Raccolgo qui in ordine cronologico inverso alcune mie meditazioni sui termini natura e teleologia in dialogo con Robert Spaemann, che ho conosciuto personalmente nei miei anni bavaresi.
(05.08.20) Ci si può chiedere se Cristo non basti, perché sono necessari questi pensieri filosofici sulla natura? Dapprima vorrei dire, come ho pregato questa mattina nell'inno delle lodi dei benedettini, che la testimonianza è fatta di opere e parole e per il filosofo quest'ultime sono necessarie - non sono solo "pensieri", ma sono "compito". Quando passo davanti al Crocifisso spesso gli bacio i piedi, come la donna afferrata dal suo amore di cui parla il Vangelo (Lc 7,36-47). Ma come non parlo in continuazione di mia moglie o dei miei figli, non parlo neppure in continuazione di Gesù. Credo, però, con il vescovo Oster che per sapere a che punto ci troviamo nella nostra vita spirituale bastino due domande semplici: quando hai pensato l'ultima volta con amore a Gesù e quando hai sentito il bisogno di dire (non solo con le parole) ad un altro di questo tuo amore. E credo con von Balthasar che sia una "questione vitale della cristianità attuale" (citato da don Julián Carrón, Il brillio degli occhi, 60) l'essere afferrati da Cristo e non solo l'afferrare determinati contenuti o valori cristiani.
Il dialogo intenso degli ultimi tempi con Adrian Walker ha sollevato, però, con insistenza la domanda sulla legittimità di quel progetto illuminista di superamento della natura, che ha certo modalità diverse e contraddittorie, a seconda del tipo di pensatore che si analizza, ma che oggi ha una portata globale e mondiale, per cui sembra non esserci più alcun accesso ad una natura teleologica come criterio ultimo dell'agire umano. Il pensatore marxista Christoph Menke lo dice a suo modo, come a modo loro Max Horkheimer und Theodor Adorno avevano compreso la necessità di un 'illuminismo dell'illuminismo, di una dialettica dell'illuminismo. Menke: i diritti personali garantiti dal sistema liberale come unico criterio assoluto tolgono all'uomo la sua capacità di rivoluzionare la società in modo politico. Non è il mio interesse farlo, ma in comune con Menke ho l'esigenza di riflettere su questa assolutizzazione operata dal sistema liberale della volontà del singolo (Londra), che di fatto non conosce più una natura dell'uomo, ma solo per l'appunto, la volontà assoluta del singolo, che deve essere mediata con le altre assolutezze.
Spaemann con il suo invito ad un dibattito aperto e sincero sulla natura dell'uomo sembra proporre una cosa dell'altro mondo. Quando tanti anni fa parlai di un progetto di dottorato di ricerca con un filosofo di Heidelberg, mi disse, con parole poco più gentili, che solo quel matto di Spaemann, avrebbe potuto avere interesse al mio tema: e questo è in vero uno dei punti più gravi del progetto emancipatorio illuminista: la posizione che lo contraddice non viene ritenuta sbagliata e degna di un dibattito, ma semplicemente mentecatta. Questo post ha avuto il senso di confrontarsi con alcuni temi senza la pretesa di darne una risposta assoluta, ma neppure senza tacere la rilevanza antropologica estrema del termine cercato: la natura dell'uomo.
(One may ask if Christ is not enough, why are these philosophical thoughts about nature necessary? First of all I would like to say, as I prayed this morning in the hymn of Lauds of the Benedictines, that testimony is made up of works and words, and for the philosopher these are necessary - they are not just "thoughts", but "task". When I pass in front of the Crucified One I often kiss his feet, like the woman grasped by his love of which the Gospel speaks (Lk 7:36-47). But just as I do not continually speak of my wife or my children, I do not continually speak of Jesus either. I believe, however, with Bishop Oster that to know where we are in our spiritual life, two simple questions are enough: when did you last think with love of Jesus and when did you feel the need to say (not only with words) to someone else about this love of yours. And I believe with von Balthasar that it is a "vital question of Christianity today" (quoted by Fr Julián Carrón, The Twinkle of the Eyes, 60) to be grasped by Christ and not only to grasp certain Christian contents or values.
