lascerà l’eremo dove vive in preghiera dal 2010 in Venezuela e arriverà in Libano, nel convento di Saint Saviour di Sarba, dove è egumeno suo fratello... Riccardo Cristiano 


lunedì 11 novembre 2019

Il Papa visto da Cuba - Roberto Méndez Martínez (Poeta, saggista, narratore e critico d'arte e letteratura)

Scrive Massimo Borghesi nel suo blog: 

Sono appena ritornato da l’Havana dove ho partecipato a una serie di incontri con la Chiesa locale, con intellettuali e giovani. Giornate davvero molto interessanti. Qui sotto pubblico l’intervento del dottor Roberto Méndez, uno degli intellettuali più illustri di Cuba, letto in occasione della presentazione del mio volume “Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intelectual” al Centro Bartolomé Las Casas de l’Havana, venerdì 1 novembre...

https://www.massimoborghesi.com/presentato-a-cuba-jorge-mario-bergoglio-una-biografia-intelectual/?fbclid=IwAR2FyeUFiGPE299ezVxW1hMXYSIzOsWJe8FPxiMpy18DnjlW7E5Lk30BzIM

NB: Puoi leggere qui la mia traduzione dell'intervento di Roberto Méndez Martinéz nei commenti qui sotto al post; traduzione fatta con l'aiuto di deepl.com. RG

Intervento di Roberto Méndez:

Quando Papa Francesco si recò a Cuba nel settembre 2015, l'isola aveva già ospitato altri due pontefici: Giovanni Paolo II (1998) e Benedetto XVI (2012). Ho "affreschi" nella mia memoria dei dettagli della visita. Gli sono stato molto vicino quando si è rivolto ai giovani davanti alle porte del vecchio edificio del Seminario di San Carlo e Sant'Ambrogio. L'ho visto rifiutare un ombrello che gli veniva offerto e ha deciso di immergersi nella pioggia cubana insieme a tutti noi. Durante i suoi viaggi ha messo alla prova i nervi di coloro che lo scortavano, rompendo continuamente il protocollo per salutare gli anziani, benedire i bambini o raggiungere le persone semplici che lo aspettavano sul ciglio della strada.

 Sia i giornalisti che il pubblico che partecipava a quei giorni, credenti o meno, non trovavano in lui il maestoso atteggiamento che si associava ai precedenti pontefici e, per buona parte dei cristiani cubani, le sue arie di semplice parroco erano molto attraenti, ricordandoci sacerdoti di spicco nella vicina storia dell'isola. La stessa cosa è successa con i suoi messaggi diretti, con i suoi discorsi spogliati di retorica. Qualche giorno dopo, ho scritto su questo tema un articolo per la rivista digitale La Jiribilla, del Ministero della Cultura, dove lavoravo all'epoca:

"Molte volte mi sono chiesto se Francesco sia un grande oratore. Se mi attengo alle convenzioni accademiche devo dire di no. Non ha la parola magnetizzata dalla poesia di Giovanni Paolo II, né l'equilibrio e l'eleganza di Benedetto XVI, i suoi discorsi non raggiungono mai l'altezza di un pezzo letterario. D'altra parte, posso assicurarvi che è un comunicatore eccezionale, parla in tono semplice, che cerca di raggiungere il pubblico più semplice, i suoi esempi sono presi dalla vita quotidiana e scommette più sul tono da conversazione che sull'elevazione dell'oratoria sacra tradizionale. Cita l'indispensabile, quasi sempre dai Vangeli, e non pretende di essere uno studioso. I suoi detti, aneddoti e lezioni morali sono molto simili a quelli che un buon narratore orale utilizzerebbe. In breve, è una parola che conquista molti, ma non è destinata ai gusti squisiti (degli intellettuali)."


 C'è un dettaglio che forse pochi hanno notato. Bergoglio, pur avendo un'ottima formazione teologica e umanistica, come chi è stato educato dai figli di Sant'Ignazio di Loyola, preferisce non esporlo. Inoltre, non ha paura di parlare la lingua elementare dei parroci popolari. Invece di sottigliezze dogmatiche, usa termini che sembrerebbero comuni al nostro mondo pragmatico di oggi.

Purtroppo, purtroppo, proprio quello che molti di noi consideravano un merito è stato visto come una mancanza. Molti dei suoi avversari, della Chiesa o lontani da essa, hanno insistito su temi come la sua "scarsa preparazione teologica", la sua presunta limitazione in campo filosofico o una sorta di pauperismo nella sua espressione che alcuni pensano sia un segno della sua adesione alla teologia della liberazione.


 Per questo motivo, sono stato felice di leggere il libro del professor Massimo Borghesi: Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica. In essa, il suo autore mostra, in modo sistematico e ben argomentato, le principali fonti che hanno alimentato il pensiero del giovane gesuita, divenuto poi arcivescovo di Buenos Aires, prima di arrivare al pontificato. Ci mette davanti agli occhi la diversità delle sue fonti, che provengono dai campi della teologia, della filosofia, del pensiero sociale, della storia e della letteratura, così come il modo in cui ha saputo estrarne gli strumenti essenziali per formare un pensiero ricco e originale, in cui è riuscito a coordinare con cattolicità universale, senza provincialismo o superficialità, ciò che è proprio della sua patria e di un intero continente.

L'autore del libro ci conduce con rigore investigativo e sistematicità pedagogica in ciascuna delle principali correnti: prima di tutto, la traccia degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Loyola, perfettamente spiegabili in un figlio della Compagnia di Gesù, ma approfonditi dall'assimilazione della loro interpretazione da parte del francese Gaston Fessard SJ, che sottolineava la dialettica degli opposti nella spiritualità ignaziana, non perché si sottometteva alla dialettica hegeliana, dalla quale si allontanò pur essendone un conoscitore, ma segue il cammino del discepolo di Maurice Blondel, per creare una tensione tra i poli che può essere risolta in armonia, senza che sia necessario annullare uno degli opposti; questo modi di pensare Francesco lo ha approfondito, dal punto di vista metodologico, nei suoi scritti, non solo per il suo insegnamento sulla vita spirituale, ma anche per spiegare alcuni dei problemi più urgenti del nostro tempo, nella natura e nella società.

 Se le pagine dedicate a mostrarci come questa dialettica polare sia stata alimentata anche dall'opera di Romano Guardini, che viene a smentire ancora una volta la presunta mancanza di conoscenza teologica di Bergoglio, sono importanti, a mio avviso è molto più importante lo spazio dedicato alle influenze locali che hanno contribuito a formare alcune opzioni del suo pensiero, ad esempio, il discernimento che ha dovuto fare in gioventù, in un'Argentina divisa dalla violenza, in cui alcuni credenti sostenevano i governi militari, mentre altri erano inclini alla lotta armata dei gruppi di sinistra, in alcuni casi alimentati dalla "teologia della liberazione" che cercava di conciliare il materialismo dialettico con il messaggio evangelico. Come egli stesso affermò anni dopo: "Rimase nella fede per arricchire da essa la politica".

Gli insegnamenti della pensatrice Amelia Podetti, profonda conoscitrice delle filosofie di Husserl e Hegel, lo aiutarono in questo cammino. Lei, dalla critica di quest'ultima (la filosofia di Hegel), ha potuto rivendicare per l'America Latina "una rinnovata autocoscienza" e, proprio come le Lettere del Nuovo Mondo avevano acquisito una dimensione universale, spinte dal boom del romanzo latinoamericano, un salto analogo era necessario nella produzione filosofica di questo lato dell'oceano. Partendo dal suo pensiero, Bergoglio ha potuto sottolineare una nuova interpretazione della Città di Dio di Sant'Agostino, concepita come l'altro polo - opposto a Hegel - della filosofia della storia, che serve a respingere le "teologie imperiali" di destra o di sinistra, poiché il vescovo di Ippona è sia "legale" che "rivoluzionario" e non identifica la sua Città Santa con alcuno stato (1).

Tuttavia, l'impronta che più spicca nel volume è quella lasciata nel gesuita dall'intellettuale uruguaiano Alberto Methol Ferré. Questo teologo ed esperto di scienze sociali, considerato il laico meglio preparato del suo tempo nel continente americano, ha seguito un percorso che lo ha fatto convergere con il gesuita argentino. Già decenni prima della sua salita al pontificato, Bergoglio ebbe frequenti incontri con colui che si definiva "neotomista selvaggio" e che, di fronte alle dicotomie fondamentaliste - illuminismo, tradizionalismo-secolarizzazione, scommette sulla categoria "risurrezione" per applicarla alla Chiesa in America, il che implicava un dialogo critico con il moderno e una rivalutazione del cattolicesimo popolare, secondo la tradizione del barocco americano.

Methol ha lavorato alla preparazione della Conferenza di Puebla (1979) e ha contribuito non da ultimo al suo scambio di idee. Egli riteneva che fosse possibile una sintesi del barocco con l'autocoscienza dell'uomo moderno, che superasse la lunga contraddizione tra la Chiesa conservatrice e la modernità intesa in chiave positivista. Ma, a differenza di Gustavo Gutiérrez, ad esempio, ha respinto la soluzione proposta da una parte importante della teologia della liberazione di utilizzare la metodologia marxista per la comprensione critica della società e che spesso è servita da legittimatore della violenza come soluzione ai conflitti sociali. La sua opera intellettuale era più orientata allo studio della storia e della cultura latinoamericana per scoprire i semi di una rinascita religiosa in quello che Paolo VI chiamava "il continente della speranza". L'idea era di contestualizzare e aggiornare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II da questa parte del mondo, con il sostegno di una cultura umanista che non era separata dall'elemento popolare, ma senza un'identificazione pura con le correnti ideologiche della modernità, il che significava allontanarsi dalla filosofia della storia di Hegel, così come dal Capitale marxista o dall'Etica protestante e dallo Spirito del Capitalismo di Max Weber.

