domenica 26 novembre 2023

Vivere il reale. Il decimo capitolo de „Il senso religioso“ di Don Luigi Giussani

„La formula dell’itinerario al significato ultimo del realtà quale è? Vivere il reale“ (Luigi Giussani, Il senso religioso, Milano 1986, 145). Non posseggo qui nella diaspora l’ultima edizione pubblicata dalla Rizzoli, ma non mi risulta che vi sia, almeno per quanto riguarda questo capitolo, che l’autore considerava il più importante del libro, un cambiamento contenutistico; la prima stesura de „Il senso religioso“, in una variante più corta, risale all’anno 1966. 



Il libro con cui io a livello filosofico mi sono confrontato più intensamente, l’ „Homo Abyssus“ di Ferdinand Ulrich (1931-2020), è stato scritto nel 1961. Don Giussani non aveva letto il libro del filosofo tedesco, mentre quest’ultimo aveva letto il libro di don Giussani e mi aveva detto che aveva pensato seriamente di dedicare un semestre all’università di Ratisbona, prima di essere emerito, allo studio del libro del sacerdote italiano; il progetto non andò in porto, ma credo piuttosto per lo stato di salute di Ulrich che per altre preoccupazioni. Quale è il nesso tra le due opere? Per usare le parole di don Giussani, esso consiste in questo punto: „Il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte ad una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui dipende. Tradotto empiricamente è la percezione originale di un dato. Un uso totalmente umano di questa parola „dato“, nel senso che uno vi applica tutte le implicazioni della sua persona, tutti i fattori della sua personalità, la rende viva: „dato“, participio passato, implica qualcosa che „dia“. La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo „dato“, e quindi il primo contenuto dell’impatto con la realtà è la parola dono.“ (136). Nell’ontologia dell’ „Homo abyssus“, un abisso che risulta da tutte le implicazioni della persona umana, è che l’essere stesso è un atto di amore gratuito: „dono“ per l’appunto. Nei confronti di questo atto „è una passività che costruisce l’originaria attività“ dell’uomo (cfr. „Il senso religioso“, 136-137). Una „secondarietà“ direbbe il filosofo della religione francese Remi Brague. Quando Ulrich parla dell’“obbedienza al senso necessario dell’essere“, intende questa „passività“ (Giussani),„secondarietà“ (Brague) dell’uomo nei confronti di Colui che dona gratuitamente l’essere. Questa obbedienza o passività non è mancanza di creatività, ma è propria all’uomo che può pensarsi solo in relazione a Colui che dona l’essere nella modalità dell’ „analogia“ (Erich Przywara):  „Questo è il valore dell’ „analogia“: la struttura di impatto dell’uomo con la realtà, desta nell’uomo una voce che lo attira ad un significato che è più in là, più in su, „anà“ (Il senso religioso, 146). Ulrich parla di „sovraessenzialità“ dell’essere, ma questa sovraessenzialità non è in gioco in un’idealità astratta (utopica), ma nella „materia“, nella concretezza del reale, nell’impatto con il reale. Quell’ in „su“ si rivela nella modalità del „movimento di finitizzazione dell’essere“ (Ulrich) - non vi è né un reale senso religioso né una reale comprensione filosofica che non implichi „una serietà con il reale“. Sia per il senso religioso di don Giussani che per l’ontologia dell’essere come dono di amore gratuito di Ulrich, il positivismo, che domina la mentalità dell’uomo moderno“ (Il senso religioso, 146), „esclude l’invito a scoprire il significato che ci viene rivolto proprio dall’impatto originario ed immediato con le cose“ (Il senso religioso, 146). Questo impatto originario ed immediato è lo stupore di fronte al fatto che „ci sia qualcosa invece che nulla“ (Heidegger, Balthasar). Non la paura, la paura, come dice don Giussani è sempre un secondo passo. Lo stupore, l’essere sorpresi dalla gioia (C.S. Lewis) è il „primerear“ (Papa Francesco) di un atteggiamento ontologico-cristiano, che implica sempre una „priorità della realtà sulle idee“ (Jorge Mario Bergoglio, Massimo Borghesi). Una realtà che ci si rivela non in primo luogo nei grandi progetti, ma nella piccola via del quotidiano (Teresa di Lisieux, Charles de Jesus). Per le sfide in cui ci troviamo a vivere, la proposta di Giussani e dei suoi fratelli e sorelle spirituali che abbiamo appena citato, è del tutto liberante: „il cammino al vero è un’esperienza“ (come giudizio, non come arbitrario provare) e non una bigotta o ribelle percezione del reale. Come Ulrich, anche Giussani sa che il dono dell’essere è „semplice e completo“ (Tommaso d’Aquino), non deve essere pianificato utopicamente nella modalità di „un non essere ancora dell’essere“ (Ernst Bloch); come Ulrich don Giussani sa che l’essere finito non è sussistente (Tommaso d’Aquino), senza cadere nella tentazione di un’“ontologia debole“, che pur in dialogo con la religione cristiana, cede troppo al nichilismo. Il nichilismo, come ha saputo spiegare don Julián Carrón è la forma „positivista“ ultima, postmoderna, della percezione del reale: non ci permette di „scoprire il significato che ci viene rivolto proprio dall’impatto originario ed immediato del reale“ (Giussani, ibidem). Alla sfida del nichilismo Julián Carrón risponde con la „bellezza disarmata“, Ulrich, similmente, con una gratuità che attacca il nulla dall’interno: nel “medesimo uso di essere e „nulla“ (Ulrich) il dono gratuito dell’essere, nella sua bellezza ontologica disarmata, ci fa vedere che è possibile fare un’esperienza del „nulla“ ben più profonda di quella del nichilismo. La gratuità del dono dell’essere è così gratuita che non si ferma neppure di fronte alla sfida del „frustra“, che ha condotto l’uomo al nichilismo. Gratis et frustra sono le due facce di una stessa sfida, quella della gratuità dell’amore. 

„L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale“ (Il senso religioso, 145). Viverlo sapendo che non ci facciamo da noi, viverlo in una dipendenza grata, in una dipendenza libera. Le ideologie, bigotte e ribelli, ci rendono non liberi. Certo forse non sarà possibile vivere sempre così intensamente il reale, come possiamo imparare dall’intensissimo diario di Etty Hillesum, che però conosceva anche la dimensione non analogica, cioè „bassa“ del reale, ma per essere veramente religiosi, ci fa vedere la giovane ebrea uccisa da Hitler ad Auschwitz, basta „vivere il reale“, non c’è bisogno né di asfissianti metodi ultra tradizionalisti e bigotti di gestione della vita religiosa, né di ribellarsi al male, che ha ucciso Etty, ma non ha impedito che la sua vitalità giungesse fino a noi. È possibile una „comunione liberante“ con chi dona l’essere rispondendo, come possiamo, anche „con il peccato“ (Agostino, Claudel) alla sua gratuità con atti di gratuito amore, per Dio che dono l’essere e con il più piccolo dei nostri fratelli con cui Dio stesso è solidale (Mt 25, 31-46). Per far questo non abbiamo bisogno di alcuna egemonia culturale o politica, né di essere sempre l’alternativa migliore a ciò che fa l’uomo moderno e postmoderno, basta lo stupore, per esempio „nei confronti di questo mistero di fecondità della terra e della donna“ (Il senso religioso, 140). In questi venti anni nella diaspora in una delle regioni più secolarizzate del mondo, la Sassonia-Anhalt, ho imparato sempre di più ad evitare confrontazioni ideologiche, concentrandomi sul dono dell’essere, nella modalità del „vivere il reale“.


Roberto Graziotto (1960), Scritto nel giorno di Cristo Re del’Universo secondo il canone romano e dedicato a Gianni Mereghetti e Renato Farina. 


(14.1.24) Postilla al capitolo nono del „Senso religioso“ di don Giussani. Il capitolo nono porta il titolo: „Preconcetto, ideologia, razionalità e senso religioso“. Esso mi permette di continuare il lavoro che sto facendo in questi giorni con „la grammatica dell’assenso“ di Newman, un lavoro di discernimento tra la certezza del cuore e le inferenze logiche (anche don Giussani ne parla quando afferma: certe argomentazioni potranno essere anche logiche, ma non sono razionali (132)). Come è noto don Giussani distingue tra due idee del „preconcetto“: vi è un senso giusto del termine ed uno cattivo. Nel mare di ciò che viene detto e comunicato „l’uomo reagisce, e reagisce in base a quello che sa e che è“ (127) - questo è il significato buono del termine. Quello cattivo consiste nella mancanza di „apertura di domanda“ (127). Il preconcetto più pericoloso della nostra epoca, per don Giussani, è quello del materialismo (128), e se davvero abbiamo un cambiamento radicale di paradigma in questi ultimi decenni, allora esso ha un altro nome: nichilismo! Dalla materia si può giungere, ci ha insegnato Ulrich nell’ „Homo Abyssus“ alla dimensione religiosa, o detto filosoficamente a quella „sovraessenziale“. Il niente invece è niente! E si sparge e si dilata come ha saputo raccontare Michael Ende nella sua „Storia infinita“ e don Giussani ci dice bene come si sparge: „con la mentalità comune del popolo“ (128), con la mentalità comune „attraverso i mass-media“ (129), di cui fanno parte tutti gli organi aziendali ed ora attraverso i „social media“ e il loro continuo chiacchiericcio, da non confondere con gli esercizi reali di democrazia. Qui il preconcetto cattivo diventa ideologia! Quest’ultima non ha interesse alle domande ultime della persona nel suo cammino al vero, che è la sua esperienza: questa persona singola, questo individuo „viene emarginato una volta che ha dato spunto all’intellettuale per i suoi pareri, o al politico per giustificare e pubblicizzare una sua operazione“ (129). Come anche Newman, Giussani lotta duro contro ogni forma di „ipse dixit“ - perché oggi i maestri alla moda, nel giornalismo, nel cinema, nelle visioni del mondo fanno passare solo uno „scetticismo distruttore“, il nichilismo appunto, dobbiamo imparare ad usare la nostra ragione. Cosa si può opporre a tutto ciò, come proposta creativa, non come apologetica? Don Giussani lo dirà chiaramente nel capitolo decimo che ho già commentato, ma lo accenna anche già nel capitolo nono: l’esperienza!  Ulrich mi ha insegnato che il cuore di questa esperienza è l’amore gratuito (gratis et frustra). Solo nella gratuità o al „nulla“ (de nada) dell’amore vi è una risposta intima al nulla del nichilismo!  Don Giussani parla di „significato“. „ L'esperienza stessa nella sua totalità guida la comprensione autentica del termine ragione o razionalità. La ragione infatti è quell'avvenimento singolare della natura in cui questa si rivela come esigenza operativa a spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, così che l'uomo sia introdotto alla verità delle cose“, al significato delle cose dirà più tardi. Tutti i fattori è forse un’esagerazione dell’anima nobile di don Giussani, ma ci siamo intesi. „ Il senso religioso appare come una prima e più autentica applicazione del termine ragione, in quanto non cessa di tendere a rispondere all'esigenza ad essa più strutturale: quella del significato“ (132). E di questo significato, come ho compreso ieri in dialogo con Newman (cfr. il mio diario di ieri, 13.1.24) (1) siamo „certi“, ma non possiamo proiettare questa „certezza“ nell’ambito delle narrazioni di ciò di cui non abbiamo esperienza diretta, senza cadere nuovamente nell’ideologia e nel preconcetto cattivo. - Per quanto riguarda Kant e la citazione che ne fa Giussani nel capitolo novo, bisogna stare attenti a discernere non solo la comunanza, ma anche la differenza. Per Kant la questione del senso religioso è un errore necessario della ragion pura, in questo senso Kant non è un illuminista triviale, ma è pur sempre un errore, che la ragione pura non può risolvere. La ragion pratica lo può, ma come postulato. Mentre questa differenza non c’è in Giussani, per il quale l’essere costretta della ragione, l’essere „forzata“ della ragione a prosi il problema del senso religioso non è un errore, ma un’implicazione  dell’esperienza; senza tenerne conto non si può che cadere nell’ideologia e nel preconcetto cattivo. Uno scontro solo ideologico contro false ideologie non è un cammino „certo“, ma „proselitismo“; con ragione oggi il Santo Padre Francesco all’Angelus commentando Gv 1, 35-42 (con un linguaggio davvero giussaniano) sottolinea che la prima frase di Gesù ai discepoli è una domanda, è un richiamo forte a guardarsi dentro e non a combattere ideologicamente contro false ideologie. Guardarsi dentro per trovare quella certezza di cui il nostro cuore ha bisogno e per restare in comunione con Colui che è „la via, la verità e la vita“. VSSvpM! 