The intense dialogue of recent times with Adrian Walker has raised, however, with insistence the question of the legitimacy of that Enlightenment project of overcoming nature, which certainly has different and contradictory modalities, depending on the type of thinker being analyzed, but which today has a global and worldwide scope, so that there seems to be no longer any access to a teleological nature as the ultimate criterion of human action. The Marxist thinker Christoph Menke says it in his own way, as in their own way Max Horkheimer and Theodor Adorno had understood the need for an Enlightenment of Enlightenment, a dialectic of Enlightenment. Menke: the personal rights guaranteed by the liberal system as the only absolute criterion take away man's ability to revolutionize society in a political way. It is not my interest to do so, but in common with Menke I have the need to reflect on this absolutization operated by the liberal system of the will of the individual (London), which in fact no longer knows one nature of man, but only the absolute will of the individual, which must be mediated with the other absolutes.
Spaemann with his invitation to an open and sincere debate on the nature of man seems to propose something from the other world. When many years ago I talked about a PhD project with a philosopher from Heidelberg, he told me, in slightly nicer words, that only that madman Spaemann could have had an interest in my subject: and this is in truth one of the most serious points of the emancipatory Enlightenment project: the position that contradicts it is not considered wrong and worthy of debate, but simply mindless. This post had the sense to confront some themes without the pretension of giving an absolute answer, but not without silencing the extreme anthropological relevance of the term sought: the nature of man. )
(4.08.20) Non è sufficiente che io sia in armonia con me stesso; devo essere anche in armonia con la mia natura di uomo e questo in una doppia modalità: felicità e libertà si appartengono: "una felicità cui si è costretti, non è felicità" (Spaemann, ibidem 74), ma la nostra autonomia come soggetti è relazionale e così relativa e non è priva di norme. Sia quelle positive che quelle naturali-teleologiche sono necessarie alla nostra felicità ontologica.
Se Christoph Menke ha ragione non avremmo un sistema giuridico che ci aiuti del tutto in questo; un sistema giuridico non è apriori contrario a quello naturale, anzi quello naturale presuppone quello positivo come una sua prima realizzazione: "dapprima è l'esistenza di un ordine giuridico positivo che ci permette di avvicinarci un po' alla volta a cosa sia giusto per natura" (Spaemann, 72). Se non fosse così saremmo nella pura tirannia o nella pura anarchia che non ci permetterebbero di fare quei passi di avvicinamento a cosa sia per natura giusto. Dove c'è uno scontro di interessi in atto, sia anarchico che tirannico, non si ha per lo più la calma interiore per riflettere ontologicamente sul giusto. Allo stesso tempo "Londra" (cfr. la mia meditazione di ieri) non è né Atene né Roma. Ci si può aspettare dalla filosofia, ma non dalla giurisprudenza un'educazione al vero, come accadeva ad Atene e l'obbligo romano, come abbiamo visto, non corrisponde né all'idea di libertà e felicità cristiane né a quella moderna.