 E ', tra l'altro, la prima volta che si riconosce che un arcivescovo e poi successore di Pietro, è stato direttamente influenzato da un teologo laico, quando la cosa abituale era che sono stati accettati solo come consiglieri e teologi ispiratori chi portava un collare e una tonaca.

E' difficile per me evidenziare tutto ciò che mi sembra meritorio o importante in questo libro di Massimo Borghesi. Confesso di aver apprezzato la scoperta del Bergoglio responsabile del Colegio Máximo di Buenos Aires che rivede i programmi di formazione e, insieme allo studio della letteratura europea, pretende di inserire i modelli argentini, da Martín Fierro a Borges, sapendo che esigeva che sapessero "di gauchos e caudillos, e non solo di treni e telegrafi".

È la stessa mente inquieta che, per criticare l'astrazione rivoluzionaria che antepone l'ideologia alla realtà, può contare su una lettera scritta nel 1834 da Juan Manuel de Rosas a Facundo Quiroga, entrambi signori della guerra argentini, ampiamente denigrata dal discorso del liberalismo moderno. Colui che è in grado di riferirsi alla trasmutazione del barocco portato dai gesuiti nel Nuovo Mondo e che cita lo scrittore cubano Alejo Carpentier sul rapporto tra geografia e barocco americano. Sono esempi di un pensiero che, come il poliedro, ha molteplici sfaccettature ed è carico di potenzialità di trasformazione.


Non bisogna dimenticare che tutto il quadro teologico-filosofico del pensiero di Francesco è coronato dalla mistica, non da quella dello spiritualismo disincarnato, che ignora i problemi del mondo per rifugiarsi in una sorta di alienazione, ma da uno spiritualità molto diversa, basata sul mistero dell'Incarnazione, affinché la vita spirituale non sia separata dall'esperienza sensoriale: il vedere, toccare il prossimo, il sentirsi in comunione con lui, sono essenziali. In essa azione e contemplazione non si contrappongono ma si completano a vicenda, così come la misericordia nella sua pienezza non sostituisce la verità, ma l'una si nutre dell'altra. E tutto raggiunge la sua pienezza nell'unità dei trascendentali: verità, bellezza e bontà.

Un avvertimento deve essere dato ai potenziali lettori cubani. In tutto il libro ci sono abbondanti riferimenti alle circostanze storiche latinoamericane tra gli anni '60 e il presente, che differiscono radicalmente dalle circostanze cubane. Ad esempio, dal 1961 in poi, il marxismo nella sua variante leninista fu assunto come ideologia ufficiale dello Stato, che ben presto entrò in conflitto con la Chiesa, per cui non si cercò, in ambiti ecclesiali, di seguire le orme della "teologia della liberazione", ma ne emerse una forte prevenzione. Allo stesso modo, solo un numero minimo di chierici e un numero ancora minore di laici conosceva l'esistenza di Alberto Methol. È vero che la conferenza di Puebla è stata l'ispirazione per l'ENEC, nella cui relazione finale c'è la volontà di dialogo e di apertura alla cooperazione in alcuni campi con le autorità, ma la Chiesa è rimasta legata all'urgenza di sopravvivenza, con un concetto di unità proprio di una fortezza assediata, che spesso ha rovesciato l'equilibrio - come è avvenuto in Polonia - verso il tradizionalismo e il conservatorismo. Sebbene le riforme liturgiche del Concilio siano state applicate all'epoca, alcune novità contenute nei suoi documenti, come il vero ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, rimangono a Cuba una questione in sospeso.

Tali circostanze spiegano che non ci sono stati, come in alcune parti del continente americano, dissensi su alcune concezioni sociali e politiche di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Tuttavia, insieme alla simpatia per la figura di Francesco, rimangono nelle nostre sacrestie alcuni dubbi sulla sua opera di riforma ecclesiale.

Non dimentichiamoci nemmeno un fatto storico, solo nel periodo 1898-1901 la Chiesa locale si separò dal Patronato Reale Spagnolo e iniziò il suo lento processo di cubanizzazione. Quindi, è innegabile che la Chiesa di Spagna era il nostro specchio, e ancora oggi abbiamo più contatti con essa che con quella del Messico, di El Salvador o dell'Argentina, e nello stesso tempo bisogna sottolineare che, dato l'alto numero di parrocchiani cubani emigrati negli Stati Uniti, i contatti con un settore piuttosto conservatore del cattolicesimo nordamericano, ancora poco studiato, sono in crescita.


Un ultimo dettaglio, nella storia coloniale di Cuba, è emerso nei primi decenni del XIX secolo una versione particolare dell'Illuminismo, che ha unito in alcuni dei suoi illustri esponenti, il liberalismo e la fede cristiana, la ricerca di libertà e il messaggio evangelico. È il caso del venerabile padre Felix Varela, sacerdote e patriota esemplare, che, tra l'altro, nelle sue Lettere a Elpidio ha interpretato La città di Dio di Agostino in un senso simile a quello di Methol e Francesco. Ma questo significa che tra noi il termine Illuminismo non ha il sapore dell'inimicizia e dell'ostacolo che possiede per il laico uruguaiano.

Proprio a causa di tutte queste peculiarità della nostra isola, c'era urgente bisogno di un libro come questo, che facilita una lettura più proficua dei testi papali e ci permette di valutare quanto ci sia di un sano rinnovare nell'opera del Papa.


Nell'aprile 2013 ho scritto un articolo per la rivista "Palabra Nueva" dedicato all'inizio del suo pontificato. Ho iniziato riferendomi a come nella Messa della sua installazione decine di persone portavano manifesti con l'invito che Dio fece in sogno a San Francesco d'Assisi: Francesco, va', ripara la mia casa. Dopo aver tracciato un parallelo tra le circostanze storiche che hanno segnato l'esistenza dei due Francesco, ha concluso: Dopo la sua elezione, ho sentito molte persone, cristiane o meno, chiedersi ad alta voce: Francesco sarà davvero in grado di risolvere tutti i problemi che la Chiesa ha? Onestamente, penso che ci sia molta ingenuità in quella frase. Nessun pontefice, nemmeno un santo come quello di Assisi, può risolvere tutti i problemi della Chiesa, siano essi interni, motivati dal peccato personale dei suoi membri, o dai loro rapporti con il mondo, perché cesseranno solo con il secondo avvento di Nostro Signore Gesù Cristo. La sua missione è di guidarla con saggezza e di aiutarla a santificarsi con la grazia speciale dello Spirito Santo.

Un lustro più tardi potrei confermare queste parole. Solo che sono convinto, e il libro del professor Borghesi mi è giunto a confermarlo, che le novità che scandalizzano così tanti sono parte di quella riforma delle strutture ecclesiali che è iniziata con il Concilio Vaticano II e che ora continua, segnata dal ritmo ascendente del barocco americano, drammatico, spettacolare, con il suo lato sanguinante nella rappresentazione di Cristo e di quegli angeli "arcabuccali" che spaventano i "timoratos" nei pomeriggi di tempesta.





Informazioni sull'autore

Roberto Méndez Martínez (Camagüey, 1958) Poeta, saggista, narratore e critico d'arte e letteratura. Laurea in Sociologia all'Università dell'Avana (1980) e dottorato di ricerca in Scienze dell'Arte all'Instituto Superior de Arte de La Habana (2000). Professore e Capo del Dipartimento di Storia e Cultura dell'Istituto di studi ecclesiastici "Padre Félix Varela" dell'Avana. Membro dell'Accademia Cubana di Lingua e Corrispondente dell'Accademia Reale Spagnola. Consulente del Pontificio Consiglio della Cultura della Santa Sede dal 2008. Ha pubblicato una quarantina di volumi di case editrici di Cuba, Messico, Venezuela, Spagna e Stati Uniti, tra i più recenti sono i saggi Placido y el laberinto de la ilustración (Editorial Letras Cubanas, Colección Premio Alejo Carpentier, 2017) e Una noche en el ballet. Guida per gli spettatori di buona volontà. (Ediciones Cumbres, Madrid, 2019). Ha ricevuto a Cuba, tra gli altri, il Premio di Poesia "Nicolás Guillén", 2000; i Premi Saggio "Alejo Carpentier", 2007 e 2017; il Premio Romanzo "Alejo Carpentier", 2010 e il Premio Romanzo Ítalo Calvino (Editorial Unión-ARCI, Italia), 2014 e in sei occasioni il Premio Annuale di Critica. Anche i vincitori internazionali: José María Heredia International Bicentennial Essay Prize (Toluca, Messico, 2004), "Mariano Picón Salas" International Essay Prize (CELARG, Venezuela, 2011) e l'International Cervantine Essay Contest Prize (Museo Iconográfico del Quijote-Fundación de Estudios Cervantinos e Instituto Tecnológico de Monterrey, Guanajuato, Messico, 2014).


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(1) Rinvio al lavoro che sto compiendo in questi giorni sulla "De civitate Dei" di Agostino. 