(1) Quanto ho scritto nel mio diario in dialogo con Newman l'ho raccolto anche in questo post: La grammattica dell'assenso di Newman - Per quanto riguarda il mio diario, ecco il link: Diario diurno 


(15.1.24) Postilla capitolo primo del Senso religioso La frase di Alexis Carrel citata da don Giussani nel „Senso religioso“ (capitolo primo: Una premessa: realismo), „Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità“ (Senso religioso, 11), che avevo criticato qualche tempo fa, è del tutto vera, se con ragionamento si intende una „inferenza logica“: questo tipo di ragionamento, che è l’inferenza logica, dice con ragione Newman, è condannato all’imprecisione (cfr. „La grammatica dell’assenso, 170), se ci riferiamo a „cose sensibili“: „nella sfera sensibile abbiamo molto più a che fare con cose che con nozioni“ (ibidem, 170). Dobbiamo però specificare di che tipo di ragionamento stiamo parlando? Una riflessione ontologica che parta dal „fatto“ (meglio atto) del dono dell’essere come amore gratuito è tanto quanto, anzi molto più precisa di qualsiasi osservazione! Quando ragioniamo possiamo farlo per ampliare la nostra conoscenza delle cose  e dei fatti che non devono a noi i loro attributi“ (Newman, 170). L’atto del dono dell’essere in modo eccellente non deve a noi nulla di sé e delle proprie proprietà, ma se ci limitiamo solo all’osservazione di fatti è anche possibile un’ampliamento non della sapienza, ma di un cumulo di sapere assolutamente inutile e non amoroso. Se siamo alla ricerca di qualcosa, diciamo il pianeta Nettuno, che è l’esempio fatto da Newman, l’inferenza logica, qui nella modalità della matematica, deve sempre tener conto di un „margine di errore“; giustamente spiega Newman: „il successo  (cioè l’avere trovato il pianeta Nettuno in forza di un calcolo) non sarebbe parso tanto trionfale se non ci fosse stato un rischio di insuccesso“. Insomma ripeto ciò che ho già detto nei giorni passati: un’inferenza sillogistica, matematica, giuridica, etc si muove sempre nell’ambito del verosimile, non del vero, del probabile, non del certo! Ciò non significa che il verosimile sia inutile, per l'appunto è vero-simile. Non significa che un'inferenza matematica sia inutile, eccetera. L’errore che dobbiamo evitare è quello di applicare i cosiddetti universali alle cose singole. Newman fa degli esempi molto buoni (rinvio alle pagine, 170-176). Il fatto che io faccia parte degli uomini e che si possa dire in generale che l'uomo è un animale politico, non fa di me, quel Roberto particolare, un animale politico…anche l'argomento astratto che una persona che conosca bene la matematica a livello accademico la insegni meglio a degli adolescenti di un insegnante che a livello accademico la conosca non così bene, è solo un’ astrazione, che conduce all’errore. „ Le leggi generali non sono verità intangibili; tantomeno sono cause necessarie“  (Newman, 171) - in questo senso hanno ragione sia Newman che Giussani. Ma la riflessione ontologica di cui parlavo non è l’applicazione di una teoria generale ai fatti, ma la percezione del cuore dei fatti stessi, che per l’appunto non possono essere solo osservati, ma amati. Il realismo non consiste nell’osservazioni di fatti, ma nella scoperta „intima“ direi che in ogni fatto ed in ogni persona vi è un momento di gratuità, che non è arbitrarietà, ma la traccia del dono gratuito d’amore che è la donazione dell’essere. Questa critica alla generalità astratta di Newman vale anche per le narrazioni generali. Newman fa questo esempio: „ Vediamo ad esempio questo argomento deduttivo: „L'Europa non potrà avere pace finché non saranno ridotte le ingenti forze armate dei singoli suoi paesi, perché un grande esercito mobilitabile già da solo provoca la guerra“. Qui la conclusione indica solo una probabilità, perché forse nessuno dei singoli paesi questa idea si realizza, anzi in ciascuno di essi, di fatto, certe circostanze politico o sociali possono annullare il pericolo astratto“ (Newman, 173-174). Anche la frase: „non ci sarà pace fino a quando non smetterà di produrre le armi“, è molto astratta, forse un desiderio pio, ma di fatto non si sa mai se mentre un certo paese smette di produrre armi, un altro invece le produce ancora di più. Ma per non sembrare che stia facendo una critica al Papa o al desiderio di pace - chi ha letto il mio diario sa che non l'ho mai fatto - vorrei anche dire che anche la teoria o narrazione generale che un aggressore possa essere fermato solamente con le armi, e per l'appunto solo una teoria. Che ha forse un momento di probabilità, sicuramente non di certezza. La nostra certezza consiste davvero nella „profezia della pace“, senza per questo essere degli ingenui, cioè senza ridurre la profezia in una teoria generale o in un sillogismo… Piuttosto è vero che una guerra, mai e poi mai corrisponde all’unico realismo che sia davvero reale e cristiano: quello del dono dell’essere come amore gratuito! 


(17.1.24) Postilla al secondo capitolo del Senso religioso. Non mi sembra esservi dubbio, sebbene questa affermazione sia abbastanza divertente, in riferimento all’oggetto di cui parleremo, che „La grammatica dell’assenso“ sia una delle fonti delle premesse del „Senso religioso“ di Don Giussani e che per esempio nel capitolo „L’inferenza concreta“, l’esempio con l’insularità della Gran Bretagna corrisponda alla domanda che pone don Giussani, sulla dimostrabilità dell’esistenza dell’America hic et nunc: „ la capacità di mostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole non è la capacità di dimostrare“ (Giussani, „Seconda premessa. Ragionevolezza“  nel „Senso religioso“, 25). Don Giussani cita un suo dialogo con un collega: „ professore, io non sono mai stato in America, ma le posso con certezza assicurare che l'America c’è. Lo affermo con la stessa certezza con cui dico che lei si trova davanti a me in questo momento. Trova questa mia certezza ragionevole?“ (Senso religioso, 27). Il collega per la dinamica del discorso, si trova costretto a rispondere di no; commenta don Giussani: „ io ho un concetto di ragione per cui ammettere che l'America c'è senza averla mai vista può essere ragionevolissimo, al contrario di quel professore il cui concetto di ragione gli fa dire che non è ragionevole. Per me la ragione è apertura alla realtà, capacità di afferrarla e affermarla nella totalità dei suoi fattori. Per quel  professore ragione è “misura“ delle cose, fenomeno che si avvera quando c'è una diretta dimostrabilità“ (Senso religioso, 28). Insomma don Giussani ha un concetto di ragione come apertura e fiducia; poi prosegue il suo discorso con la „diversità di procedimenti“; ai mi allievi lo presento così: è ragionevole se mia moglie mangia la torta che ho preparato per il suo compleanno e non sarebbe ragionevole se pretendesse una dimostrazione chimica che nella torta non vi sia alcun veleno; mentre se faccio un esperimento chimico non posso dire alla professoressa che mi fido di lei e che non è necessario che faccia parte di questo esperimento. I procedimenti della ragionevolezza sono diversi, etc. Newman si concentra sulla differenza tra inferenza logica astratta e l’inferenza non formale e procede in modo più lento di Don Giussani. La frase di don Giussani sopra citata: „ la capacità di mostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole non è la capacità di dimostrare“, è comprensibile nel suo discorso, ma forse Newman fa comprendere meglio che anche il metodo corretto con cui si affrontano quesiti concreti non si sostituisce „all’inferenza logica, ma fa con essa un tutt’uno“ (Newman, La grammatica dell’assenso, 179). Probabilmente nelle sue esposizioni sulla „diversità di procedimenti“ (Senso religioso, 28-29),don Giussani dice la stessa cosa, ma parlando in dialogo con studenti del liceo e non facendo un ragionamento „universitario“ forse mette in evidenza troppo velocemente la soluzione del problema, rinviando all’apertura della ragione e alla fiducia. In questi anni direi che senza l’aiuto di don Giussani non avrei avuto il coraggio di affrontare alcuni argomenti con i ragazzi a scuola, ma allo stesso tempo il lento procedere di Newman corrisponde di più alla mia sete filosofica. Gli esempi che fa Newman riguardanti il presente, il passato e il futuro (l’insularità della Gran Bretagna, l’esistenza di alcuni autori classici e la domanda: „ quali ragioni mi rendono sicuro che io, proprio io, morirò?“ (Newman, 183) mi sembra che permettano al santo inglese di insistere sulla probabilità delle inferenze logiche, una probabilità ben necessaria, ma che non può mai sostituire il „buon senso“; Newman come Giussani vogliono con tutte le forze evitare che ci vengano date „parole invece di cose“ (Newman 183). È da buon inglese Newman cerca di evitare „quello che Locke chiama un surplusage, un eccesso delle credenze sulle prove. Però, dove fallisce la logica riesce il mio pensiero naturale, il mio buon senso - cioè il modo sano in cui funziona la mia mente (anche se non sono in grado di tradurlo in parole adeguate: sicché (per quanto riguarda il terzo esempio) io rimango nella convinzione più precisa, più piena, che un giorno morirò“ (Newman, 184); e questo vale anche per il mio essere nato, etc. Non vi è alcuna contraddizione tra Giussani e Newman, forse solo nella lentezza dell’argomentare del secondo, che mi permette di approfondire più precisamente la questione della certezza, che non è una questione di „pertinenza della logica statistica“ (184), che non è riducibile alla sola inferenza logica, ma suppone una „correlazione tra certezza e prova implicita“ (cosa che don Giussani ben sa!). Mi sembra insomma che Newman mi aiuti ancor meglio a non mettermi sotto lo stress di dover dire con delle parole, ciò che le parole non permettono, tanto meno permettono esse un passo continuo e senza salto tra la certezza e la fiducia che c’è l’America e la certezza del cielo. Parlando della possibile conversione di un protestante al cattolicesimo, Newman dice con ragione, che ciò sia impossibile con un argomentare logico o sillogistico, ma lo diventa possibile con un „atto rapido ed illuminato“ (Newman, 179), che non ha bisogno necessariamente di essere espresso in parole…