La filosofia, anche per Spaemann, non è un sapere assoluto che sa risolvere tutte le questioni; è piuttosto un certo atteggiamento scettico che "resiste", quando ha il sospetto che certe esigenze sono motivate da interessi e non dal vero. Dobbiamo infine chiederci, con tutta la chiarezza possibile: quale interesse si nasconde in questo progetto mondiale di distaccamento (emancipatorio) dell'uomo dalla sua origine biologica e naturale? E dobbiamo porre con chiarezza la questione su chi deve dimostrare cosa. Anche se "Londra" ha fatto alcuni passi decisivi sull'assolutizzazione della volontà dei singoli, pagando il prezzo, afferma Menke, di aver perso la forza politica dei singoli e dei gruppi, è rimasto un certo substrato "naturale" - anche chi argomenta contro la migrazione non ritiene giusto che persone muoiano nel Mar Mediterraneo. Allo stesso tempo, proprio nella questione gender, ci troviamo confrontati con un progetto che vuole relativizzare con forza ciò che quasi tutti ritengono "naturale": il rapporto uomo e donna e l'identità maschile e femminile. Ovviamente dovremmo distinguere la nostra sapienza pedagogica che ci permette di abbracciare anche un ragazzo che si sente una ragazza, dall'interesse di lobbies che con uno sforzo "culturale" enorme vogliono superare ogni relazione alla categoria di "normale". Con coraggio Spaemann afferma che anche se le motivazioni sono cambiate, nel progetto di emancipazione dalla natura umana, fenomeni come il nazionalismo e la postmodernità sono in continuità nel pensare di potere giudicare chi sia un uomo, senza riferimento ad una natura teleologica, che ci dice che anche una persona con handicap è uomo, per il semplice fatto di far parte della natura umana. Oggi con una sopravvalutazione dei nostri "sentimenti" ci riteniamo in diritto di decidere se una vita sia vivibile o meno, se la nostra apparenza biologica sia la nostra o no, senza alcun criterio e norma ultima. L'abolizione dell'uomo può avere la maschera di una dittatura forte, ma anche di un potere solo apparentemente "debole" e/o "democratico".
(3.8.20) Pensieri sul diritto naturale
Negli ultimi anni mi sono rifiutato di parlare di "diritto naturale", perché mi sembrava che non essendoci più evidenze al riguardo, si rischiasse solamente un "guerra civile spirituale" - Robert Spaemann mi aiuta a riflettere e a superare la mia posizione a quattro livelli.
In primo luogo vi è stata sempre una disputa a riguardo di cosa sia giusto ed ingiusto. Di fatto le persone non hanno mai smesso di discutere su questo tema e quello che dicono non ha a che fare solo con il diritto positivo vigente nel loro paese (di fatto a volte lo mettono in discussione) e neppure con i loro interessi (cfr. l'attualità del diritto naturale, in ibidem 60 sg). Insomma non bisogna avere paura di una disputa - bisogna solo evitare violenza fisica (anche psicologica) e fanatismo. Ma bisogna anche evitare di trovare solo dei "compromessi" - questi hanno a che fare con rapporti di potere e non con la verità. E questo vale anche come "resistenza" a quel sistema liberale che in alcuni scritti, riferendomi a Christoph Menke, ho chiamato quello di "Londra" (l'unica verità è quella individuale), a differenza di quelli di "Atene" (verità attraverso il diritto) e "Roma" (diritto come obbligo).
Nella questione del diritto naturale non sono in gioco i valori occidentali - questi possono essere anche solo espressione di relativismo, che è il contrario della ricerca della verità. Con il diritto naturale non stiamo cercando i valori occidentali, ma il "tao" (C.S. Lewis), insomma ciò che tutti riconoscono come indispensabile per l'essere uomano.
Il diritto naturale non è neppure identificabile con i nostri bisogni "naturali" e tanto meno con la loro soddisfazione "cultuale". L'uomo è un momento della natura e della biologia, ha un corpo sessuale e non solo e non primariamente un'identità gender.
Il diritto naturale non si mette in contrasto a priori contro il diritto positivo, anzi riconosce questo, prima facie, come una prima esigenza del diritto naturale. Fino a quando le comunità vivevano ognuna per sé con la propria mitologia cosmica, non è nata l'esigenza teleologica - non naturale! - del diritto naturale. Questa disputa, su cui si litiga e non si cerca un compromesso, è nata con la discussione in una polis tra posizioni di comunità diverse e presupponendo la libertà. Non si può costringere nessuno a riconoscere un certo diritto come "naturale" - perché questa sarebbe una contraddizione in termini. Anche se si fa parte di questa communio antropologica, non perché si eserciti attivamente la libertà, ma per appartenenza biologica - un bambino nell'utero della mamma è un uomo, anche se non sa argomentare la sua appartenenza umana. Lo stesso vale per i bambini che muoiono nelle guerre o nel Mar Mediterraneo.