(9.11.19) Come abbiamo sottolineato nel titolo del post: "Nessun ambito sulla terra è univocamente Babilonia, nessuno univocamente Gerusalemme". Balthasar, 1960, sulla "Civitas Dei" di Agostino, come dal punto di vista della percezione dell'uomo non è del tutto chiaro chi sia davvero dentro e chi sia davvero fuori dalla città di Dio, ma ciò non significa una prolificazione di città, non vi sono quattro città: due buone per gli angeli e gli uomini buoni e due cattive, per gli angeli e gli uomini cattivi, ma per l'appunto due città; in quella di Dio ci sono gli uomini e soprattuto (per quanto riguarda la gerarchia del valore, se ho capito bene Agostino) gli angeli. E nell'altra c'è il Nemico! Tutte le creature sono state create da Dio, il Nemico non ha creato nulla. L'unico creatore è Colui che è Eternità, Verità ed Amore. Per quanto riguarda la loro "natura" tutte le creature sono creature di Dio, ma alcune, per loro volontà e desiderio, hanno proiettato eternità, verità ed amore su stessi: si sono inebrianti con un pseudo potere. In Agostino il male non è una "necessità" come per Hegel. Chi sceglie il male scambia l'eternità per una sopravvalutazione oscura di se stessi; una verità certa per una furbizia senza senso ultimo; non si fa guidare più dall'amore gratuito di Dio, ma dall'arroganza, dall'inganno e dall'invidia. Tutto ciò che si fa nel male non è causa efficiens, ma deficiens. Insomma chi fa il male non fa il male, ma non fa il bene!

La grande scelta a cui ci invita Agostino, come ho già detto, consiste nell'adorare Colui che solo è buono, solo è felice e il nostro compito di uomini e di appartenere e dipendere da Lui. Io, piuttosto sto con Hans Urs von Balthasar, nella Teologica I e non farei come Agostino che traccia un "confine" nella creazione tra chi ha coscienza e sensibilità e chi non c'è l'ha. Direi piuttosto che, certo in una forma minima, anche una pietra ha una sua intimità e partecipazione all'Unico bene. Comunque sia, Agostino ha ragione quando dice che vi è un solo bene immutabile, Dio stesso; noi siamo un bene relativo a quel bene unico, ma siamo mutabili e lo siamo perché a differenza di Dio siamo stati creati "dal nulla"; sarebbe importante fare alcuni passi nella comprensione di questo "nulla", che non è il nulla dell'amore gratuito, ma una contrapposizione all'essere; Dio non ha bisogno di nulla per essere e di fatto è da sempre l'Immutabile (l'origine senza origine di tutto), non ha bisogno neppure di un "nulla sostanziale" per creare; la creazione "dal nulla" non è una contrapposizione dialettica; Dio crea pur non avendone bisogno, crea "per nulla", non solo e non primariamente "dal nulla"; cosa è allora questo "dal nulla": infondo si tratta del fatto che nella creazione dell'uomo o di un angelo Dio non presuppone qualcosa, se non se stesso e la sua volontà di creare ( e in un certo senso anche colui che vuole creare, una sua idea per esempio). Infondo quel "dal nulla", significa "per nulla", se non nel caso in cui in un processo di estraniazione da Dio il nulla diventa un "nulla sostanziale" che contraddice l'essere come amore, come dono. In quel momento il "nulla" diventa espressione del nichilismo.

In cosa consiste la città di Dio (civitas Dei)? Nella dipendenza da Dio; appartiene a questa città chi dipende da Dio e può dire con il Salmo 73:

[28] Il mio bene è stare vicino a Dio (è dipendere da Dio):
nel Signore Dio ho posto il mio rifugio,
per narrare tutte le tue opere
presso le porte della città di Sion.

"Tutti coloro che partecipano a questo "bene"formano con Colui da cui dipendono e tra di loro una santa città (civitas, comunità), una civitas Dei" e questa comunione, dice Agostino vale in primo luogo per gli angeli. Mi spiego questa cosa così: gli angeli che hanno scelto Dio guardano sempre Dio e dipendono del tutto da noi; noi invece pur dipendendo, dipendiamo nella carne anche da altro (e questo non solo in senso negativo), per esempio da un buon bicchiere di vino.


(11.11.19. San Martino) Chiediamoci ora più precisamene che cosa sia la "civitas Dei"? Essa non è identificabile con uno stato, neanche con uno stato in cui vi sia una maggioranza di cristiani (Jorge Mario Bergoglio, Albero Methol Ferré, Felix Varela...) e neppure con la Chiesa che cammina sulla terra. Agostino dice che esso è composto dalla Chiesa che è in cielo e da quella sulla terra, nello loro essere centrare in Dio: 

 "Sei tu il mio Signore, 
senza di te non ho alcun bene" (Ps 16,2) - nella traduzione dell'antologia di 
Balthasar: "Sei tu il mio Signore, perché non hai bisogno dei miei beni". Il culto principale della città di Dio è la giustizia. "Dove manca la giustizia non vi è certamente un'unione di uomini uniti da un'uguaglianza di diritti e di interessi", come lo deve essere la civitas Dei. La città di Dio è caratterizzata dai comandi di Dio, che vengono realizzati attraverso la sua grazia. Il culto liturgico e di giustizia ha solo Dio come suo ultimo senso. Mancando la giustizia le persone che fanno parte di questa città, non ne fanno parte davvero, per mancanze del corpo (mancano di governo corporale), dell'anima (mancanza di governo dell'anima) o della spirito (mancanza di un adeguato si alla missione che Dio ci ha dato). La città di Dio vuole che i suoi cittadini siano come un solo uomo che ama Dio in sé e il prossimo come se stesso. 

Nella città di Dio vige una differenza tra il sacerdozio di Melchisedec  che è eterno e quello di Aronne, che finisce con questo evo. Non saprei al momento come dividere bene i due ambiti. Sarei tentato di dire, ma non ho ancora tracce sicure in Agostino, se non la sua insistenza sulla giustizia come vero sacrificio, che il sacerdozio di tutti i fedeli in Cristo è eterno, mentre quello clericale finisce, con la fine di questo evo. 


L'unico mediatore tra Dio e l'uomo è Cristo, che è venuto nella sua "forma di servo" - credo che sia importante sottolineare ciò in modo particolare per il dialogo con l'Islam, che a sua volta conosce una singolarità di Gesù, anche se non come figlio di Dio. Per fare parte della città di Dio, bisogna portare il peso leggero della croce quotidiana e morire alla brame di questo mondo (sarà necessario distinguere tra brama e desiderio, forse più di quanto faccia Agostino). L'insistenza sui peccati sessuali secondo me non fa bene ad una reale comprensione, nel nostro mondo secolare, di cosa significhi "non adeguarsi al mondo". Per fare un esempio: ci sono giovani che non seguono il consiglio della chiesa di non praticare il sesso prima del matrimonio, che sono molto meno mondani di giovani tradizionalisti che seguono questo consiglio. Perché il sesso oggi è piuttosto una modalità per vedere se si é amabili, che una questione di volontà di potenza, mentre quest'ultima può esprimersi molto più nella brama di carriera. Etc. 

 https://graziotto.blogspot.com/2019/10/nessun-ambito-sulla-terra-e.html?fbclid=IwAR1fQtz-8CZc8zS_giu1bWyb8GSoF_YLkiQ_sT_o6F7Z9aizQCk84VuQTdk

venerdì 8 novembre 2019

Ist die Zeit von 1914 bis 1945 als ein zweiter "dreißigjährigen Krieg" zu betrachten? - Johanna Graziotto

Diese historische Hausarbeit meiner Tochter, Johanna Graziotto, die sie im Rahmen eines Oberseminares bei  Prof. Dr. Edgar Wolfrum geschrieben hat, finde ich besonders wichtig auch für ein Publikum von Nicht- Historikern. Wie können wir Geschichte Periodisieren? Ist die Geschichte mehr in ihrer Kontinuität oder mehr in Einzelnen Ereignissen zu betrachten? Ich habe sehr viel von dieser Arbeit gelernt. RG 

1. Einleitung

In der Geschichtswissenschaft wird seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs diskutiert, ob die Zeit von 1914 bis 1945 einen zweiten Dreißigjährigen Krieg begründet.Bis zur ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts war der Dreißigjährige Krieg des 17. Jahrhunderts fest im kollektiven Gedächtnis verankert und wurde als Vergleichsvariabel für andere Kriege verwendet.Daher ist es nicht überraschend, dass bereits Zeitgenossen, wie Charles de Gaulle, von einem zweiten Dreißigjäh- rigen Krieg sprachen.3
Möchte man die Terminologie des „zweiten Dreißigjährigen Kriegs“ geschichtswissenschaftlich verwenden, wird man jedoch mit einigen Schwierigkeiten konfrontiert. Vergleicht man die erste Hälfte des 17. Jahrhunderts direkt mit der des 20. Jahrhunderts4, oder verwendet man den Begriff als Topos für eine Phase langanhaltender und zahlreicher kriegerischer Handlungen? Zudem kann die Reduzierung jener Jahre auf den Aspekt von Gewalt und Krieg der Heterogenität der Zeit nicht gerecht werden.
Wenngleich die sogenannte Zwischenkriegszeit keineswegs friedvoll war,finden sich in dieser dennoch positive Entwicklungen, demokratische Ansätze und pazifistische Bewegungen. Einer der markantesten Versuche einen internationalen Frieden zu schaffen, ist der Völkerbund. Im Rahmen der Pariser Vorortverträge zeigt er das Bestreben der Alliierten, einen weiteren Welt- krieg zu verhindern. Dennoch verweisen die zahlreichen Revolutionen, Bürgerkriege und militärischen Konflikte der Zwischenkriegszeit auf die Kontinuität von Gewalt in dieser Periode.
Das Ziel dieser Arbeit ist es, zu erörtern, ob die Periodisierung der Zeit von 1914-1945 als ein dreißigjähriger Krieg zulässig ist. Zunächst wird eine kurze Begriffserklärung anhand von Forschungsbeiträgen erfolgen, danach die Festlegung der Begriffsverwendung im Rahmen dieser Arbeit und im Folgenden werden Argumente für und gegen die Verwendung des Begriffes gegenüber (Fortsetzung nach den Anmerkungen 1 bis 5)