(18.1.24) Postilla al capitolo sesto e settimo del „Senso religioso“ di don Giussani, che portano uno stesso titolo, ma con una differenziazione: „Atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo“. Il sesto nel senso dello „svuotamento della domanda“ e il settimo nel senso della „riduzione della domanda“. Una prima nota in generale mi sembra essere questa: Don Giussani non si sente al di sopra delle tentazioni, ma sa che esse potrebbero essere anche le sue. „„Nihil humani a me alienum puto“: non ritengo che non possa accadere anche a me una cosa che sia accaduta ad un altro uomo“ (83). Senza questa posizione questo grande lavoro di discernimento sarebbe infine solo fanatismo integralista; non è così. Una seconda nota, che ho cercato di spiegare oggi ai miei ragazzi nel corso di filosofia: c’è un fuoco che dobbiamo „custodire“ e senza il quale abbiamo a che fare con l’abolizione dell’uomo stesso. Ed anche se un carattere e diverso da un altro e non tutti hanno la modalità del fuoco del sacerdote lombardo, questo lavoro di discernimento va fatto (Ulrich lo fa ad un livello filosofico per tutto l’“Homo abyssus“; io sono meno convinto di don Giussani che si possano tenere presenti „tutti“ i fattori, ma dobbiamo averne almeno la disponibilità (ci è difficile comprendere anche solo tutti i fattori coinvolti in una mosca). Quali sono le posizioni che don Giussani con ragione ritiene „irragionevoli“? 1) La negazione teoretica delle domande ultime, perché non servirebbero alla „ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti“ (85).2) La sostituzione volontaristica delle domande ultime, che hanno una tensione all’infinito, „per mettersi in adorazione davanti all’altare costruito con le sue stesse mani“ (Russel, citato alla pagina 88). Una frase simile si trova anche nello „Spirito dell’utopia“ di Ernst Bloch. 3) La negazione pratica delle domande ultime, non per mezzo di teorie, ma di anestetici (alcool, droga sono gli esempi del Gius; io aggiungerei le chiacchiere nei social media e nella realtà offline). Le prime tre posizioni irragionevoli sono riassunte con la parola „svuotamento“. 4) L’evasione estetica o sentimentale come riduzione dell’impeto del cuore in uno sdegno che si perde nel vento (97). 5) La negazione disperata; qui Giussani ci vede la posizione più seria e cita l’ossessione di Adorno: „ossessione che dalle figure dell’apparenza emerga la salvezza“ (100); „Quello che Adorno chiama „ossessione“ (anche per la fedeltà come dice nell’aforisma sulla „costanza“ in Minima Moralia; Giussani cita un altro aforisma da questa raccolta; RG) è la struttura dell’uomo, è quello che chiamavamo „cuore““ (100). Il confronto serrato di don Giussani con grandi  poeti del passato e del nostro tempo è impressionante. 6) L’alienazione provocata dal potere e dall’ideologia che Giussani riassume così: evoluzione del progresso vs originalità irriducibile della persona umana e delle sue domande (104). Una voce autorevole contro questa tendenza che mi ha fatto anche ridere per il suo umorismo è quella di Churchill: „ Il decano di studi umanistici, parla con venerazione dell'abilità scientifica che sta avvicinandosi al controllo dei pensieri umani con precisione. Io sarò assai contento, prima che ciò accada, di essere morto“ (107). La posizione più irrazionale di tutte, ad un livello ontologico, ha a che fare con il rifiuto teorico e/o pratico della rilevanza e dell’atto stesso del dono dell’essere come amore gratuito, rifiuto che porta necessariamente al nichilismo nelle sue diverse forme e che Giussani esplicita nelle sei posizioni di cui sopra.


(21.1.24) Postilla l capitolo 8, 1 „Conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli“; „La rottura con il passato“. Come anche nell’Homo Abyssus Ulrich, così Giussani nel „Senso religioso“, si confrontano con le dimensioni del passato, del presente e del futuro; Giussani cita la letteratura cinese „ a cavallo tra l’ottavo e il nono secolo“ ed uno „scrittore del Samizdat, cioè della letteratura clandestina sovietica“. La tesi del capitolo è chiarissima (e corrisponde a ciò che dice Ulrich nell’Homo Abyssus): „ la mia libertà (è) sempre un presente. Ma il contenuto è nel passato, la ricchezza è nel passato. Quanto più uno è potente come personalità, tanto più è capace di recuperare tutto il passato“ (113). Le preoccupazioni sono espresse dal saggio cinese citato in questo modo: „oggi quelli che pretendono di (innovare) rigettano lo Stato e la famiglia, e aboliscono le relazioni naturali, di modo che il figlio non rispetta più il padre, il suddito non si sottomette più (alla legge)… Ma allora che cosa bisogna fare?… Bisogna che gli uomini agiscono da veri uomini… e siano (nuovamente) istruiti nella dottrina (antica). Speriamo che così sia“. 


(22.1.24) Seconda postilla al capitolo ottavo del „Senso religioso“, „Conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo“. Due di queste conseguenze sono l’incomunicabilità e la solitudine. Posso confermare, dopo 30 anni di insegnamento, ciò che scrive don Giussani:   „La vecchiaia a vent’ anni ed anche prima, la vecchiaia a quindici anni, questa è la caratteristica del mondo di oggi“ (116). In questa vecchiaia si sveglia l’istinto sessuale che da a volte la sensazione di essere giovani, ma mancando quell’esperienza che nasce da una memoria, diventa difficile dialogare come persone; il legame che si istaura con qualcuno - cosa di per sé miracolosa -  è piuttosto „reattivo“, il suo eros con il tuo, essendo però il contesto di questa reazione, „le forze più incontrollate dell’istinto e del potere“ ( 117) è difficile, anche se non impossibile arrivare ad un vero e proprio dialogo. Vedo che non c’è un grande interesse, a parte qualche eccezione, ad un vero dialogo tra le generazioni (sto parlando della mia vita, non della vita di altri). Il problema si incentiva quando non riguarda solo individui, ma tutto un popolo. Il motivo per cui io a partire da un certo punto ho smesso di fare polemiche contro il passato della DDR, delle persone che vivono accanto a me o che non partecipo allo sdegno contro la AfD è perché ho la sensazione che ciò contribuirebbe solamente a „disintegrare“ quel poco di „memoria“ che hanno le persone intorno a me. Ed ad aumentare la loro solitudine! - Ho ritrovato in questo capitolo una frase a me molto cara, che ho spesso usato in questi vent’anni nella diaspora; molti colleghi legano la mia persona al motto: „sguardo della totale simpatia“, ma in vero Pavese non dice „sguardo“, ma „giorno“ „Un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo“ (Pavese, citato da don Giussani, 117) - ci serviamo degli altri, non facciamo credito a loro di un giorno di simpatia totale, non solo di uno sguardo di simpatia totale, ma del tempo, un giorno di simpatia totale, senza pensare „so come sei fatto“. In questi giorni sto lavorando tanto per andare a scuola con gioia e non come un dovere, aspettando il fine settimana e poi la pensione…questo è il mio „peccato“ più grande, che è anche una mancanza di fiducia nello Spirito Santo! VSSvpM! 


(22.1.24) C’è una frase di Tommaso d’Aquino che riassume il percorso filosofico di Ferdinand Ulrich, ma anche l’intuizione ultima del „Senso religioso“ di  don Giussani: „Cum autem in re sit quidditas eius et suum esse, veritas fundatur in esse rei magis quam in quidditate, sicut et nomen entis ab esse imponitur; et in ipsa operatione intellectus accipientis esse rei sicut est, per quandam simulationem ad ipsum, completur relatio adaequationis in qua consistit ratio veritatis. Unde dico, quod ipsum esse rei est causa veritatis, secundum quod est in cognitione intellectus“ (1. S. 19. 5. 1)“ (citata da Ulrich in „Homo Abyssus“, 436-437). Ne offro qui una traduzione approssimativa: "Ma quando la quidditas di una cosa coincide con il suo essere, la verità si basa sull'esistenza della cosa più che sulla sua quidditas, così come il nome di 'ente' viene attribuito dall'essere stesso. Nell'atto stesso dell'intelletto che riceve l'essere della cosa così com'è, si completa una relazione di adeguatezza attraverso una sorta di simulazione verso di esso. È in questa relazione di adeguatezza che risiede la natura della verità. Perciò, dico che l'esistenza stessa della cosa è la causa della verità, nella misura in cui è nella conoscenza dell’intelletto.“. Ci siamo così abituati, anche nel modo con cui ci esprimiamo, a parlare dell’essenza (quidditas) delle cose che abbiamo perso di vista il fatto che l’essere si dona gratuitamente come amore nella piccola via del quotidiano, non nelle cose essenziali; il grande lavoro di discernimento consiste nel non confondere questo movimento di finitizzazione dell’essere nelle sostanze, nella realtà, come una prigionia nelle cose stesse, cioè in un’esperienza priva di memoria (che è poi la riduzione dell’esperienza ad un provare le cose), per usare il linguaggio di Don Giussani nel capitolo ottavo del „Senso religioso“. 