Etc.
(1.8.20 - Alfonso di Liguori) "È il modo di pensare antropocentrico stesso che minaccia di distruggere l'uomo" (Robert Spaemann, ibidem 54). La dimenticanza della questione teleologica è il passo decisivo di questa distruzione dell'uomo, con conseguenze politiche non superabili da nessuna "teologia politica" (di destra, di sinistra o verde). Non solo l'uomo ha il suo "telos", ma anche la natura, meglio anche le cose e gli animali hanno il loro telos, non solo per noi, "per sé" (coscienza), ma "in sé". Per questo la perdita di una specie, che non avremmo mai veduto nella nostra vita, ci rende tristi. Teleologia significa spiegare fenomeni naturali in modo antropomorfico - ma solo l'antropomorfismo ci può liberare da ogni forma di distruzione antropocentrica. Pensare infine che solo l'uomo agisce con tendenze (verso un telos), mentre tutto l'essere a lui circostante sarebbe frutto di evoluzione casuale, è una forma di "miracolismo", di fronte al quale i miracoli sono estremamente razionali.
Questa problematica filosofica ha una dimensione politica, che Spaemann presenta senza cadere in nessuna forma di "teologia politica" , di destra, di sinistra o verde. La coscienza ecologica fa parte della "vita buona" - Spaemann è stato uno dei pensatori cattolici con più forte coscienza ecologica, anche se ci ha reso attenti a forme di "dittatura verde". Per quanto riguarda destra e sinistra, egli vede il problema legato alla questione della "teleologia" - la destra tende all'inversione teleologica, cioè la riduzione della teleologia a salvaguardia di un sistema: ma la pura salvaguardia di un sistema (nazione...), senza un attenzione ai contenuti della "vita buona", è "nichilismo": anche ciò che vi è di positivo nel "conservare" vive del "nuovo". La sinistra rappresenta quel progetto emancipatorio che non vede alcuna "misura" nella natura teleologica. Ma senza misure il nuovo diventa rivoluzione che si suicida, per parlare con Augusto Del Noce.
Per quanto riguarda i "bisogni": non siamo felici perché tutti i nostri bisogni estetici vengono esauditi (anche a costo delle esigenze di generazioni future), come non siamo religiosi in forza di un bisogno religioso. Il senso religioso non è un bisogno religioso - quest'ultimo è l'inversione del senso religioso, ridotto a "funzione". Il progetto emancipatorio di sinistra tende ad assolutizzare i bisogni, il progetto restauratore di destra invece li nega. Dovremmo trovare anche a questo livello una via di mezzo. E per far ciò abbiamo bisogno sia del concetto di natura teleologico, sia del "diritto naturale", di cui si serve anche la "Laudato si" di Papa Francesco quando al numero 94 afferma: "Il ricco e il povero hanno uguale dignità, perché «il Signore ha creato l’uno e l’altro» (Pr 22,2), «egli ha creato il piccolo e il grande» (Sap 6,7), e «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). Questo ha conseguenze pratiche, come quelle enunciate dai Vescovi del Paraguay: «Ogni contadino ha diritto naturale a possedere un appezzamento ragionevole di terra, dove possa stabilire la sua casa, lavorare per il sostentamento della sua famiglia e avere sicurezza per la propria esistenza. Tale diritto dev’essere garantito perché il suo esercizio non sia illusorio ma reale. Il che significa che, oltre al titolo di proprietà, il contadino deve contare su mezzi di formazione tecnica, prestiti, assicurazioni e accesso al mercato». Papa Francesco usa il termine "natura" nello stesso modo del filosofo cattolico Spaemann.