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Vgl. BARTH, Boris: Europa nach dem großen Krieg. Die Krise der Demokratie in der Zwischenkriegszeit 1918-1938, Frankfurt/New York 2016, S. 18-19.
Vgl. MÜNKLER, Herfried: Tränen des Vaterlands, in: FAZ online (2018) (https://www.faz.net/aktuell/politik/die-
gegenwart/herfried-muenkler-30-jaehriger-krieg-15692315.html, zuletzt besucht am 28.09.2019).
Vgl. WEHLER, Hans-Ulrich: Der zweite Dreißigjährige Krieg? Der Erste Weltkrieg als Auftakt und Vorbild für den Zweiten Weltkrieg, in: Der Erste Weltkrieg. Die Urkatastrophe des 20. Jahrhunderts, hrsg. von Stephan Burg- dorff/Klaus Wiegrefe, München 2010, S. 23-35, S. 23.
Vgl. MAYER, Arno J: Der Krieg als Kreuzzug. Das Deutsche Reich, Hitlers Wehrmacht und die „Endlösung“, Reinbek 1989, S. 48.
Der Begriff der Zwischenkriegszeit ist mit Vorsicht zu verwenden, da er einerseits einen gewissen Determinismus impliziert, denn von einer Zwischenkriegszeit kann erst ab 1939 gesprochen werden und er andererseits der Hetero- genität der Periode nicht genügen kann.
Vgl. BARTH 2016, S. 19.
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2. Seite

gestellt. Es ist dabei zu beachten, dass einige Beispiele nicht kommentarlos stehen gelassen werden können und andere, je nach Auslegung, Argumente beider Seiten unterstützten können. Daher kann keine eindeutig zweigeteilte Gegenüberstellung erfolgen.

2. Begriffsklärung anhand von Forschungsbeiträgen

Die Terminologie des „zweiten Dreißigjährigen Krieges“ ist keine Erfindung der historischen Forschung. Bereits im 19. Jahrhundert warnte der Generalfeldmarschall Helmuth von Moltke vor einem Krieg auf europäischen Boden, der die Ausmaße des Dreißigjährigen Krieges annehmen könne. Dabei verstand er den Begriff als Chiffre eines sich endlos hinziehenden Kampfes, der durch einen Erschöpfungsfrieden beendet werde.Auch Friedrich Engels sagte einen Krieg vor- her, der die Verwüstung des Dreißigjährigen Kriegs komprimiert in eine Zeitspanne von drei bis vier Jahren mit sich bringe.7
Während des Zweiten Weltkriegs griffen zwei Vertreter der militärischen Elite die Terminologie wieder auf. Charles de Gaulle verstand die Zeit ab 1914 als zweiten Dreißigjährigen Krieg, der erst mit dem Sieg über Deutschland enden werde.Auch Churchill schrieb 1944 in einem Brief an Stalin, er betrachte „diesen Krieg gegen die deutsche Aggression als ein Ganzes und als einen dreißigjährigen Krieg von 1914 an“.9
In die geschichtswissenschaftliche Deutung der Epoche der zwei Weltkriege führte Raymond Aron den Begriff ein.10 In seinem Werk Der Krieg als Kreuzzug argumentierte Arno Mayer, dass aufgrund der Parallelen und Übereinstimmungen der Epochen von 1618-48 und 1914-45 sich die erste Hälfte des 20. Jahrhunderts als Phase eines zweiten Dreißigjährigen Krieges konstituiere.11 Er versteht beide Periode als Zeiten einer allgemeinen Krise, die das politische und gesellschaft- liche System umfasst habe. Diese fungiere zugleich als „Ursache und Folge eines totalen und ungeheuerlichen Krieges“, der das Fundament Europas erschüttere.12 Mayer vergleicht Richelieu und Gustav Adolf mit Winston Churchill und Josef Stalin als unwahrscheinliche Verbündete zur

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Vgl. MÜNKLER 2018.
Vgl. WEHLER 2010, S. 23. Vgl. ebd.

Churchill 1944, S. 254.
Er nutzt an dieser Stelle den Begriff zur Legitimierung der Festsetzung territorialer Grenzen zugunsten der Sowjet- union gegenüber der polnischen Regierung.

10 Vgl. WEHLER 2010, S. 24. 11 Vgl. MAYER 1989, S. 65-67. 12 Ebd., S. 65.

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Sicherung des Kräftegleichgewichts im Kampf um kontinentale Hegemonie. Zudem konstatiert er, dass in beiden Fällen die kriegerischen Auseinandersetzungen für eine große Zahl an Zivilis- ten den Tod bedeutete.13Bereits im Dreißigjährigen Krieg vermischten sich weltliche und religiöse Motive. Mayer sieht den konfessionellen Konflikt zu Beginn des 20. Jahrhunderts im Kampf zwischen den Ideologien des Faschismus und Bolschewismus. Hitlers Bestreben bezeichnet er dabei als „säkulare Religion“, die sich den modus operandi der katholischen Kirche zu eigen gemacht habe.14
Mayer verweist jedoch auch auf den in seinen Augen bedeutsamsten Unterschied zwischen den beiden Epochen. Der Dreißigjährige Krieg des 17. Jahrhunderts markiere die „Endphase des ideologischen Ringen zwischen Katholizismus und Protestantismus“, während der Dreißigjährige Krieg des 20. Jahrhunderts den Höhepunkt der ideologischen Konflikte darstelle.15
In seinem 2010 erschienen Aufsatz Der zweite Dreißigjährige Krieg stellt Hans-Ulrich Wehler die Frage nach Kontinuitätsbrücken zwischen dem Ersten und Zweiten Weltkrieg. Er postuliert die These, dass mit dem Ersten Weltkrieg die Vorgeschichte des Zweiten beginne.16 Er sieht in der Zeit von 1914 bis 1945 eine Phase der Kontinuität von Gewalt und Krieg, die sich beispielsweise in der Weimarer Republik durch einen Bürgerkrieg zwischen dem linken und rechten Lager manifestiere.17 Wehler beendet seine Ausführungen mit der These:
„Unstreitig ist, dass die Erfahrung, der Verlauf und der Ausgang des ersten totalen Krieges den zweiten in hohem Maße vorgeprägt haben. Es ist dieser Zusammenhang, der die innere Einheit des zweiten Dreißigjährigen Krieges konstituiert.“18
An diesem Punkt setzt die Kritik Peter März’ an der Terminologie eines zweiten Dreißigjährigen Krieges an. Auf dem europäischen Kriegsschauplatz seien die „ideologischen und mörderisch- eliminatorischen Aspekte“, die die Einzigartigkeit und Grausamkeit des Zweiten Weltkriegs be- dingten, erst nach dem Ende des Ersten Weltkrieges zu finden.19

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13 Vgl. ebd.
14 Ebd., S. 50-69.
15 Ebd., S. 65.
16 Vgl. WEHLER 2010, S. 24-26. 17 Vgl. ebd., S. 34.
18 Ebd., S. 35.

19 MÄRZ, Peter: Nach der Urkatastrophe. Deutschland, Europa und der Erste Weltkrieg, Köln/Weimar/Wien 2014, S.131.
Auch Boris Barth konstatiert, dass zwischen den beiden Konflikten keine einfache Kausalität bestehe.
Vgl. BARTH 2016, S. 20.


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3. Begriffsverwendung in dieser Arbeit

Im Rahmen dieser Arbeit soll kein expliziter Vergleich des Dreißigjährigen Kriegs mit der Zeit von 1914-1945 im Sinne Arno Mayers erfolgen.20 Dennoch sollen an dieser Stelle zwei der von ihm skizzierten Parallelen kurz aufgegriffen werden.
Tatsächlich forderte sowohl die erste Hälfte des 17. als auch die erste Hälfte des 20. Jahrhundert eine große Zahl ziviler Opfer. Während des Dreißigjährigen Krieges starben die meisten Zivilis- ten durch plündernde Söldnerheere sowie durch von den Umständen des Kriegs bedingte Seu- chen und Hungersnöte.21

Dies erscheint mir nicht vergleichbar mit dem gezielten millionenfachen Morden aufgrund von politischen, ethnischen und ideologischen Beweggründen seitens zweier Diktatoren. Der an den europäischen Juden verübte Holocaust markiert eine der schlimmsten Tragödien der Geschichte. Ernst Nolte, der die Zeit von 1917-1945 als „europäischen Bürgerkrieg“ bezeichnete,22 konstatiert in seinem gleichnamigen Werk:
„Aber in all dem spiegelte sich, [...], doch nur die Tatsache, daß in Deutschland etwas begonnen hatte, was in der Welt präzedenzlos war: die Bekämpfung und Entrechtung der Juden als Juden in einem modernen Staat, in dem de- ren Emanzipation, d.h. die rechtliche und faktische Gleichstellung mit den übrigen Staatsbürgern, seit geraumer Zeit abgeschlossen war.“23
Folglich erscheint es mir auch fragwürdig, ob man die konfessionellen Konflikte des Dreißigjäh- rigen Kriegs mit den ideologischen Kämpfen im Zweiten Weltkrieg vergleichen kann.
Im Mittelpunkt dieser Arbeit steht jedoch die Frage, ob man die Bezeichnung „zweiter Dreißig- jähriger Krieg“ als strukturellen Wendepunkt verwenden kann. Dabei wird der Terminus im Sinne Moltkes als Chiffre oder Topos für eine langanhaltende Phase von kontinuierlicher Gewalt und kriegerischen Handlungen verwendet. Bei einer solchen Verwendung ist es notwenig zu fra- gen, welchen historischen Nutzen diese Form der Periodisierung birgt.


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20 Neben den Ausführungen Mayers findet sich bei Peter März ein Vergleich zwischen dem Friedensschluss nach dem Ersten Weltkrieg und dem Westfälischen Frieden von 1648.
Vgl. MÄRZ 2014, S.73-84.