(11.2.24) (Pomeriggio) Leggo nel giorno dell’anniversario della morte di Ulrich (il suo dies natalis lo ha chiamato padre Servais in due righe grate, che mi ha appena scritto, in risposta a ciò che gli avevo mandato ieri) le pagine di don Giussani, intitolate: „Perdita della libertà“, nell’ultimo paragrafo del capitolo ottavo del „Senso religioso“: „Conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo“. Nel linguaggio filosofico di Ulrich ciò che esprime don Giussani si può esprimere con questa domanda: è possibile nell’esperienza la sovraessenzialità? Cioè una dimensione che sia „sovra“ l’essenza delle cose, cose come viene presentata dal potere dominante? È possibile la libertà o siamo solamente espressioni biologiche, sociologiche o psicologiche del reale? Certo sarebbe necessario precisare cosa sia l’istinto e cosa sia il potere; Giussani ci vede una parentela: „ho terminato (il paragrafo precedente; rg) dicendo che l'individuo resta in balia delle forze più incontrollate dell'istinto e del potere: è la scomparsa della libertà“ (118). Nel linguaggio di Giussani l’incontrollato non è solo qualcosa di negativo, come in questa frase; per esempio dice anche che ci può salvare solamente un imprevisto ed un imprevisto è per l’appunto incontrollato. Comunque anche prima di queste precisazioni (cosa sia l’istinto e cosa sia il potere), possiamo prendere come ipotesi di lavoro questa affermazione: la mentalità comune porta all’alienazione totale (cf. 118). „Che cosa sia l'amore tra l'uomo e la donna, che cosa sia la paternità, la maternità, che cosa sia l'obbedienza, la compagnia, la solidarietà e l'amicizia, che cosa sia la libertà, tutto ciò genera nella maggioranza della gente un'immagine o un'opinione o una definizione mutuata letteralmente dalla mentalità comune, vale a dire dal potere“ (118). Giussani fa una critica radicale all’ideologia, come „una concezione totalizzante dell’uomo favorita dal potere“ (124). E in questo contesto afferma che non vi è differenza tra Hitler o Stalin (cf. 121). Ed io direi in dialogo con Matt Crawford che la „revolutionary mindset“, a partire dalla Rivoluzione francese fino alle rivoluzioni antropologiche dei nostri giorni, propongono  un’ultima forma, postmoderna, di „concezione totalizzante dell’uomo“ nel senso della negazione di tutto ciò che è ovvio, come la differenza tra uomo e donna, o come vittimismo delle minoranze che vogliono essere uguali alle maggioranze. Ciò non toglie che anche in questo contesto Dio sia „vicinanza, tenerezza e misericordia“ (lo ha ripetuto il Papa all’Angelus per l’ennesima volta), e questo vale anche per le minoranze, per le vittime reali e per quelle che si presuppongono tali, ma mai e poi mai la dottrina sociale cattolica potrà conciliarsi con lobbies del potere, che riducono gli uomini in „tipi“ - l’essere uomo o donna non è una tipologia, ma un’esperienza elementare! Quando Giussani dice con un certo orgoglio: „ Solo la Chiesa nella sua tradizione difende il valore assoluto della persona, dal primo istante del suo concepimento fino all'ultimo momento della sua vecchiaia, anche decrepita ed inutile: in base a che? Come fa l'uomo ad avere questo diritto, questa assolutezza, per cui, anche se il mondo si spostasse, egli ha in sé qualcosa che gli dà il diritto di non spostarsi? Ha dentro qualcosa per cui può giudicare il mondo da cui nasce“ (122), dicevo quando don Giussani scrisse questa frase, vera, non aveva potuto tenere conto della situazione in cui ci troviamo oggi e cioè una situazione in cui la Chiesa stessa, sociologicamente e psicologicamente parlando, ha perso in credibilità, perché lei stessa ha ceduto alla mentalità dominante e corrotta. Grazie a Dio sono stato educato dai miei maestri a non vedere una Chiesa che indichi se stessa come verità, ma che indica Dio come verità assoluta e nel capitolo su cui stiamo riflettendo Giussani dice che possiamo avere un contatto diretto con l’infinito; quante volte Ulrich ha citato la frase di Tommaso: „non est aliquid inter Deum et creaturas“. E quindi il paradosso salvifico di cui parla don Giussani vale anche oggi: „la libertà è la dipendenza da Dio. È un paradosso, ma chiarissimo. L'uomo - l'uomo concreto, io, tu - non c'era, ora c’è, domani non sarà più: dunque dipende o dal flusso dei suoi antecedenti materiali, ed è schiavo del potere; o dipende da ciò che sta all'origine del flusso delle cose, oltre esse, cioè da Dio“ (123). Quelli che don Giussani chiama gli „antecedenti materiali“ non possono essere completamente tolti; per questo motivo trovo la sfida di Ulrich: cercare la sovraessenzialità non nell’essenza delle cose, ma nella materialità delle stesse, di vitale importanza (come lo è l’insistere di don Giussani sull’esperienza). E quando andiamo a sbattere con il naso contro gli „antecedenti materiali“ (l’inconscio personale e collettivo è la dimensione perversa di essi), dobbiamo riprenderci: Gesù non si stanca mai di perdonarci, noi ci stanchiamo di chiedere perdono. E Gesù stesso, come ho fatto notare nella meditazione mattutina di ieri nel mio diario (10.2.24) è molto realista: sa che non si può mandare una folla a casa senza mangiare, perché svenirebbe. Don Giussani coglie un aspetto molto importante dell’esperienza, quando collega la libertà al desiderio: „noi ci sentiamo liberi per la soddisfazione di un desiderio“ (119). A livello sessuale si dovrà tener conto che sia il pudore che l’istinto sessuale sono forme in cui si esprime il desiderio di libertà e di superamento dell’angoscia di vivere. La soddisfazione „sovraessenziale“ (Giussani la chiama „totale“) è la meta: „ seguendo l'indicazione dell'esperienza, e chiaro che la libertà si presenta a noi come la soddisfazione totale, il compimento totale dell'io, della persona o come la perfezione“ (119). Una persona come Etty Hillesum, che davvero non ha smesso di credere nell’amore di Dio, neppure quando il destino si è fatto oscuro, mi ha insegnato ad essere più realista dei miei maestri sacerdoti, che  a volte sono un po’ troppo idealisti. Infine il laico Ulrich mi ha fatto comprendere come esperienza quello che Tagore esprime nella poesia che don Giussani cita alla fine del capitolo: „ il tuo amore {mio Dio} è più grande del loro {dei potenti}, eppure mi lasci libero… non ti tengo nel mio cuore eppure il tuo amore per me ancora attende il mio amore“. Mai ho fatto esperienza del lasciar-essere dell’amore come nell’incontro con Ulrich, che non ha caso è stato il maestro che più ha convinto mia moglie…

(18.2.24) Postilla al capitolo quarto del „Senso religioso“. Prima parte, 51-58. „Noi siamo fatti per la verità, intendendo per verità la corrispondenza tra coscienza e realtà“ (Giussani, opera citata, 51). Spesso ci muoviamo, mentre ragioniamo, nell’ambito della verosimiglianza  e non della verità. Tutti i temi che si possono trovare in una pagina culturale di un qualsivoglia giornale, riguardano la verosimiglianza (Cicerone). La verità riguarda solamente quell’esperienza elementare che Giussani chiama „senso religioso“. Si tratta di un’esperienza il cui punto di partenza siamo noi stessi (cf. 52). „Partire da se stessi“ può anche diventare una frase ambigua, che ha a che fare piuttosto con le idee correnti e l’ideologia dominante! „Partire da se stessi“ non ha nulla a che fare con l’incontro utopico con se stessi (Bloch), che, come mi scrisse una volta Balthasar in una lettera, potrebbe essere anche l’inferno! „Partire da se stessi“ non ha neppure nulla a che fare con il farsi qualcosa di buono (Anselm Grün), che è in vero un po’ come consigliare a qualcuno di masturbarsi. Quest’ultima cosa può essere un’esigenza del corpo e della psiche, ma dobbiamo guardarci dal venderla come un consiglio spirituale o evangelico. „Partire da se stessi“ vuol dire fare un lavoro con il nostro io in azione, in paragone con la propria tradizione (che per la nostra regione qui in Sassonia- Anhalt dove scrivo è quella comunista e quella luterana; solo per una piccolissima minoranza è quella cattolica) e ancor più con il proprio presente, in forza „di un principio critico che sta dentro di noi, nativo, perché dato originalmente, l’esperienza elementare“ (56). Si tratta di fare un lavoro serio con quel momento per noi di importanza vitale che è il nostro io, ora presente, anche se in dialogo con ciò che hanno pensato, sentito e voluto i nostri padri, nel senso della frase di Goethe citata da don Giussani addirittura in tedesco e che è stata il titolo di un Meeting di Rimini: „quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo“ (56). Questo grande lavoro con se stessi dovrebbe impedire di cadere nelle maglie della mentalità dominante, del mainstream, ma purtroppo è davvero raro incontrare persone, anche nel Movimento, che siano davvero libere; basta pensare a come recepiscono in queste ore l’idea che solo Putin è causa della morte di Navalny (morte che mi ha rattristato tanto, perché fa male sentire il suo destino di solitudine e penso con dolore anche a sua moglie, ma come mi rattrista anche il destino di Assange). Le reazioni dei ciellini nei confronti della guerra in Ucraina ed anche della morte di Navalny rivelano solo una sviscerata dipendenza dalla mentalità dominante; non dico che qualcuno non sia davvero triste per la morte di questo uomo eroico (Navalny), ma dico solo che gli schemi ricettivi ed ermeneutici dei miei confratelli e delle mie consorelle sono del tutto dipendenti da ciò che il mainstream ritiene doloroso. E la tradizione e i padri a cui ci si riferiscono non hanno minimante a che fare con quella „vita intera“ e che non dimentica nulla di cui parla don Giussani: „il senso religioso è l'impegno con la „vita intera“, nella quale tutto va compreso: amore, studio, politica, denaro fino al cibo e al riposo, senza nulla dimenticare, né l'amicizia, né la speranza, né il perdono, né la rabbia, né la pazienza. Dentro infatti ogni gesto sta il passo verso il proprio destino“ (55). Per dirlo con una punta polemica, sebbene io ami più Navalny che Putin, quest’ultimo ha un senso della frase di Goethe sull’eredità dei padri, come si vede nell’intervista con Tucker Carlson, infinitamente più grande di tante sorelle e fratelli di CL. „Was du ererbt von deinen Väter hast, erwirb es, um es zu besitzen“ (Goethe, citato da Giussani, 56). VSSvpM! 

(25.2.24Postilla del capitolo quinto del „Senso religioso“ di don Giussani, „Il senso religioso. Sua natura“; Don Giussani riassume i passi precedenti in questo modo, lo cito perché io non  avevo commentato nel post sul libro (lo avevo fatto solo en passant nel diario) la seconda parte del capitolo quarto. „Abbiamo già motivato che dal punto di vista metodologico la partenza per un'indagine, come quella che ci interessa, è dalla propria esperienza, da se-stessi-in-azione. Abbiamo evidenziato con una iniziale riflessione i fattori in gioco nella nostra esperienza che ci hanno mostrato la non univocità del composto umano, perciò l'aspetto materiale e spirituale della nostra vita. Ora osserviamo il fattore religioso come l'aspetto fondamentale del fattore spirituale“ (edizione italiana citata, 65). Nella mia nota en passant nel diario avevo notato che a me questa non univocità, che sarà certamente interpretata come fattore moderno in Giussani, mi sembrava non chiara e che alimentava in me il sospetto di un dualismo fatale, ma avevo anche sottolineato che l’esempio di don Giussani stesso, con Benedetti Michelangeli e il pianoforte, faceva vedere, al contrario e per me in modo soddisfacente, come materia e  spirito si appartengano. Comunque sia trovo molto bello il modo con cui Giussani parla della natura del senso religioso, citando in primo luogo poeti e tra loro in primo luogo il grande Giacomo Leopardi, con il suo linguaggio inimitabile, così che se ne riconosce subito lo stile. Il senso religioso viene proposto come la domanda ultima sul senso totale del reale, dapprima appunto come domanda e poi come risposta: „di che cosa e per che cosa è fatta la realtà?“ (65). L’impegno con questa domanda per Giussani è un impegno con l’esperienza e con la quotidianità, „come radicale impegno del nostro io con la vita“ (65), alla ricerca del „significato del tutto“ (68) e che Leopardi esprime con la famosa domanda: „Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren?che vuol dire questa / Solitudine immensa? ed io che sono?“ (Citato in ib. 66). „In tutte le letterature del mondo si trova questo „tao“ (per usare la parola di Lewis, usata più nel senso di norme universale etiche) ontologico! Credo che non sarebbe difficile trovare una citazione adeguata in Hölderlin…Giussani afferma che questa domanda è inestirpabile, e sarei davvero interessato a sapere se la „macchina“ (Paul Kingsnorth) non sia in fondo capace a sostituirsi alla domanda stessa…che è poi, questa sostituzione, il grande problema dell’assolutizzazione del paradigma tecnico, che ci fa dimenticare che l’uomo è fatto per la pace, per il rispetto della sua casa comune e dei poveri (Papa Francesco)…e con la pace, la natura e i poveri ci fa dimenticare quell’esperienza ultima di povertà e mendicanza che si esprime nella domanda: ed io che sono? Da questa domanda nasce anche un’ultima vicinanza e misericordia per tutte le sorelle e tutti i fratelli uomini, ed anche per chi è in ricerca della propria identità di gender, che sanno di dover morire e che cercano di dimenticare la domanda inestirpabile, „il pensiero dominante“ (nel senso di Leopardi): „gli altri pensieri miei / Tutti si dileguàr. Siccome torre / In solitario campo, / Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei“ (la mia mente). È chiaro che con la filosofia dell’essere come atto di amore gratuito Ulrich cerchi di dare una risposta all’esigenza totale che esprime Don Giussani!   