(31.07.20 - Ignazio di Loyola) Perché le pecore che vivono e mangiano sull'argine del mare del Nord sono più "felici" di pecore che venissero allevate in uno spazio ristretto, solo (!) per trarne lana e latte?
Alla domanda si può rispondere solamente se si tiene conto di una natura teleologica. "La discussione del problema teleologico è antica quasi quanto la filosofia. Questo concetto che traiamo dal contesto umano di un azione riguardante una meta o scopo promuove la nostra conoscenza della natura? Così potremmo approssimativamente porre la domanda: Empedocle e Democrito rispondevano ad essa in modo negativo. Platone ed Aristotele in modo affermativo" (Robert Spaemann, Teleologia della natura ed azione, in "Saggi filosofici", ibidem, 41). "Felice" è un antropomorfismo, come lo è in riferimento ad un gatto che gioca con la sua pallina, ma senza questo antropomorfismo ci è difficile spiegare e comprendere un fenomeno del genere. Il "telos" di cui parliamo fa di una pecora sull'argine del mare del nord un soggetto teleologico, che ha insomma un scopo in sé e non solo per noi. Quando questa mattina ho visto una delle tantissime pecore morte sul margine, irrigidita, ho sentito dolore, perché vi è una analogia tra la sua morte e la nostra, in cui diventiamo dapprima cadaveri irrigiditi. Quando le vedo mangiare "tranquille" non posso non pensare ad una "analogia" o "similitudine" con il nostro mangiare: se esiste una natura teleologica, indipendente dal grado di coscienza, allora tutti gli esseri non stanno solo a nostra disposizione, non possono essere solo funzionalizzati per il nostro paradigma tecnico, ma hanno senso in sé.
L'inversione teleologica, cioè la riduzione dell'idea di telos a funzione, si occupa solamente della sopravvivenza o dell'auto-conservazione - ma la pecora irrigidita di questa mattina mi faceva vedere che il suo telos è più di offrirci latte e lana. In quella pecora (che per contrasto ne meditavo la cessazione della vita) si era concretizzato il dono dell'essere e ciò non in modo avaro - quando Dio dona, dona realmente, dona una vita, una sostanza vivente. Le sostanze viventi non sono donate solo per un'auto-conservazione o per lo sfruttamento. Che poi per una "giustizia" (Anassimandro) ciò che nasce deve anche morire non cambia nulla a ciò che sto dicendo. Il senso necessario dell'essere di cui parla Ferdinand Ulrich si concretizza anche nella pecora ed essa partecipa a quell'interezza del dono dell'essere. Robert Spaemann e Ferdinand Ulrich si arricchiscano a vicenda, come ho già detto: la metafora del dono sarebbe senza il termine di "teleologia" debole, perché non sarebbe espressione di una libertà in sé, ma solo dipendente dal donatore, ma come ha spesso spiegato Ulrich il donatore non dona nella modalità di un si e di un no, ma dona così che il dono stesso è "similitudo divinae bonitatis" - la pecora come dono partecipa alla bontà del donatore ed è questo il motivo per cui è bene per la pecora, per il tempo che vive, di vivere sull'argine e non in una gabbia.
L'uomo è più importante di una pecora o di un virus, che possiamo esperimentare come nemico, ma il suo vero rapporto con gli altri esseri non è quello del dominio, ma quello di una simbiosi, in un certo senso reciproca. Questo significa la filosofia teleologica di Platone, Aristotele fino a Spaemann. La filosofia dell'essere come dono arricchisce questo pensiero nel senso che la metafora del dono, presa dall'esperienza quotidiana, ci permette di illuminare anche una discussione "troppo" filosofica e che di per sé sarebbe difficile da comunicare nella sua valenza universale. Il cantico delle creature di Francesco, per usare un altro paragone, ci aiuta ad aprire il cuore e non solo la mente al problema teleologico di cui stiamo parlando.