21 Vgl. MAYER 1989, S. 51.
22 NOLTE, Ernst: Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus, Frankfurt/ Main 1987, S. 1.
Diese Variante der Periodisierung greift der Kritik voraus, dass sich die Radikalität des Bolschewismus und Natio- nalsozialismus erst mit dem Ende des I. Weltkrieges manifestierte. Barth betont jedoch, dass die Zeitgenossen den Begriff des Bürgerkriegs nicht verwendet hätten, da die Kategorie des Nationalen alles überwölbt habe.

Vgl. BARTH 2016, S. 19. 23 Ebd., S. 42.

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3.1 Die Problematik der Periodisierung

Das 20. Jahrhundert ist gekennzeichnet von einer großen Anzahl von Wendepunkten und Zäsu- ren. Dies bedingte die Schnelllebigkeit der modernen Gesellschaft, stetige technische Neuerun- gen und eine starke globale Vernetzung. Als Zäsuren gelten dabei meistens einzelne Jahre, in denen verschiedene gesellschaftliche Brüche kulminieren. Exemplarisch sind hier die Jahre 1917, 1918, 1945 und 1989 zu nennen.24 Die historische Zäsur bezeichnet demnach den „sichtbaren Einschnitt in einer geschichtlichen Entwicklung“.25 Nun evoziert dies die Vorstellung, die Ge- schichte bestände aus vielen abgeschlossenen Episoden, die durch Fugenjahre voneinander ge- trennt sind.
Marc Bloch stellt jedoch fest, dass die historische Zeit von Natur aus ein Kontinuum ist, das ständigen Veränderungen unterliege.26 Daher erscheint es sinnvoller einen größeren zeitlichen Abschnitt bezüglich der sich manifestierenden Wandelprozesse zu untersuchen, um die „Konti- nuitäten in der Diskontinuität“ zu erfassen.27 Die Zeit von 1914-1945 ist gefüllt von Kriegen, Bürgerkriegen und Revolutionen. Die Erfahrung der Zeitgenossen von globaler Gewalt, Krieg und Unterdrückung markiert die Kontinuität dieser Periode. Mit dem Begriff des „zweiten Drei- ßigjährigen Krieg“ wird dies betont.
Die Verwendung der Terminologie ist jedoch nur dann legitim, wenn man sich nach der Betrach- tung des Großen und Ganzen auf die Ebene des Mikrokosmos’ begibt, um der Heterogenität der Epoche gerecht zu werden.28Im Folgenden soll anhand von historischen Ereignissen untersucht werden, inwieweit die Zeit von 1914-1945 als Einheit verstanden werden kann, oder ob die Vielfalt dieser Periode dadurch verloren geht.

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24 Vgl. SABROW, Martin: Zeitgeschichte schreiben. Von der Verständigung über die Vergangenheit in der Gegen- wart, Göttingen 2014, S. 161.
25 Ebd.
26 BLOCH, Marc: Apologie der Geschichtswissenschaft oder der Beruf des Historikers, Stuttgart 2002, S. 33. 27 SABROW 2014, S. 167.

28 Eric Hobsbawm stellt fest, dass unter der Prämisse, dass Historiker*innen den selben Kosmos untersuchen, die Differenz zwischen Mikro- und Makrokosmos nur noch wie die Frage nach der Wahl einer geeigneten Technik er- scheine.
Vgl. HOBSBAWM, Eric: Wieviel Geschichte braucht die Zukunft, München/Wien 1998, S. 243.


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4. Kontinuität von Gewalt und Krieg im 20. Jahrhundert

Im Ende des Ersten Weltkriegs sehen einige Historiker*innen nur eine durch Erschöpfung be- dingte Auszeit. Die weiterhin bestehenden Konflikte verlagerten sich nur in die Politik in Form von Rassenideologie, Klassenkämpfen und Bürgerkriegen.29Der Waffenstillstand von 1918 bedeutete nicht das Ende des Krieges. Vielmehr umfasst der mo- derne Friedensbegriff politische Stabilität und ein Gefühl von Sicherheit seitens der Bevölke- rung.30 Dies trifft für die Zeit von 1918-1939 nur sektoral zu.
In der Weimarer Republik waren die Nachbeben des Kriegs ubiquitär erfahrbar. Die hohen Reparationszahlungen, territoriale Verluste, die Präsenz der Besatzungssoldaten und Kriegsbeschädigten sowie die Errichtung von Kriegerdenkmälern führte dazu, dass man sich nicht vom Ersten Weltkrieg lösen konnte.31 Die Entstehung der „Dolchstoßlegende“ führte überdies zu einer Verschärfung der Konflikte zwischen rechtem und linken Lager.32
Seit der Konsolidierungsphase der Weimarer Verfassung stand die Frage im Raum, welche Par- teien miteinander koalieren sollten. Die Rechten standen den Sozialdemokraten gegenüber. Wäh- rend der ersten Reichstagswahl nach dem Weltkrieg 1920 verlor die Weimarer Koalition die Mehrheit der Stimmen und Sitze. Das Bürgertum machte einen Rechtsruck und die Arbeiterschaft wandte sich verstärkt nach links.33 In der gesamten Phasen ihres Bestehens war die Weimarer Republik durch eine innere Instabilität bedroht.34
Nicht nur in Weimar verlief die Zeit zwischen den Weltkriegen nicht harmonisch. Nach der deut- schen Kapitulation kam es weltweit zu einer großen Zahl militärischer Konflikte. Dies war durch die unterschiedlichsten Faktoren begründet: Im Jahr 1919 waren die Grenzen vieler Staaten nicht eindeutig definiert, das staatliche Gewaltmonopol war in vielen Ländern geschwächt und Imperien

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29 Vgl. JUDT, Tony: Geschichte Europas. Von 1945 bis zur Gegenwart, München/Wien 2006, S. 18.
30 Vgl. ECHTERNKAMP, Jörg: Krieg, in: Dimensionen internationaler Geschichte, hrsg. von Jost Dülffer (Studie zur internationalen Geschichte, Bd. 30) München 2012, S.25.
31 Schumann stellt jedoch keine umfassende Brutalisierung der Soldaten aufgrund ihres Kriegseinsatzes fest. Vgl. SCHUMANN, Dirk: Nachkriegsgesellschaft. Erbschaften des Ersten Weltkriegs in der Weimarer Republik,
APuZ 18-30 (2018) (abrufbar über die Bundeszentrale für politische Bildung; http:// 
 www.bpb.de/apuz/268350/weimarer-republik, zuletzt aufgerufen am 9.09.2019, S.1-3.
32 Vgl. ebd., S. 4.
33 Vgl. WINKLER, Heinrich August: Die Zeit der Weltkriege 1914-1945 (Geschichte des Westens, Bd.2) München 2011, S. 285.
34 Vgl. ebd., S. 331.

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gingen unter, wodurch es zu zahlreichen Bürgerkriegen aufgrund eines entstandenen Macht- vakuums kam.35In Italien kam es in diesem Zusammenhang 1922 zur Machteroberung Mussolinis in Folge des Marsch auf Roms. Im Jahr 1935 fiel Italien in Abessinien, dem heutigen Äthiopien, ein. Nach Aggressionsakten Japans gegen China brach 1937 ein offener Krieg aus. Neben dem Deutschen Reich waren auch Italien und Japan revisionistische Mächte, die sich im Zweiten Weltkrieg zu den Achsenmächten zusammenschlossen.36
Nach dem Untergang der Doppelmonarchie Österreich-Ungarns kam es in Osteuropa zu einer Vielzahl von Staatsbildungsprozessen. Der Einfluss des russischen Bürgerkriegs war dabei deut- lich wahrnehmbar.37 Bis zum Ausbruch des Zweiten Weltkrieg hatte sich der ostmitteleuropäi- sche Raum in die primäre Krisenzone der Zeit verwandelt.38 Die Chronologie der Konflikte in Vorderasien, die mit dem imperialistischen Angriffskrieg Italiens gegen das Osmanische Reich 1911 begannen und erst mit dem Frieden von Lausanne 1923 endeten, zeigt, dass die Zäsuren 1914-1918 keinen globalen Anspruch haben.39
Im Rahmen dieser Arbeit kann keine detaillierte Beschreibung aller Konflikte vorgenommen werden, exemplarisch werden daher die Vorgänge in der entstehenden Sowjetunion dargestellt werden.40

4.1 Die Entstehung der Sowjetunion

Noch vor dem Ende des Ersten Weltkrieges schied das Zarenreich aus dem Kriegsgeschehen aus.41 Dem kriegsmüden Volk wurde jedoch keine Pause gegönnt, das Kriegsende bedeutete kei- neswegs, dass Frieden eintrat. Das Jahr 1917 war stattdessen geprägt von Revolutionen. Die Februarrevolution markierte den Zerfall des Zarenreichs und die Oktoberrevolution den Beginn der bolschewistischen Herrschaft.42

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35 Vgl. BARTH 2016, S. 37-38.
36 Vgl. MÄRZ 2014, S. 123-124.
37 Vgl. BARTH 2016, S. 38.
38 Vgl. SCHUMANN, Dirk/KOLB, Eberhard: Die Weimarer Republik, München 2013, S. 6.
39 Vgl. BARTH 2016, S. 38.
40 Ausführliche Erläuterungen zu den militärischen Konflikten ab 1919 finden sich bei BARTH 2016, Kapitel 3.
41 Vgl. WINKLER 2011, S. 79.
42 Vgl. LUKS, Leonid: Russlands „kurzes“ 20. Jahrhundert (1905-1991), in: 1917. 100 Jahre Oktoberrevolution und ihre Fernwirkung auf Deutschland, hrsg. von Tilman Mayer/Julia Reuschenbach, Baden-Baden 2017, S. 41-43.