(3.3.24) Nel „Senso religioso“ Giussani cita questi versi da una poesia famosa di Leopardi (SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA): „Desiderii infiniti / E visioni altere / Crea nel vago pensiere, /Per natural virtù, dotto concento; / Onde per mar delizioso, arcano / Erra lo spirito umano; / Quasi come a diporto / Ardito notator per l’Oceano: /Ma se un discorde accento / Fere l’orecchio, in nulla  / Torna quel paradiso in un momento./ Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, /Se polve ed ombra sei, tant’alto senti? / Se in parte anco gentile, /Come i più degni tuoi moti e pensieri / Son così di leggeri / Da sì basse cagioni e desti e spenti?“; questi stessi versi tradotti in un italiano più semplice: "Desideri senza fine / E grandi aspirazioni/ Nel nostro vago pensiero / Sorgono spontaneamente, Portando la mente umana / Verso mondi di bellezza e conoscenza, / Come una nave che solca / Le acque misteriose dell’oceano./ Ma se un suono sgradevole / Colpisce l'orecchio, tutto /Questo splendore svanisce all’istante {io avevo capito il contrario}. / O natura umana, come mai / Sei così sensibile e elevata, / Se sei così fragile e insignificante, / Se sei solo polvere e ombra? Se sei anche gentile in parte, / Perché i tuoi pensieri più nobili /  Possono essere così facilmente influenzati / Da cose così banali e insignificanti?“ (Chatgpt). Per quanto riguarda l’espressione: „dotto concetto“, ho trovato questa spiegazione: „L'espressione "dotto concento" si riferisce a un accordo o una concordanza che è risultato dalla saggezza o dalla conoscenza acquisita. In questo contesto, indica che le "visioni altere" e i "desiderii infiniti" creati nel vago pensiero sono il risultato di un accordo o una concordanza che nascono dalla conoscenza naturale o dalla virtù intellettuale. Don Giussani cita questi versi per far comprendere quella contraddizione che siamo noi uomini: „il mistero eterno dell’essere nostro“. Anche se il linguaggio poetico di Leopardi è molto bello, mi aveva più aiutato, perché l’ho compreso meglio, il passaggio citato dai „Pensieri“: „il non poter essere sodisfatto da alcuna cosa terrena…e sempre accusare le cose d’insufficienza e nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana“ (Leopardi, citato in „Senso religioso, 69). Giussani cita il passaggio per spiegare „la sproporzione alla risposta totale“. Quindi i due punti di questo paragrafo del „Senso religioso“ (5,5) sono la contraddizione e la sproporzione umana al cospetto del „Mistero“. La frase più geniale è secondo me: „accusare le cose d’insufficienza e nullità“ e poi il pensiero della „noia“. Chatgpt spiega: „In questo passaggio, Leopardi sta riflettendo sul fatto che l'essere umano non può mai essere pienamente soddisfatto da nulla di terreno o materiale. Anzi, tendiamo a percepire le cose come insufficienti e prive di significato, portando così a un senso di vuoto e insoddisfazione, che lui chiama „noia". Per Leopardi, questo senso di noia è un segno di grandezza e nobiltà nella natura umana, perché suggerisce una ricerca di qualcosa di più elevato, di più significativo, al di là delle semplici soddisfazioni materiali. La noia diventa quindi un'indicazione del desiderio umano per qualcosa di più profondo e significativo, oltre alla soddisfazione dei bisogni materiali. In questo senso, Leopardi interpreta la noia come un sintomo di aspirazioni più elevate e di una ricerca di senso e significato nella vita“. Un senso minacciato dal „nulla“, che qui (a differenza di Ulrich) ha solo una connotazione del tutto nichilistica: l’insufficienza e la nullità delle cose terrene; il „senso religioso in Leopardi non viene acquietato neppure dalla vastità del cosmo: „ immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che si fatto universo“. VSSvpM! 

(10.3.24) (Scuola di comunità con don Giussani) Chi come don Gussani usa espressioni come „violenza del potere“ (Senso religioso, V,6) non può essere ridotto ad un pensatore ed educatore con un „buon senso borghese“ o „senso equilibrato“ (Renato); e quando don Giussani parla della „violenza del potere“ non ha solo in mente le autocrazie, ma ogni società, anche democratica, in cui „la filosofia diventa ideologia“. „Una società ideologica infatti tende a congelare ogni vera ricerca: usa il potere che detiene come strumento per contenere tale ricerca entro certi limiti di realizzazione e di manifestazione. Una dittatura non ha mai interesse che la ricerca sull'uomo sia libera, perché una ricerca libera sull'uomo è il limite più pericoloso al potere, e sorgente incontrollabile di possibilità di opposizione“ (SR, 72). Ovviamente questo vale anche per le autocrazie e forse in modo particolare per loro, ma a me interessa di più quando la nostra società democratica diventa „ideologica“; per questo cito autori che criticano la „macchina“ (il paradigma tecnocratico) come Paul Kingsnorth o che fanno vedere che il „modello cinese“, tecnocratico e burocratico, sta diventando sempre di più la nostra narrazione unica del mondo, come N.S. Lyons. Il filosofo che amo di più, Ferdinand Ulrich, ha compreso come nessun’altro e non solo filosoficamente l’invito all’umiltà di don Giussani: „la filosofia deve avere l'umiltà profonda di essere tentativo tutto spalancato e desideroso di adeguamento, compimento, correzione: deve essere dominata dalla categoria della possibilità“ (72). Il dono dell’essere come amore gratuito genera la possibilità, proprio perché non è controllabile da nessun potere, neppure da un potere ecclesiastico. Il contesto in cui don Gussani dice queste cose è il tema della „sproporzione strutturale“ che c’è tra la nostra domanda di senso e le risposte; Giussani argomenta con poeti  (Rilke, Leopardi) e scienziati (Francesco Severi, Albert Einstein). Cerca di contrastare ogni „progetto di potere“ ed interesse solo egoistico. „Una società ideologica tende a congelare ogni vera ricerca“ (72) ed in primo luogo questa ricerca strutturale di cui parla il sacerdote lombardo. „L’inesauribilità delle risposte alle esigenze costitutive del nostro io è strutturale“ (70) - e le risposte del paradigma tecnocratico (Jets e satelliti) non sono la risposta di don Giussani. L'altro giorno cercando di spiegare le difficoltà strutturali dell'uomo per arrivare alla felicità, stavo spiegando Aristotele, ho cercato di far comprendere che quando si scambiano i mezzi con i fini, come fa in continuazione la società della macchina, allora non è solo una questione accidentale che una certa capacità tecnica e scientifica non ci doni la felicità, ma è una questione strutturale. Per Aristotele l’uomo è felice quando può occuparsi con tutto se stesso del fine e non si accontenta di certi mezzi per ottenerlo; Giussani fa un passo oltre e ci fa vedere che il fine stesso è strutturalmente non raggiungibile dall’uomo, perché questo fine è un „insondabile mistero“…

(17.3.24Scuola di comunità con don Giussani. Il capitolo V, 6 sulla „tristezza“ mi corrisponde profondamente. Mi sembrano due gli aspetti determinanti. Uno storico-politico, l’altro ontologico, l’uno si inserisce nell’altro. 1) Alla presunzione del potere, carica di censure e di rinnegamenti, corrisponde nel singolo, nell’uomo reale, la grande tristezza, carattere fondamentale della vita consapevole di sé, „desiderio di un bene assente“, diceva San Tommaso“ (72-73, edizione citata). „La presunzione del potere non è solo quella autocratica, che oggi si esprime nelle pseudo elezioni russe. „Censure e rinnegamenti“ sono proprie anche alla nostra società democratica, che „sdogana la guerra“ (copyright: Banfi). 2) Il secondo aspetto già accennato dalla frase di Tommaso, viene approfondito da don Giussani con scrittori e poeti (Rebora, Dostoevskij, Leopardi). Nel senso della parola „Schwebe“ come la usa Balthasar, non come la usa Ulrich, per il quale è una questione di sospensione ontologica astratta del movimento di finitizzazione del dono dell’essere nel quotidiano. Per Balthasar indica un movimento transitorio, non astratto, che Rebora esprime nei versi: „mentre ciascuno si afferra a un suo bene che gli grida: addio“ (73); e che Leopardi esprime nel verso: „A pensare come tutto al mondo passa, / E quasi orma non lascia…“. Ciò che prometteva un senso fugge e provoca una tristezza buona, piena di senso. Giussani la esprime come una „„differenza potenziale“ tra la destinazione ideale e l’incompiutezza storica“ (74) - questa era la mia intuizione  per un dottorato di ricerca su Balthasar da Robert Spaemann agli inizi degli anni 90, ma non ero ancora maturo filosoficamente per farla e Spaemann è un grande ma non in questa dimensione della transitorietà: un’etica ha bisogno giustamente, di valori che durano nel tempo. Infine molto bella in Giussani è l’opposizione logica tra tristezza e disperazione. Il cristiano non può essere disperato, perché il nemico è vinto! 

(5.4.23) La „molteplicità delle scienze speciali“ di cui parlano Max Scheler (La posizione dell'uomo nel cosmo) e Ernst Cassirer (Tentativo sull'uomo) sono la quotidianità di chi si trova a lavorare in una scuola, in cui per l’appunto si insegnano ai ragazzi una molteplicità di materie, che derivano da quelle scienze speciali. Chi ha vissuto una vita in una „scuola cristiana“ si sarà certamente chiesto come affrontare i problemi (non solo i vantaggi) che nascano da una tale molteplicità. Le premesse del „Senso religioso“ di don Giussani offrono una proposta pedagogica per affrontarla. Cristo viene poi proposto come Colui in cui è possibile integrare anche questa molteplicità scientifica; ed ovviamente in un senso molto generale il Logos universale e concreto che è Cristo è capace di integrare il tutto delle scienze, ma noi non possiamo dedurne un’idea unitaria „astratta“ capace di essere normativa nei diversi ambiti del sapere. Io mi limito a sottolineare che la molteplicità dei metodi è una cosa buona e che solo così è possibile giungere ad un sapere differenziato, ma ovviamente questa non è ancora la risposta unitaria ricercata da Cassirer. La TL I di Balthasar offre anche un tentativo di pensare il mondo unitariamente ripercorrendo l’intimità propria a tutti i livelli del reale, dalla pietra all’uomo… 