(Mare del Nord, Bensersiel - foto mia, 31.07.20)
(30.07.20) Emancipazione dalla natura? Una riflessione su tecnica e natura.
La tesi sul tema di Robert Spaemann è la seguente: "Laddove l'emancipazione dalla natura diventa scopo autonomo, nella modalità di un dominio progressivo sulla natura stessa, li accade una ricaduta nel naturale puro" (ibidem, 33) - quindi per Spaemann il naturale puro non è lo scopo dell'agire umano. Il leone che mangia l'antilope è naturale puro, come lo è la zanzara che ci infastidisce. Spaemann è, come abbiamo già detto, interessato alla natura teleologica, non alla natura pura: "Solo dove la natura nell'azione viene conservata nella memoria come misura dell'agire, accade un'autentico sorpasso della natura". Quando Papa Francesco nel punto 90 della "Laudato si'" ci ricorda che non dobbiamo "divinizzare la terra" e che dobbiamo mantenere la gerarchia ontologica, con l'uomo come essere più importante e con più responsabilità, afferma quello che Spaemann intendeva dicendo che la natura pura non è lo scopo ultimo dell'agire dell'uomo. L'uomo si trova e si è sempre trovato in un rapporto di simbiosi responsabile con la natura: una simbiosi che non divinizza la natura, che sa che essa è donatrice di beni, ma anche nemica. Quello che sia per Papa Francesco che per Spaemann è decisivo è il superamento di ogni forma di dominio arbitrario: "amplificazione del dominio sulla natura è anche sempre allo stesso tempo amplificazione del dominio sull'uomo" (Spaemann, 35) - come Francesco ci ha fatto vedere nella sua "Querida Amazonia".
In questo senso tecnica e natura non sono un alternativa: "il tecnicismo compiuto è allo stesso tempo naturalismo perfetto" (ibidem, 36) - con un fucile si può cadere in una dipendenza dalla natura. La natura teleologica di cui parla Spaemann ci aiuta a compiere quell'atto di vera emancipazione dal naturalismo e dal tecnicismo, come libertà - il grande tema della modernità - di rinunciare ad ogni dominio arbitrario, "in un atto del lasciar essere" - insomma la libertà è risposta adeguata al dono dell'essere gratuito, che non viene manipolato per i propri interessi. Dono (Gabe) dell'essere e compito (Aufgabe) nell'agire sono due parole che dipendono intimamente l'una dall'altra La tecnica per questa filosofia cattolica (Spaemann, Ulrich) non è uno spaventapasseri, ma si fa giudicare dalla natura teleologica dell'uomo e della "casa comune", per evitare Hiroshima e Nagasaki e Chernobyl. Abbiamo bisogno di una "nuova simbiosi", che viene "stabilizzata non attraverso l'impotenza dell'uomo, ma piuttosto attraverso la memoria cosciente delle premesse naturali dell'esistenza umana" (ibidem, 37). Il superamento del paradigma tecnocratico e del suo funzionalismo, di cui parla la "Laudato si'" sarà possibile solamente se l'uomo troverà nuovamente quel compasso dell'agire che da Aristotele a Spaemann porta il nome di teleologia: l'uomo non agisce in modo arbitrario e manipolatore, ma al servizio della sua umanità (anche quando agisce in modo tecnico) e
(29.07.30) Hans Blumenberg (cfr. Massimo Borghesi, La terza età del mondo. L'utopia della seconda modernità, Roma 2020) ) ci presenta una „legittimità“ della modernità, che rifiuta o perlomeno problematizza l’idea di secolarizzazione come trasposizione di temi giudeo-cristiani e che si vuole „autoaffermazione di sé“ alternativa a ciò o che al massimo vede la fase della storia passata come un punto di partenza da cui si vuole rivoltare.