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Während die Machtübernahme am 25. Oktober einigermaßen reibungslos verlief, konnte das totalitäre Regime nur in Folge eines dreijährigen Kriegs gefestigt werden.43 Bernd Bonwetsch konstatiert:

„Der Sowjetstaat wurde in Revolution und Bürgerkrieg geboren. Gewalt und der Kampf gegen „Klassenfeinde“ ge- hörten zu seinen Entstehungsbedingungen.“44
Kämpferische Handlungen und Gewalt waren im Erfahrungshorizont der Zeitgenossen dement- sprechend fest verankert. Mit dem den Weltkrieg ablösenden Bürgerkrieg begann für die russi- sche Bevölkerung eine Zeit des Terrors und der Massengewalt. Diese endete erst mit dem Tod Josef Stalins im Jahre 1953.45 Daher lässt sich argumentieren, dass die Zäsur eines Dreißigjähri- gen Krieges, der sein Ende 1945 fand, keinen globalen Anspruch hat, da Gewalt auch nach der Beendigung des Zweiten Weltkrieges auf der Tagesordnung stand.46
Unabhängig davon dienen die Entwicklungen in der Sowjetunion bis zum Ausbruch des Zweiten Weltkrieges als Beweis für die Omnipräsenz von Gewalt. Die Geheimpolizei Tscheka war ein Organ, das hierfür verantwortlich war. Im Dezember 1917 gegründet, vollzog sie tausendfach Todesurteile und Begann mit der Isolation von Gegnern in Konzentrationslagern. Da sich die Mehrheit der Bevölkerung gegen die Bolschewiki stellte, wurde ihr mit organisiertem Terror begegnet.47
Die Tscheka wurde bei der Definition ihrer Feinde sowie bei deren Verfolgung kaum kontrolliert.48 Nach dem missglückten Attentat auf Lenin verschärfte sich die Situation zuse- hends. Mittels eines Dekrets wurde der „Rote Terror“ angeordnet.49 Dieser Auszug aus den Be- fehlen der Tscheka verweist auf die Willkür des Organs sowie auf die breite Definition des Feindbildes:
„Als Geiseln zu verhaften sind die bedeutenden Vertreter der Bourgeoisie, der Gutsbesitzer, der Fabrikanten, der Händler, der konterrevolutionären Popen und aller der Sowjetmacht feindlich gesinnten Offiziere. Die ganze Gesellschaft ist in Konzentrationslager einzuweisen, wobei eine äußerst zuverlässige Wache einzurichten ist, die diese

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43 Vgl. ebd., S. 49.
44 BOWETSCH, Bernd: Gulag. Willkür und Massenverbrechen in der Sowjetunion 1917-1953. Einführung und Do- kumente, in: Gulag. Texte und Dokumente 1929-1953, hrsg. von Julia Landau/Irina Scherbakowa, Göttingen 2014, S. 30.
45 Vgl. ebd.
46 Ferner könnte man argumentieren, dass auch die Zeit des Kalten Kriegs aufgrund der permanenten Androhung von Gewalt eine Phase des Kriegs konstituiere.
Vgl. ECHTERNKAMP 2012, S. 11.

47 Vgl. LUKS 2017, S. 50.
48 Vgl. BONWETSCH 2014, S. 31. 49 Vgl. ebd.


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9. Seite

Herrschaften unter Konvoi zur Arbeit anhält. Bei jeglichem Versuch, sich zu organisieren, einen Aufstand auszulösen oder die Wache zu überwältigen: sofort erschießen.“50
Dieser Abschnitt zeigt, dass gezielt und erbarmungslos vorgegangen wurde. Die Frage, wer zu den bedeutenden Vertretern zählt, oblag der Interpretation des Einzelnen.
Wenngleich nach dem Ende des Bürgerkriegs 1922 die Tscheka aufgelöst wurde, erhielt ihr Nachfolger GPU bald dieselben Rechte. Sie verhängten Todesurteile und vollstreckten diese. Zudem wurde eine „Sonderberatung des Volkskommissariats“ ins Leben gerufen, die über Ver- bannungen sowie Einweisungen in Zwangsarbeitslager entschied.51

Die Bolschewiki gingen zwar als Sieger aus dem Bürgerkrieg hervor, doch wurden sie schnell mit neuen Komplikationen konfrontiert. Aufgrund der Politik des „Kriegskommunismus“ kam es zu mehreren Bauernaufständen.52 Außerdem führten die diktatorischen, wirtschaftlichen Maßnahmen 1921 zur bis dato schlimmsten Hungerkatastrophe der russischen Geschichte.53
Nach dem Tod Lenins kam es zu Machtkämpfen um seine Nachfolge. Die Partei war mit einer immensen Erosion konfrontiert. Diese Prämisse ermöglichte die Glorifizierung von Personen, von denen man sich Rettung erhoffte. Dies bildete die Grundlage für Stalins Doppelrevolution von 1929.54 Unter Stalin kam es zu einer Verwandlung der Bolschewiki in eine Führerpartei. Er setzte den von der Bevölkerung erfahrenen Terror fort und führte ihn auf eine grauenhafte neue Ebene.55 Die Kontinuität der Gewalterfahrung blieb damit erhalten.

4.2 Die Bloodlands und der sowjetische Gulag

Eine der schlimmsten Erfahrungen von Massengewalt und Terror der Zwischenkriegszeit erfuh- ren die 14 Millionen Opfer des NS- und des Sowjet-Regimes in den osteuropäischen Ländern, die Timothy Snyder die Bloodlands nennt. Sie umfassen Gebiete in Zentralpolen bis Westrussland, einschließlich Weißrusslands, der Ukraine und der baltischen Staaten.56 Snyder betont, dass

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50 Auszug aus dem „Befehl der Tscheka zur Anwendung des „Roten Terrors“, 2. September 1918, in: BONWETSCH 2014, S.38.
51 Ebd., S. 31.
52 LUKS 2017, S. 54.
Luks stellt fest, dass mit dem Aufstand der Kronstädter Matrosen im März 1921 der Kriegskommunismus beendet wurde.

53 Vgl. ebd.
54 Vgl. LUKS 2017, S. 55-56.
55 Vgl. ebd., S. 57.
56 Vgl. SNYDER, Timothy: Bloodlands. Europa zwischen Hitler und Stalin, München 2011, S. 9.


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die hier ermordeten Menschen keine Kriegsopfer, sondern Opfer einer „mörderischen Politik“ waren.57Das spricht dafür den Terminus des „zweiten Dreißigjährigen Kriegs“ als Topos für eine Phase von kriegerischen Handlungen, Gewalt und Instabilität zu sehen und keinen direkten Vergleich zu ziehen. Ferner wird klar, dass diese Periodisierung nur im internationalen Kontext tragbar ist. Hitler konnte seine Vision, alle Juden Europas zu vernichten nur verfolgen, indem er die zwei größten europäischen jüdischen Gemeinschaften angriff — die in Polen und die in der Sowjet- union.58
Stalin tötete bereits in Friedenszeiten eine Dreiviertelmillion Menschen unter dem Deckmantel der „Verteidigung und Modernisierung“ der Sowjetunion.59 Bereits vor dem Ausbruch des Zweiten Weltkriegs wurde ein Viertel der 14 Millionen Opfer ermordet, doch der Krieg veränderte schlagartig die Art und Weise des Mordens. Während in den dreißiger Jahren allein die Sowjet- union politische Massenmorde an Millionen beging, erreichte das NS-Regime diese Zahlen nach 1939. Dennoch töteten die Nationalsozialisten in der Zeit von 1933–1939 bereits 10.000 Men- schen.60
Aufgrund der Zielstellung dieser Arbeit wird auf die unter Hitler im Zweiten Weltkrieg begange- nen Verbrechen nicht näher eingegangen werden. Die Handlungen, die besonders deutlich eine Kontinuität von Gewaltakten in den Jahren vor Beginn des Zweiten Weltkriegs deutlich machen, sind vielmehr die von Stalin im sowjetischen Gulag und während der Zeit der „Großen Säuberung“ befohlenen.
Die Bolschewiki unter Stalin machten es sich zum Ziel, die wohlhabenden Bauern, die Kulaken genannt wurden, zu vernichten. Knapp zwei Millionen Menschen wurden im Zuge dessen in La- ger deportiert. Viele reichere Bauern wurden sofort hingerichtet. Weitere Kulakenfamilien wurden von ihren Höfen vertrieben61
In Folge der Deportationen der Bauern kam es zu Rückgängen in der Getreideproduktion. Der Staat trieb dennoch erbarmungslos hohe Mengen an Getreide für eigene Zwecke ein. Dies führte
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57 Ebd., S. 10.
58 Vgl. ebd., S. 11.
An dieser Stelle ist anzumerken, dass Snyder von den Angriffen Deutschlands auf Polen 1939 und auf die Sowjet- union 1941 spricht. Somit liegen diese Verbrechen im Zweiten Weltkrieg und stützen nur peripher die These des „zweiten Dreißigjährigen Kriegs“. Dennoch forderten bereits die Phasen der Konsolidierung von Nationalsozialis- mus und Stalinismus in der Zwischenkriegszeit eine hohe Zahl an Opfern, wodurch eine Kontinuität von gewaltsa- men Akten deutlich wird.