(7.4.24(Nota sul capitolo V,7 „La natura dell’io come promessa“ nel „Senso religioso“ di Don Giussani) Dapprima vorrei sottolineare che Giussani dialoga seriamente con un comunista come Cesare Pavesi, come io dialogo seriamente con un marxista (materialista dialettico) come Slavoj Žižek. Forse questo dialogo è più complesso perché Pavese vede il dramma in riferimento al proprio io, mentre Žižek lo vede in riferimento all’essere stesso. „Chi ringraziare, chi bestemmiare il giorno che tutto finirà?“ si chiede Pavese; in cui la gioia che non si calcola, ma viene donata, finirà? Il buco radicale che vede Žižek è nell’essere stesso, non solo nella coscienza di esso. Pavese scrive: „Ciò che l’uomo cerca nel piacere è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questo infinito“. Žižek sa invece che il sesso (diciamo un piacere forse ancora più intenso che vincere il premio Strega), non può che mancare l’assoluto. Giussani dice che nella morte la domanda dell’uomo, la sua natura come promessa „trova la contraddizione più potente e sfrontata“, ma aggiunge: „questa contraddizione non toglie, bensì esaspera la domanda… quando un'energia è tesa, se trova un ostacolo si tende ulteriormente, non si smonta“; questa è la differenza tra una scimmia ed un uomo nel vivere il desiderio sessuale: nella scimmia l'energia si smonta molto velocemente, mentre nell'uomo no. Quanto Žižek dice a riguardo del sesso vale ovviamente anche per la struttura della promessa in generale. È interessante come il marxista Žižek e il sacerdote cattolico Giussani abbiano entrambi un senso per l’esasperazione della domanda „come l’impatto di una corsa contro il muro“…

(21.4.24Note di scuola di comunità. Senso religioso, V, 8. Don Giussani è interessato a tracce di un „ardore radicale“, che trova in Thomas Mann e Cesare Pavese; tracce del senso religione come dimensione umana che il sacerdote lombardo cerca in autori non autoreferenziali per un cattolico. Cerca „il punto infiammato“ (Cesare Pavese) nelle persone, si lascia interrogare da posizioni che non sono immediatamente la sua come nel caso del filosofo americano Whitehead, che afferma che la „domanda ultima è costituiva dell’individuo“; don Giussani non lo mette in dubbio, ma sa che c’è ancora qualcosa d’altro: „la la religione è sì ciò che l'uomo fa nella solitudine, ma anche ciò in cui scopre la sua essenziale {userei piuttosto la parola „elementare“, invece che „essenziale“; rg} compagnia. Tale compagnia è poi più originale della solitudine, in quanto quella struttura di domanda non è generata da un mio volere, mi è data. Perciò prima della solitudine sta la compagnia, che abbraccia la mia solitudine per cui essa non è più vera solitudine, ma grido di richiamo alla compagnia nascosta“  (Senso religioso, 79); si tratta della compagnia offertaci da chi dona l’essere come amore gratuito e che trova nella compagnia umana una sua immagine, ma per l’appunto un’immagine, immagine del Deus absconditus (Pascal), che Giussani esprime con una poesia di una poetessa, Pär Lagerkvist:  „uno sconosciuto è il mio amico / uno che io non conosco./ uno sconosciuto lontano lontano. / per lui il mio cuore è pieno di nostalgia./ perché egli non è presso di me. / perché forse non esiste affatto? / chi sei tu che colmi il mio / cuore della tua assenza? / che colmi tutta la terra della tua assenza? Don Giussani sa che senza Cristo noi non siamo niente; così commenta Balthasar At 4,8-12: „ Pietro … dà al Signore tutto l'onore del miracolo da lui compiuto. Egli viene viene interrogato in nome di chi abbia guarito il paralitico. Risposta: di nessun altro se non della „pietra angolare (da voi)  rigettata“, perché unicamente in Gesù gli uomini possono trovare salvezza: spirituale e qui anche corporale“ (Balthasar, Luce della Parola, commento alle letture della quarta domenica di Pasqua). Nel capitolo V, 8 del „Senso religioso“ Giussani non esplicita la figura di Cristo, rimane nella dimensione del Mistero che è Dio stesso, ma l’associazione mi sembrava doverosa, perché c’è il rischio di leggere quella frase sulla compagnia in modo auto-lodante; sarebbe un peccato. Comunque mi preme in fine di rivelare la simpatia, accennata all’inizio di queste righe della simpatia del sacerdote lombardo per l’ardore radicale. Questa simpatia è ancora presente in CL o è nascosta sotto le ceneri, per riprendere un’ immagine, di Mahler, usata dal Papa quando parlò con la nostra fraternità. In tanti di CL io vedo un ardore guerriero e occidentalista, non questo ardore per la domanda ultima…

(28.4.24La conclusione del capitolo quinto del „Senso religioso“ di  Don Giussani. L’affermazione centrale è chiara: „Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza dell’uomo“ (79). Questo è il „senso necessario dell’essere“ (Ulrich): la connessione necessaria tra la risposta (Dio) e la domanda (l’uomo); per questo non siamo gettati nel mondo, ma donati! L’accortezza di don Giussani consiste nel dire che la „risposta non può essere che insondabile“. Noi siamo radicati in questa risposta „ultima“, „un destino ultimo, un senso di tutto“ e se perdiamo la fiducia in questa connessione, le cose non si fanno solo difficili, ma folli, nel senso della frase di  Shakespeare: „il mondo senza Dio sarebbe una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore“. La grande accortezza paterna di don Giussani è la specificazione: „a quelle domande costitutive noi diamo una risposta: coscientemente ed esplicitamente, o praticamente e incoscientemente“ (80). Ci ha visitato una giovane amica, che è giudice a Colonia, e mi ha detto tristemente che ha perso la fede, ma praticamente aiuta i cittadini che incontra per questioni assicurative, ascoltando attentamente le loro domande, a comprendere quale sia il senso di una certa legge, in modo che il cittadino non abbia solo un senso di estraniazione nei confronti della legge, che per esempio regola un’inondazione in modo tale che se pur hai perso tanti soldi, non sempre ciò che ti è accaduto è nell’ambito della tua assicurazione; questa empatia per gli altri, non è direttamente un’attenzione teologica, ma è „ultima“ perché tenta di dare un risposta al senso di giustizia innato nell’uomo…


mercoledì 4 ottobre 2023

La moderna vittimologia politica - Mark Shiffman

 La moderna vittimologia politica

 Mark Shiffman




 

Il mito fondante del liberalismo moderno, lo Stato di natura, si presenta in tre varianti principali: statalista hobbesiano, libertario lockeano e rivoluzionario rousseauiano. Tutte e tre le varianti condividono una caratteristica comune che ha catturato l'attenzione sia degli entusiasti che dei critici del liberalismo: ritraggono gli esseri umani come individui naturalmente liberi da ogni soggezione e subordinazione, così come da qualsiasi pretesa fatta su di loro da tradizioni o istituzioni già esistenti. Questa immagine dell'io, svincolata da qualsiasi fonte di formazione e obbligo precedente alla volontà dell'individuo, contribuisce all'immaginazione sociale di una sfera pubblica secolare che non risponde a nessuna verità o autorità superiore.

 

Un'altra caratteristica che accomuna questi miti ha ricevuto molta meno attenzione. Tutti e tre i miti sono vittimologie. Parlano con retorica diversa dei modi in cui gli esseri umani si trovano nella posizione di vittime e traggono conclusioni conseguentemente diverse sugli ordini politici giustificati dalla nostra vulnerabilità alla vittimizzazione; ma tutte e tre usano l'immaginazione di questa vulnerabilità come giustificazione per le loro prescrizioni.

 

Naturalmente, nel contesto di questi miti non usiamo tipicamente il linguaggio del vittimismo. Parliamo di dottrine dei diritti e delle politiche che ne derivano. Questo, però, è un errore. Non è vero che, avendo dei diritti da tutelare, siamo potenziali vittime della loro violazione. Piuttosto, i miti pongono gli esseri umani nella posizione di vittime e utilizzano la retorica dei diritti per catturare questo senso di violazione in modo da indicare contemporaneamente ciò che dovremmo sperare dallo Stato moderno. Se vogliamo dare un senso alla politica del vittimismo che sembra così dilagante ai nostri giorni e capire che cosa significhi per il destino del liberalismo, dobbiamo riconoscere i modi in cui il liberalismo si fonda fin dalle sue origini mitiche sul vittimismo.

 

Il miglior punto di partenza è il più ovvio. Il primo mito moderno dello stato di natura si trova nel capitolo XIII del libro che per primo ha dato alla retorica dei diritti il suo ruolo unicamente moderno di linguaggio privilegiato dell'ordine politico: Il Leviatano di Hobbes. Per cominciare, concentriamoci su due caratteristiche principali di questo racconto. Nello stato di natura, cioè in assenza di un potere superiore comune che faccia rispettare le leggi, il problema fondamentale è che gli uomini sono "inclini a invadersi e a distruggersi l'un l'altro"; ed è a causa della continua paura di questa invasione, così come delle sue continue depredazioni dei frutti del lavoro degli uomini, che gli uomini accettano di autorizzare la concentrazione del potere violento nelle mani di un sovrano "per la loro pace e la loro difesa comune".


La descrizione dello scenario suscita la nostra simpatia per i deboli, cioè per i non invasori. Questa simpatia si estende anche ad alcuni dei forti, cioè a coloro che, per paura della loro sicurezza, "con l'invasione accrescono il loro potere" a sufficienza per resistere ad altri forti invasori. L'invasione e il dominio sono quindi giustificabili da parte delle potenziali vittime. La stessa simpatia non si estende, tuttavia, a coloro che "traggono piacere dalla contemplazione della propria potenza negli atti di conquista", né a coloro che usano la violenza perché vogliono costringere gli altri a riconoscere la loro superiorità - in altre parole, i forti che si gloriano della loro forza. Poiché il fondamento logico dell'istituzione del potere sovrano è quello di fornire sicurezza attraverso una forza difensiva schiacciante, ne consegue che le parti del patto sono quelle stanche di dover temere di essere vittimizzate. Coloro che amano essere forti per la loro grandezza devono essere esclusi o continuare a essere potenziali carnefici, a meno che non si riesca a convincerli a riconoscersi anche come potenziali vittime che traggono vantaggio dal cedere la loro forza al potere comune.

 

Tutto questo può sembrare semplicemente giusto e corretto: naturalmente dovremmo simpatizzare con le vittime innocenti dei predatori violenti. In realtà, questo "naturalmente" è una reazione assolutamente moderna, data in parte da questi miti vittimologici. Lo vediamo se confrontiamo l'immagine che troviamo in Hobbes con due resoconti classici di uno stato di natura bellicoso e della sua risoluzione contrattuale, ovvero i resoconti di Platone e Lucrezio, che Hobbes chiaramente conosceva. Entrambi rappresentano la visione "convenzionalista", che sostiene che gli standard di giustizia si basano interamente su convenzioni concordate senza alcuna base naturale (e che di solito sono sostenute nella pratica da una garanzia divina che è puramente fittizia).

 

Consideriamo innanzitutto l'argomento che Platone (nella Repubblica, libro 2) mette in bocca al fratello maggiore Glaucone, un giovane aristocratico che vive nell'Atene democratica. Proponendosi di articolare il punto di vista degli altri, Glaucone tratteggia un'ipotetica condizione precedente a qualsiasi norma concordata di tolleranza reciproca. In questo stato pre-giuridico, "quando si fanno ingiustizie a vicenda e le subiscono e ne provano gusto, sembra vantaggioso, per coloro che non sono in grado di sfuggire alle seconde e scelgono le prime, stabilire un patto tra di loro per non fare ingiustizie né subirle". E da lì cominciarono a stabilire leggi e patti propri e a chiamare lecito e giusto ciò che la legge comanda. ... L'uomo che è in grado di farlo e che è veramente un uomo non farebbe mai un patto con nessuno per non fare e non subire l'ingiustizia. Sarebbe pazzo". Questo è esattamente lo stesso scenario che troviamo in Hobbes, ma con la valenza invertita. Glaucone esplicita che i molti deboli sono spinti a unirsi dalla minaccia dei pochi forti; e sebbene le opinioni espresse possano non essere le sue, le sue simpatie sono chiaramente per questi ultimi, gli 'aristoi' naturali che a malincuore trovano necessario sottomettersi alla volontà democratica.