Augusto Del Noce e Massimo Borghesi pensano una „legittimità critica“ della modernità che sa ereditare ciò che vi è di positivo in essa - il superamento delle guerre di confessione e l’idea di libertà.
Robert Spaemann vuole invece difendere l’illuminismo contro l’interpretazione che da di sé (cfr. ibidem, 14) - in un certo senso questo è anche un tentativo di legittimità critica - solo che nel pensatore tedesco l’aspetto critico è molto più forte che, per esempio in Massimo Borghesi. Il progetto di emancipazione illuminista viene visto come un tentativo fortemente errato di comprendere cosa sia l’umano.
Credo che tutti i grandi filosofi cattolici da me qui citati siano amanti della libertà e non auspicano nessuna forma di fanatismo religioso (in questo senso sono tutti per una „legittimità critica“), ma credo che tutta la questione della legittimità o meno della modernità dovrebbe essere precisata anche in relazione allo „stato di vita del cristiano“ (Hans Urs von Balthasar). I tre consigli evangelici sono in un certo senso la dimostrazione più evidente della falsità del progetto emancipatorio moderno. L’obbedienza versus la riduzione della libertà in libertà di scelta (quella che usiamo in un supermercato); la povertà versus forme di dominio del denaro che creano come contraccolpo la miseria di tanti poveri; la verginità versus l’uso pornografico del corpo. Il merito della „teologia del corpo“ (Giovanni Paolo II) è stato di farci riflettere sul valore sacramentale del matrimonio e sul concetto di responsabilità erotica. Nei miei tentativi di filosofia dei sessi ho espresso forse in modo marcato la dimensione della legittimità moderna, sempre in dialogo interiore con lo stato di vita del cristiano (Balthasar) che con la teologia del corpo (GPII), ma cercando di esprimere la legittimità di un vissuto erotico e sessuale, complementare ma diverso da qualsiasi forma monacale e matrimoniale. La dimensione erotica supera la dimensione monacale e matrimoniale: lo dico senza senza voler legittimare il tradimento o la pornografia.
Mi sembra certo che la rivoluzione francese e l'illuminismo abbiano contribuito a ridimensionare il potere clericale, ma credo che il vero ridimensionamento sia dovuta allo "stato di vita del cristiano" (Balthasar) che vede una duplicità tra laicità e consigli evangelici e non primariamente tra laici e clerici. Anche la "teologia del corpo" (Giovanni Paolo II), e non solo Papa Francesco, ci hanno offerto gli strumenti di critica del clericalismo, che in verità dovrebbe essere criticato, con Charles Peguy, nelle doppia dimensione di clericalismo clericale e laicale.
Il progetto emancipatorio della modernità, se non corretto da una critica seria (cosa che tra l'altro hanno tentato di fare anche autori come Theodor W. Adorno e Max Horkheimer), porta con sé un totale attacco allo stato di vita del cristiano e alla vita matrimoniale - nei "Minima moralia" Adorno stesso ha tentato di fare, a suo modo, come critica della spontaneità nel capitalismo, una difesa della virtù della "costanza" (numero 110).
(28.07.20) Da certo punto di vista si potrebbe pensare che vi sia una differenza grande tra la filosofia dell'essere gratuito di Ferdinand Ulrich e quella della natura teleologica di Robert Spaemann, ma io non penso sia vero; anzi credo che le due filosofie siano del tutte complementari e fanno vedere un sguardo veramente metafisico di entrambi gli autori. In entrambi non vi è nulla di amareggiato, ma un grande tentativo di discernimento nel primo e di comprensione nel secondo. Entrambi sanno che non solo di Dio, ma anche della filosofia, si può dire che il successo non è una categoria garantita. Bisogna anche precisare che gratuità non è arbitrio: il dono dell'essere gratuito ha un suo "senso necessario" (Ulrich).