59 Ebd., S. 12.
60 Vgl. SNYDER 2016, S. 12.
61 Vgl. BONWETSCH 2014, S. 33.


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11. Seite

in den sowjetischen Gebieten zu einer Hungersnot,62 die fünf bis sieben Millionen Menschen das Leben kostete.63 Besonders schlimm traf es die Ukraine. Die Großstädte des Landes boten die einzige Möglichkeit an Nahrung zu gelangen, dennoch war auch dort die Situation gravierend. Beinahe zu Tode ausgehungerte Menschen standen stundenlang vor Geschäften an.64
Die Hungersnöte der frühen dreißiger Jahre waren von Stalin geplant. Doch ließ er seine Bevöl- kerung nicht nur gezielt verhungern. Während des Großen Terrors von 1937/ 38 wurden auf Sta- lins Befehl hin Hunderttausende Bauern und Arbeiter erschossen.65 Bis 1940 wurden über zwei Millionen weitere Menschen, darunter nicht nur ausschließlich Bauern, in den Gulag deportiert. Die höchste Zahl an „Sondersiedlern“ erreichte die Sowjetunion im Januar 1953, acht Jahre nach dem Ende des Zweiten Weltkriegs.66
Neben der Liquidierung der Kulaken wurden parteiinterne Rivalen und als „Volksfeinde“ bezich- tigte Mitglieder der parteilichen und staatlichen Elite zu Todes- oder Lagerstrafen verurteilt.67 Die unter den Termini „Großer Terror“ oder „Große Säuberung“ bekannten Verbrechen Stalins sind ein weiterer Beweis für die Schrecken jener Zeit.
Die in diesem Kapitel exemplarisch skizzierten Vorgänge zeigen, dass für Millionen Menschen die Zwischenkriegszeit von Gewalt, Terror und kriegerischen Auseinandersetzungen geprägt war. Die Zusammenfassung der Zeit von 1914-1945 als „zweiten Dreißigjährigen Krieg“ lässt dies deutlich werden. Dies verhindert, dass durch die Terminologie der „Zwischenkriegszeit“ fälschlicherweise das Bild einer globalen Friedensphase evoziert wird.

5. Die Heterogenität der Zeit von 1914 bis 1945

Nutzt man die Terminologie des zweiten Dreißigjährigen Krieges, um strukturelle Zusammen- hänge und Kontinuitäten in der Zeit von 1914-1945 zu untersuchen, besteht die Gefahr, dass man versucht, die Wirklichkeit der Periodisierung anzupassen. Lenkt man das Augenmerk allein auf den Aspekt von Krieg und Gewalt übersieht man die pazifistischen Bemühungen zu Beginn der Zwischenkriegszeit sowie einschneidende Ereignisse der Zeit, wie beispielsweise die Einführung
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62 Für die Hungersnot war zudem Stalins erster Fünfjahresplan verantwortlich. Vgl. SNYDER 2016, S. 46.
63 Vgl. BONWETSCH 2914, S. 33. 64 Vgl. SNYDER 2016, S. 43.
65 Vgl. ebd., S. 12-16.
66 Vgl. BONWETSCH 2014, S. 34. 67 Ebd., S. 34-35.


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des Frauenwahlrechts in vielen europäischen Ländern und den USA sowie den wirtschaftlichen und kulturellen Aufschwung in der Weimarer Republik der 1920er-Jahre.68Winston Churchill schreibt in seinem 1948 veröffentlichten Werk The Gathering Storm:

„After the end of the World War of 1914 there was a deep conviction and almost universal hope that peace would reign in the world.“69

Diese von ihm wahrgenommene ubiquitäre Hoffnung auf Frieden verweist auf die Dichotomie von Deutungs- und Erfahrungszäsur.70 Versteht man die erste Hälfte des 20. Jahrhunderts als eine lange Phase des Krieges, dürfte das Kriegsende 1918 nicht als abschließende Deutungszäsur ver- standen werden.71 Doch die vom Krieg ermüdeten Zeitgenossen erhofften sich eine anhaltende Zeit des Friedens.
Barth verweist auf den Optimismus der führenden Staatsmänner zu Beginn des Jahres 1919 in Paris, eine Weltordnung etablieren zu können, die Frieden mit sich bringe.72 Ferner fordert er, dass alle fünf Pariser Vorortverträge unter dem Aspekt betrachtet werden müssten, „dass ein einheitliches Friedenswerk für die Welt geschaffen werden sollte“.73 Gegen die in dieser Arbeit erörterte Periodisierung spricht demnach, dass Historiker das Jahr 1918 durchaus als einschneidende Zäsur verstehen, da es die Urkatastrophe des 20. Jahrhunderts beendet.74
Die Weltkriege erreichten beide immense Dimensionen, sodass sie sich notgedrungen durch ihre Singularität auszeichnen.75 Dies wirf die Frage auf, ob die Betrachtung der Zeit von 1914-1945 als zusammenhängende kriegerische Auseinandersetzungen dem gerecht werden können.
Peter März argumentiert für eine Zäsur in der Mitte der zwanziger Jahre, da die in diesem Jahr- zehnt gefundenen Lösungen und Konsolidierungen, nach dem juristischen Ende des Weltkrieges 1918/19 ihn weitestgehend auch politisch sowie mental beendet haben. Darunter zählt er beispielsweise


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68 Vgl. SCHUMANN/KOLB 2013, S. 74 u. 95.
69 CHURCHILL 1948, S. 3.
70 Sabrow erklärt in seinem Werk Zeitgeschichte schreiben, die Bedeutung von historischen Zäsuren, die dem zeitli- chen Gliederungswunsch von Historikern entsprechen. Er verweist jedoch darauf, dass diese Einschnitte nicht zwin- gend von den Zeitgenossen in gleicher Form wahrgenommen werden.
Vgl. SABROW 2014, S. 169-171.

71 Es ist jedoch nicht diskutabel, dass der I. Weltkrieg in Europa eine klare Zäsur markiert. Vgl. BARTH 2016, S. 18.
72 Vgl. BARTH 2016, S. 22.
73 Ebd., S. 23.
74 Vgl. SABROW 2014, S. 161. 75 Vgl. MÄRZ 2014, S.


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13. Seite

 das 1926 getroffene Neutralitätsabkommen der Weimarer Republik mit der Sowjet- union sowie den Eintritt der Weimarer Republik in den Völkerbund im selben Jahr.76Der Völkerbund wurde durch Woodrow Wilson im Rahmen der Pariser Vorortverträge ins Leben gerufen. Wenngleich der Völkerbund die Konnotation des Scheiterns hervorruft, markiert er ein internationales Bestreben, anhaltenden Frieden zu schaffen. Daher wird er im Folgenden als Ar- gument gegen die geschichtswissenschaftliche Verwendung des Begriffes „zweiter Dreißigjähri- ger Krieg“ untersucht.

5.1 Der Völkerbund

Möchte man gegen den Topos einer dreißig Jahre anhaltenden Zeit von Gewalt für die erste Hälf- te des 20. Jahrhunderts argumentieren, reichen Beispielen auf nationaler Ebene nicht aus, da die zahlreichen Konflikte dieser Periode international gesehen an vielen Orten gleichzeitig gescha- hen. Möchte man dieser These beispielsweise mit einer kurzen Phase der kulturellen Blüte in der Weimarer Republik begegnen, scheint dies in Anbetracht von Bürgerkriegen, Massengewalt und kriegerischen Handlungen wenig Gewicht zu haben.
Einem internationalen Phänomen kann man nur mit einem anderen begegnen. Der Völkerbund vereinigte für einige Zeit verschiedene Nationen auf dem Weg zu einem anhaltenden Frieden. Dieser Zusammenschluss symbolisiert die Wahrnehmung der Zeitgenossen, Krieg, wie in der Form des Ersten Weltkrieges, müsse künftig verhindert werden.
Bereits 1795 sah Immanuel Kant die Notwendigkeit eines Zusammenschlusses der Völker. Cott- rell sieht in den Haager Konferenzen einen wichtigen Grundstein für die League of Nations.77 Mit dem Ende des Ersten Weltkrieges sah Wilson die Zeit gekommen, seine eigene Idee eines Völkerbundes zu verwirklichen.78 In seinem im Januar 1918 präsentierten 14-Punkte-Programm, forderte der amerikanische Präsident beispielsweise offene Diplomatie, Freiheit der Meere und

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76 Vgl. ebd., S. 130-131.
77 Vgl. COTTRELL, Patrick: The League of Nations. Enduring legacies of the first experiment at world organizati- on, London/New York 2018, S. 29.
78 Vgl. BARTH 2016, S. 24.

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14. Seite

freien Handel.79 Wilsons 14 Punkte waren unter anderem eine Antwort auf das Dekret über den Frieden der neuen bolschewistischen Regierung von 1917.80Auch im Januar 1918 begannen die Friedenskonferenzen in Paris, wo über den angestrebten Völkerbund debattiert wurde. Er sollte das organisatorische Medium für die Wahrung des Frie- dens und der Sicherheit auf der Welt sein. Die Mitglieder sollten zur gegenseitigen Unterstützung verpflichtet werden und sie sollten im Falle von Konflikten als Schiedsrichter fungieren.81
Das große Problem des Völkerbundes sowie der Pariser Vorortverträge waren die divergierenden Interessen der teilnehmenden Staaten. Die Mitgliedsstaaten des Völkerbunds behielten uneinge- schränkt ihre Souveränität und versuchten ihre eigenen Ziele durchzusetzen.82 Zudem trat die USA dem Bund zu keiner Zeit bei. Wenngleich dieser Wilson Idee war, stimmte der Senat dage- gen. Unter dem Schlagwort des Isolationismus beschloss man, das Festland seine eigenen Pro- bleme lösen zu lassen.83 Ferner war der Völkerbund nicht in erster Linie ein globaler Lösungsan- satz, da er von den europäischen Mächten dominiert wurde. Allein Japan besaß als nicht-europäi- scher Staat einen permanenten Sitz.84
Die einzige ständigen Mitglieder, Frankreich und Großbritannien, waren außerdem auf sich ge- stellt nicht in der Lage potentielle Aggressoren tatsächlich zu kontrollieren. Zudem führte das Einstimmigkeitsprinzip dazu, dass es kaum zu einheitlichen Entscheidungen kommen konnte. Außerdem wollten die Sieger des Ersten Weltkriegs ihre imperialen Interessen durchsetzen, wo- mit internationale pazifistische Bestrebungen nur eine Utopie bleiben konnten.85
Am 10. September 1926 wurde die Weimarer Republik Mitglied des Völkerbundes. Dies ge- schah insbesondere auch aufgrund der Leistungen Gustav Stresemanns, der sich bemühte die au- ßenpolitische Isolation Deutschlands zu beenden. In Form des Dawes- und Young-Plan war er zudem bemüht, die Reparationszahlungen einzuschränken und territoriale Ansprüche geltend zu machen.86 Jedoch sah vor allem die politische Rechte im Beitritt zum Völkerbund nur ein weiteres

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79 Vgl. COTTRELL 2018, S. 33.
80 Vgl. BERG, Manfred: Woodrow Wilson. Amerika und die Neuordnung der Welt - Eine Biographie (C.H. Beck Paperback, Bd. 6265) München 2017, S. 139-140.
Bereits vor Wilsons öffentlicher Stellungnahmen, sprach Lloyd George von der Schaffung einer internationalen Or- ganisation, die künftige Kriege verhindern sollte.