Nella ricostruzione poetica del corso della preistoria umana scritta dall'epicureo romano Lucrezio (nel libro 5 del De Rerum Natura), la civiltà inizia quando la selezione naturale innalza gli uomini superiori al rango di re, che poi elevano le menti degli altri. La scoperta di ricchezze e metalli preziosi, tuttavia, produce invidia e rivalità, che portano alla rabbia e alla vendetta eccessiva. Ancora una volta le menti superiori prendono il comando, questa volta insegnando agli uomini a fare leggi e a nominare magistrati. Le parti che acconsentono all'accordo sono gli uomini in lizza per la supremazia, stanchi delle vendette infinite e selvagge che le loro stesse azioni provocano. L'unica disuguaglianza in atto è quella tra la fredda lungimiranza e l'appassionata miopia. Se anche i violenti sono vittime, è soprattutto per la loro stessa follia.

 

Cosa spiega il passaggio, nella versione hobbesiana di questo racconto, dalla prospettiva del più forte a quella delle vittime? I lettori di Nietzsche o di René Girard avranno una risposta pronta: Il cristianesimo. Per Nietzsche, la storia ha superato gli incubi più sfrenati di Glaucone: attraverso la vittoria della loro religione schiavista, i deboli hanno domato a tal punto i forti da sottomettere anche l'indipendenza scontenta delle loro menti, cosicché persino per se stessi la maggior parte di loro può giustificare la propria elevata statura solo come una forma di "guida servile" a beneficio del gregge comune. Per Girard, i racconti della Passione cristiana hanno reso esplicito ciò che è sempre stato necessariamente nascosto dal mito: quando la violenza va fuori controllo, per rivalità e vendetta, la comunità viene ristabilita non dalla sobrietà dei legislatori, ma dalla concentrazione della rabbia di tutti su un capro espiatorio innocente, il cui omicidio immeritato deve essere reso irriconoscibile come tale dall'aura luminosa della sacralità, perpetuata attraverso rituali di gratitudine verso il liberatore. Sia come avatar del moralismo dei perdenti risentiti, sia come vittima ineluttabilmente innocente che dissolve le illusioni della violenza del capro espiatorio, Gesù è il grande cambiatore di gioco. Grazie a lui la narrazione è sfuggita alla presa dei superbi e dei violenti.

 

In qualunque delle due interpretazioni si collochi, la risposta è sicuramente corretta nelle sue linee generali. Ma se da un lato ci dice qualcosa sulle ampie circostanze storiche in cui Hobbes concepisce la sua vittimologia, dall'altro getta ben poca luce sulle ragioni che lo spingono a farlo, o sul motivo per cui il suo ricorso al linguaggio dei diritti fa sì che questo linguaggio si avvii a diventare la retorica dominante della vittimologia nell'ordine liberale. Per rispondere a questa domanda, dobbiamo far uscire dall'ombra il vero padre della moderna vittimologia politica: Machiavelli. È lui il pensatore che, facendo del vittimismo una fonte di legittimità politica, scopre il segreto alchemico che alla fine trasmette l'immaginazione pasquale cristiana nel moralismo democratico e nel progressismo politico tanto disprezzati da Nietzsche. Ciò comporta una "secolarizzazione" del nostro rapporto psicologico e immaginativo con la violenza e il vittimismo, spostandolo in un registro diverso da quello che lo tiene continuamente sotto la luce del Vangelo. Questa secolarizzazione, costitutiva del liberalismo e forse della stessa modernità, non è una semplice deriva distratta da un mondo incentrato su Dio a uno disincantato; piuttosto, come Girard ci aiuta a vedere, è una rivoluzione all'interno della religione (o, forse meglio, della civiltà cristiana), che produce un nuovo regime del sacro.


Il debito diretto che lo stato di natura hobbesiano ha nei confronti di Machiavelli è lucidamente tratteggiato da Pierre Manent nella sua Storia intellettuale del liberalismo. Manent rivolge la nostra attenzione in particolare al nono capitolo de Il Principe, dove Machiavelli considera su cosa debba fondarsi il governo sicuro del principe. In ogni città vediamo due fazioni, i grandi e il popolo, i cui diversi "umori" danno loro due appetiti opposti: i grandi vogliono comandare e opprimere, mentre il popolo non vuole essere né comandato né oppresso. Se il principe si fonda sui grandi, avrà sempre problemi a causa delle loro ambizioni e, dovendo assecondare il loro appetito di oppressione, apparirà ingiusto agli occhi del popolo. Dovrebbe invece diventare il protettore del popolo dall'oppressione, il che gli permette di mantenere una reputazione di giustizia anche quando elimina potenziali rivali ambiziosi. In altre parole, l'autorità stabile del principe populista poggia saldamente sulla paura del popolo di essere vittimizzato e sulla fiducia che egli lo difenderà da essa, in parte umiliando i superbi.

 

Ciò che Machiavelli raccomanda come strategia del potere principesco, Hobbes lo rifonde come mito di legittimità per lo Stato moderno. Ciò è reso possibile da due cambiamenti retorici fondamentali. Il primo è l'astrazione degli "umori" dal contesto civico al terreno senza caratteristiche del mito. I deboli diventano, nelle parole di Manent, "il popolo stesso, non come parte del corpo politico distinto dall'élite, ma come tutti coloro che desiderano vivere liberi dalla paura". Questo desiderio di essere protetti dalla vittimizzazione diventa la fonte legittimante del potere e dell'autorità dello Stato. I predatori amanti della gloria, che sono il problema risolto dallo Stato, sono una caricatura astratta dei "grandi" dell'ordine feudale in declino, la nobiltà il cui significato politico i monarchi centralizzatori avevano ridotto con successo per secoli nel processo di "democratizzazione", che ha contribuito a formare lo Stato nazionale moderno.

 

Il secondo cambiamento retorico è lo spostamento della prospettiva immaginativa dal sovrano alla vittima. Gli effetti storico-mondiali di questo cambiamento sono davvero sconcertanti. Mentre Machiavelli può aver imparato dal quasi millennio di autorità stabile della Chiesa la potenziale resilienza di un edificio costruito sulla rassicurazione dei deboli e degli umili, Hobbes ha attinto con successo alla forza morale della simpatia per gli indifesi, una simpatia costruita culturalmente per secoli attraverso l'immaginazione dell'identificazione e del dolore con il Cristo sofferente. Entrambi i pensatori ottengono lo stesso effetto: strappare dalle mani della Chiesa la fonte della sua forza e trasformarla in una risorsa di un potere politico indipendente dalla Chiesa. Il "terreno basso ma solido" su cui i moderni hanno costruito (una formula straussiana ripresa sia da Manent che da Patrick Deneen) non è solo la paura della morte e il desiderio di godere di una pace sicura, ma anche la capacità cristiana di vedere e sentire con l'umile vittima. Ma è la potenza retorica della mitologizzazione di Hobbes che rimodella efficacemente l'immaginario moderno della condizione umana.


Queste due mosse retoriche - trattare l'umore del vituperato come la condizione umana di default e considerare da questo punto di vista il desiderio di protezione del sovrano - spiegano il passaggio al linguaggio dei diritti. Machiavelli, parlando al e del principe, continua a usare il linguaggio della virtù, che tutti gli scrittori politici precedenti avevano trattato come la giustificazione naturale per governare. Tuttavia, invece di intendere la virtù come una realizzazione perfetta della natura razionale dell'essere umano come agente di scelta, Machiavelli la porta gradualmente a significare tutte le caratteristiche di cui un principe ha bisogno per esercitare e mantenere efficacemente il potere. Si potrebbe dire che vede la virtù da un punto di vista né teorico né pratico, ma tecnologico, e che fa lo stesso con il vittimismo, trattando il popolo come ciò che Heidegger chiamerebbe una "riserva permanente", una componente della configurazione di forze controllate dal principe che gli danno il potere di rimodellare le realtà politiche. Ma la virtù è ancora il linguaggio dei grandi. Quando Hobbes sposta l'angolo di visuale su quello delle vittime che cercano protezione, sostituisce la virtù come concetto politico organizzativo con i diritti, che sono ciò che lo Stato protegge.

 

Tuttavia, c'è qualcosa di strano per le nostre orecchie tardo-moderne nel modo in cui Hobbes usa questo linguaggio. Per lui un diritto non significa una pretesa o un diritto, o qualcosa che chiunque sia obbligato a rispettare se non con la forza. Hobbes usa costantemente il termine in un modo che saremmo portati a definire privo di contenuto morale. Nonostante l'accenno al linguaggio medievale dello ius naturale, egli separa il linguaggio dei diritti dal contesto della legge naturale, della coscienza, della virtù e del bene della comunità in cui era stato inserito nei quattro secoli precedenti di giurisprudenza. Per lui, "avere un diritto" significa semplicemente non incontrare alcun impedimento nel fare ciò che si desidera. Il "diritto naturale" è la libertà illimitata (come quella che si ha potenzialmente nello stato di natura) di fare tutto ciò che si ritiene necessario. In senso assoluto, quindi, lo Stato sembrerebbe autorizzato non a difendere i diritti naturali, ma a limitarli. Dal mio punto di vista di vittima, tuttavia, lo Stato mi garantisce una sfera di diritti che, in condizioni di assenza di legge, i forti restringerebbero ancora di più. Concettualmente, quindi, i diritti sotto il potere sovrano descrivono solo la logica legalistica di un'applicazione codificata e prevedibile della coercizione protettiva. I diritti sono "moralizzati" solo nella misura in cui definiscono la sfera delle protezioni fornite alla vittima dallo Stato, che tratta tutti allo stesso modo come potenziali vittime fino a quando non viene dimostrato che sono autori di reati. Qualsiasi forza morale abbiano i diritti derivano dal vittimismo.

 

Questa forza morale, composta principalmente da paura e compassione, rimane fondamentalmente passiva. La tradizione della filosofia politica, al contrario, ha sempre riconosciuto che le passioni centrali per la vita politica sono quelle assertive associate alla parte animata dell'anima, il thumos di Platone, che i medievali di lingua latina chiamavano irascibile. Orgoglio, amore per l'onore, coraggio, padronanza di sé, rabbia, ambizione, lealtà: erano la linfa vitale della nobiltà feudale che lo Stato moderno hobbesiano sradica, o dei cittadini repubblicani greci e romani raffigurati nella letteratura classica che Hobbes considerava fonte di disordine e ribellione. Nell'immaginario mitico hobbesiano, l'addomesticamento del "grande" e la cancellazione dell'orgoglio dal paesaggio morale lasciano un vuoto psicologico. È il genio di Locke a trovare un posto per queste passioni nell'ordine borghese moderno. Lo fa proprio trasformando il linguaggio dei diritti, introducendo così una diversa forma di vittimologia.