81 Vgl. WINKLER 2011, S. 173. 82 Vgl. ebd., S. 174.
83 Vgl. BARTH 2016, S. 32-33. 84 Vgl. ebd., S. 35.

85 Vgl. SCHULZ, Matthias. Internationale Institutionen, in: Dimensionen internationaler Geschichte, hrsg. von Jost Dülffer (Studie zur internationalen Geschichte, Bd. 30), München 2012, S. 219.
86 Vgl. SCHUMANN/KOLB 2013, S. 67-73.

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Mittel der Alliierten, Deutschland zu kontrollieren. Eine anfängliche „Wilson- und Völker- bundsbegeisterung“ war mit der Veröffentlichung der Friedensbedingungen vorbei.87Obwohl der Völkerbund an den Schwierigkeiten, mit denen er konfrontiert war, scheiterte, ist nicht zu ignorieren, dass er einen internationalen Versuch der Friedenssicherung darstellt. Diese Tatsache zur Unterstützung der These des „zweiten Dreißigjährigen Kriegs“ zu ignorieren, mutet deterministisch an. Zu Beginn der Friedenskonferenzen stand nicht fest, dass die Welt in einen weiteren schrecklichen Krieg verwickelt werden würde. Die ersten Nachkriegsjahre beinhalten neben Revolutionen auch die Suche nach einem friedvollen Konsens.
Cottrell sieht in der League of Nations ein Experiment für die Entstehung des UN-Sicherheitsrats und die Erhaltung von Frieden.88 Anstatt also den Völkerbund nur als gescheitert anzusehen, lässt sich überdies die Frage stellen, was man aus ihm lernen kann.
Mit Blick auf die hier zu erörternde Fragestellung lässt sich sagen, dass man den Friedensbestre- bungen der ersten Nachkriegsjahre nicht gerecht wird, wenn man 1914-1945 als ein großes Kriegsgeschehen versteht.


6. Fazit

Marc Bloch wirft den Wissenschaften vor, sie würden die Zeit nur in „künstlich homogene Seg- mente“ einteilen und sie als Maßeinheit betrachten.89 Die Schwierigkeit in der Geschichtswis- senschaft sei die Vereinbarung des Verstehens der historischen Zeit als ein Kontinuum, das gleichzeitig ständigen Veränderungen unterliege.90 Hobsbawm verweist auf die historische Prak- tik, die Welt durch ein „Mikroskop“, statt durch ein „Fernrohr“ zu betrachten.91 Er konstatiert, dass die Perspektive aus der man schaut, nur eine Frage der geeigneten Technik sei.92
Jeder Periodisierung dient dem Zweck der Analyse oder Interpretation eines Zeitabschnitts, da der Mensch nicht mehrere tausend Jahre gleichzeitig betrachten kann. Die konstruierten Epochen stehen immer vor der Schwierigkeit, nicht alle Aspekte der Wirklichkeit berücksichtigen zu kön- nen. Daher kommt es stets auf die Frage an, die wir der zu untersuchenden Zeitspanne stellen.

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87 WINTZER, Joachim: Deutschland und der Völkerbund 1918-1926, Paderborn/München 2006, S. 164. 88 Vgl. COTTRELL 2017, S. 14-15.
89 BLOCH 2002, S. 32.
90 Vgl. ebd., S. 33.

91 HOBSBAWM 1998, S. 243. 92 Vgl. ebd.

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16. Seite

Es ist durchaus sinnvoll zunächst durch das Fernrohr auf eine gewisse Epoche zu blicken, um Strukturen auf internationaler sowie globaler Ebene zu erkennen. Diese Wandlungsprozesse verweisen auf das Kontinuum der historischen Zeit und auf Kontinuitäten in der Veränderung. Ge- rade die erste Hälfte des 20. Jahrhunderts ist, wie kaum eine andere Periode, gefüllt von Gewalt, Krieg und Terror. In dieser Arbeit wurde gezeigt, dass der Alltag vieler Menschen davon geprägt war. Daher ist es legitim, die Zeit unter diesen Aspekten zu untersuchen. Insbesondere, da Zeit- genossen wie Churchill oder de Gaulle selbst zu Beginn der vierziger Jahre von einer zusam- menhängenden Zeit von 1914 an sprechen und die Terminologie eines „zweiten Dreißigjährigen Kriegs“ verwendeten.93
Dennoch können selbstverständlich auch sie erst nach dem Ausbruch des Zweiten Weltkriegs davon sprechen. Bei der geschichtswissenschaftlichen Verwendung des Begriffs muss darauf ge- achtet werden, dass man nicht in die Falle des Determinismus gerät. Zudem hat diese Form der Periodisierung keinen Anspruch auf Vollständigkeit, sie kann der Heterogenität der Zeit nicht gerecht werden. Daher ist es notwendig, dass man auf der Mikroebene Entwicklungen auf der nationalen Ebene und abseits des Kriegsgeschehens betrachtet.
Die Friedenskonferenzen der ersten Nachkriegsjahre zeigen den Wunsch nach einem anhalten- den Frieden. Wenngleich der Völkerbund scheiterte, ist seine Rolle nicht zu unterschätzen. Den- noch entsprach die Idee von Frieden nicht der in vielen Teilen der Welt erfahrbaren Wirklichkeit. Dies zeigten exemplarisch die geschilderten Entwicklungen in der Sowjetunion. In diesem Sinne kann die Zeit von 1914-1945 als zweiter Dreißigjähriger Krieg verstanden werden.

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93 Vgl. Zweites Kapitel dieser Arbeit.

17. Seite

7. Literatur- und Quellenverzeichnis

Quellenverzeichnis
CHURCHILL, Winston: The Second World War. The gathering Storm, Boston 1948.
TAUTZ, Helmut (Hrsg.): Briefwechsel Stalins mit Churchill, Attlee, Roosevelt und Truman. 1941-1945.

Literaturverzeichnis
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BERG, Manfred: Woodrow Wilson. Amerika und die Neuordnung der Welt - Eine Biographie (C.H. Beck Paperback, Bd. 6265) München 2017.

BLOCH, Marc: Apologie der Geschichtswissenschaft oder der Beruf des Historikers, Stuttgart 2002.
BOWETSCH, Bernd: Gulag. Willkür und Massenverbrechen in der Sowjetunion 1917-1953. Einführung und Dokumente, in: Gulag. Texte und Dokumente 1929-1953, hrsg. von Julia Land- au/Irina Scherbakowa, Göttingen 2014, S. 30-49.

COTTRELL, Patrick: The League of Nations. Enduring legacies of the first experiment at world organization, London/New York 2018.
ECHTERNKAMP, Jörg: Krieg, in: Dimensionen internationaler Geschichte, hrsg. von Jost Dülf- fer (Studie zur internationalen Geschichte, Bd. 30) München 2012.

HOBSBAWM, Eric: Wieviel Geschichte braucht die Zukunft, München/Wien 1998.
JUDT, Tony: Geschichte Europas. Von 1945 bis zur Gegenwart, München/Wien 2006.
LUKS, Leonid: Russlands „kurzes“ 20. Jahrhundert (1905-1991), in: 1917. 100 Jahre Oktoberre- volution und ihre Fernwirkung auf Deutschland, hrsg. von Tilman Mayer/Julia Reuschenbach, Baden-Baden 2017, S. 37-66.
MAYER, Arno J: Der Krieg als Kreuzzug. Das Deutsche Reich, Hitlers Wehrmacht und die „Endlösung“, Reinbek 1989.
MÄRZ, Peter: Nach der Urkatastrophe. Deutschland, Europa und der Erste Weltkrieg, Köln/ Weimar/Wien 2014.
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MÜNKLER, Herfried: Tränen des Vaterlands, in: FAZ online (2018) (https://www.faz.net/aktu-
ell/politik/die-gegenwart/herfried-muenkler-30-jaehriger-krieg-15692315.html, zuletzt besucht am 28.09.2019).
NOLTE, Ernst: Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschewis- mus, Frankfurt/Main 1987.

SABROW, Martin: Zeitgeschichte schreiben. Von der Verständigung über die Vergangenheit in der Gegenwart, Göttingen 2014.
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SCHUMANN, Dirk: Nachkriegsgesellschaft. Erbschaften des Ersten Weltkriegs in der Weimarer Republik, APuZ 18-30 (2018) (abrufbar über die Bundeszentrale für politische Bildung; http:// 

www.bpb.de/apuz/268350/weimarer-republik, zuletzt aufgerufen am 9.09.2019).
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