II

 

Locke attraversa l'immensa distanza dall'uso hobbesiano del linguaggio dei diritti al suo nello spazio di una sola frase, la prima del suo "Secondo trattato sul governo" che parla di diritti individuali universali. Nello stato di natura, ci dice, affinché "tutti gli uomini siano trattenuti dall'invadere i diritti altrui e dal farsi del male l'un l'altro, e sia osservata la legge di natura, che vuole la pace e la conservazione di tutti gli uomini, l'esecuzione della legge di natura è in quello stato messa nelle mani di ogni uomo, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge in misura tale da impedirne la violazione". Anche in questo caso, come in Hobbes, partiamo dalla presenza discutibile nel nostro paesaggio mitico di coloro che invadono i "diritti" degli altri; ma quando viene passata attraverso il filtro della "legge di natura" di Locke, il "diritto" violato della singola vittima emerge dall'altra parte come un principio di azione moralmente giustificato a cui tutti hanno una pretesa naturale. Qual è questa legge di natura e come ha funzionato questa meravigliosa idea?

 

Sebbene Locke adorni la sua discussione con gli echi di un discorso tradizionale sulla legge naturale, la sua dottrina della "legge di natura" ha un fondamento logico che non richiede alcuno di questi supporti. Leo Strauss ha giustamente individuato che, come Hobbes e a differenza del diritto naturale tradizionale, Locke non ha bisogno di alcun principio pratico diverso dall'autoconservazione per fondare la sua legge di natura; e Strauss descrive con grande efficacia il meccanismo che genera le conclusioni pratiche di Locke come una sorta di "tacito accordo". Per capire come funziona, è utile separare le due caratteristiche principali della legge di natura condensate nella frase appena citata, come fa lo stesso Locke. Si tratta del principio di non nuocere e del principio di ritorsione giustificata. Primo: "La ragione, che è quella legge, insegna a tutti gli uomini, che si accontentano di consultarla, che essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare un altro nella sua vita, salute, libertà o beni". Secondo: "La legge di natura, come tutte le altre leggi che riguardano gli uomini in questo mondo, sarebbe vana, se non ci fosse un corpo che, nello stato di natura, avesse il potere di eseguire quella legge, e quindi di preservare gli innocenti e di reprimere i trasgressori; e se qualcuno nello stato di natura può punire un altro per qualsiasi male che ha fatto, tutti possono farlo". Consideriamo la logica operativa di questi due principi.

 

Sono vittima di un furto con minaccia di violenza e me ne risento. Ragiono (assumendo tacitamente una natura umana condivisa) sul fatto che gli altri sono come me e che avrebbero lo stesso sentimento se fossero vittime dello stesso tipo. Concludo che vedranno il senso della mia ritorsione e la comprenderanno, dal momento che l'aggressore si è dimostrato una potenziale minaccia per qualsiasi proprietario di beni. Così la ragione, quando la consulto, mi insegna che la volontà di sicurezza della vita e della proprietà ("pace e conservazione") pervade tutta l'umanità. Mi dà anche la certezza che il mio atto punitivo sarà approvato: avrà l'aspetto di un "diritto" a preservare le vittime innocenti (che riflette l'interesse personale degli altri) e a distruggere gli aggressori (che riflette anche la rabbia solidale dei miei compagni, potenziali vittime). Se inverto semplicemente la prospettiva e mi immagino nella posizione del colpevole, soggetto a punizione da parte di tutti, l'interesse personale mi porterà a dedurre il principio di non nuocere. Questo è il succo della legge di natura.


Questa legge di natura, tuttavia, è troppo debole per regolare efficacemente le comunità umane. Come nella seconda parte della narrazione di Lucrezio, lo stato di natura di Locke, con il diritto di punizione nelle mani di tutti, è suscettibile di andare fuori controllo a causa della rabbia e della vendetta eccessiva, richiedendo l'istituzione della legge e la sua applicazione. Locke, tuttavia, non attribuisce un ruolo esplicito alle menti superiori nel trovare questa soluzione. Egli si affida ancora più tacitamente al tacito accordo, vale a dire che, come Hobbes, si affida alla coincidenza delle volontà auto-interessate di coloro che desiderano liberarsi dalla vittimizzazione per dare vita e, soprattutto, legittimità allo Stato. Per entrambi gli autori è la coscienza vittimaria condivisa di questi individui liberi e uguali che permette loro di costituirsi come "popolo" e di compiere il loro atto mitico di fondazione, ed è la retorica dei diritti che rende il mito vittimario politicamente e psicologicamente operativo.

 

D'altra parte, il richiamo retorico del racconto di Locke (anche se sommerso quasi fino all'invisibilità) è proprio alla parte animata dell'anima assente dal senso hobbesiano dei diritti. La violazione personale mi fa arrabbiare, offende il mio orgoglio. Mi spinge a vendicarmi, a uccidere. Anche in presenza di leggi civili, se un privato mi minaccia con la forza e mette implicitamente a rischio la mia vita, chi può immaginarsi vittima come me riterrà giustificata la mia uccisione per autodifesa, sia per simpatia che per interesse personale. L'argomento di Locke per il diritto naturale alla proprietà si basa sullo stesso richiamo retorico. Hume ha giustamente osservato che, secondo l'epistemologia di Locke, l'idea che il mio lavoro "aggiunga" qualcosa di me al prodotto e lo renda mio è un'assurdità metafisica. Ma secondo la logica dello spirito, se l'ho raccolto, coltivato, prodotto o costruito, me lo sono guadagnato e mi indignerò se mi verrà tolto, come farebbe chiunque altro.

 

Questa infusione di diritti con uno spirito di resistenza alla vittimizzazione dà loro l'ormai familiare zelo morale che mancava a Hobbes. Rende i diritti qualcosa da rivendicare e far valere, anche contro le autorità di governo. In questo senso, il linguaggio di Locke risuona con l'invocazione dei diritti nella Magna Carta e nella Petizione di diritto del 1628. Questi diritti precedenti, tuttavia, erano intesi come libertà, privilegi e protezioni promessi dai monarchi precedenti ed ereditati dagli inglesi in base ai loro diversi gradi di status. Sebbene comprendessero tutti gli uomini liberi, la loro affermazione era necessariamente guidata e espressa dai "grandi". La logica e la retorica della coscienza vittimistica di Locke democratizzano l'affermazione dei diritti.

 

La tonalità e la complessità della retorica lockeana dei diritti è perfettamente espressa dalla bandiera "Non calpestarmi". In quanto potenziale vittima in stato di allerta contro le violazioni, l'individuo portatore di diritti è del tutto irascibile. A questo sottofondo di difensivismo reattivo viene dato un volto virile da una postura proiettata di prontezza alla violenza di ritorsione. A questa minaccia di violenza difensiva viene conferita una certa aria di nobile grandezza, in quanto si schiera contro un governo prevaricatore. Senza abbandonare la legittimazione vittimologica dello Stato, Locke fornisce alle vittime un'autoaffermazione salva-faccia che ricorda lo spirito classico della libertà repubblicana, pur differenziandosi da essa per essere più un atteggiamento che una pratica costante - a meno che, come sosteneva Tocqueville, non venga concretizzata nella scuola dell'autogoverno locale. Senza l'abitudine alla libertà attiva, la sua diffidenza nei confronti dell'invasione è avulsa dall'esperienza pratica e dal giudizio concreto, rendendo i suoi sospetti suscettibili di teorie cospirative e la sua pungente difensività incline all'istrionismo.


La vittimologia lockeana fornisce quindi un principio di legittimità alquanto volatile, poiché l'individuo guarda allo Stato per evitare la vittimizzazione, ma è altrettanto sospettoso dello Stato come potere in grado di vittimizzare. In seguito, i libertari hanno cercato di attenuare la volatilità potenzialmente violenta del pungolo lockeano in due modi. In primo luogo, hanno cercato di fornire criteri chiari per la portata della vita, della libertà e della proprietà che dovrebbero essere protette. Ciò rimane difficile, tuttavia, non solo a causa dei confini intrinsecamente instabili della libertà negativa, ma anche perché, secondo Locke, la proprietà dell'individuo include la "proprietà della sua persona", un'autoproprietà che apre la porta all'individualismo espressivo come qualcosa che lo Stato o altri possono invadere. Ne è testimone James Madison: "la lode di offrire una giusta sicurezza alla proprietà dovrebbe essere elargita con parsimonia a un governo che, per quanto protegga scrupolosamente i beni degli individui, non li protegge nel godimento e nella comunicazione delle loro opinioni, in cui hanno una proprietà uguale e, secondo alcuni, più preziosa". Come la giurisprudenza del Primo Emendamento ha inevitabilmente riconosciuto, esistono una miriade di modi per comunicare le proprie opinioni.

 

Il secondo modo in cui il libertarismo ha cercato di addomesticare lo spirito lockeano è abbandonando il principio di legittimità, sostenendo l'ordine liberale sulla base di una pura logica di utilità. Questa argomentazione si basa in gran parte sulla grande scommessa del liberalismo economico, la promessa di una "marea montante" di prosperità di cui tutti beneficiano - un'argomentazione già presente nell'osservazione di Locke secondo cui il lavoratore a giornata inglese gode di maggiori comodità di vita rispetto al capo di una tribù americana. Questa tattica non solo evita l'instabilità filosofica e il potenziale rivoluzionario insito nel concetto di legittimità politica, ma allo stesso tempo permette ai liberali classici di smorzare (ancor più di quanto non faccia già Locke) le basi vittimologiche implicite della sua politica dei diritti. Questo è il motivo per cui gli amanti delle armi della classe operaia eccitati da Donald Trump, che sono esuberanti vittimisti lockeani, hanno poco rispetto e meno pazienza per la leadership repubblicana più libertaria della vecchia guardia.

 

Mentre i libertari della classe dirigente sono un po' diffidenti nei confronti delle manifestazioni direttamente politiche dello spirito lockeano, ne abbracciano ovviamente l'espressione economica nell'esercizio del lavoro che produce valore. Coloro che trasformano le materie prime relativamente prive di valore fornite dalla natura in prodotti abbondanti possono essere orgogliosi di essere i principali agenti della prosperità e del progresso materiale. Infatti, secondo Locke, Dio ha dato il mondo "all'uso dell'industrioso e del razionale (e il lavoro doveva essere il suo titolo), non al capriccio o alla cupidigia dei litigiosi e dei contendenti". Di conseguenza, il libertario vuole proteggere le persone economicamente produttive dalla tendenza dei governi moderni a espropriarle per conto dei non meritevoli, il che porta alla curiosa nozione di tassazione come vittimizzazione. Nel mito lockeano, la vittima debole e l'invasore forte si sono trasformati in colui che crea e colui che prende.

 

Il liberalismo lockeano unisce quindi due vittimologie correlate ma distinguibili, che incanalano entrambe la parte animata dell'anima, una principalmente verso la libertà economica e l'altra più verso la libertà politica. Il lockeanismo libertario della classe dirigente produce una meritocrazia di cervelli e ambizioni economiche: imprenditori e capitalisti razionali resistenti alla regolamentazione governativa. Il lockeanismo della classe operaia ha una concezione più corporea del lavoro produttivo e della libertà di movimento, accompagnata dall'orgoglio patriottico della capacità di autodifesa violenta. Entrambi sono contrari alle tasse su ciò che hanno guadagnato, l'uno guidando la crescita economica e l'altro con la fatica. I due possono armonizzarsi nella loro resistenza all'invadenza restrittiva del governo e alla ridistribuzione della ricchezza, ma solo finché la scommessa liberale continua a dare i suoi frutti e la marea montante della nazione sembra sollevare le barche di tutti i suoi cittadini. Negli Stati Uniti, dalla fine della Guerra Fredda, la globalizzazione e il profitto hanno ampliato il divario tra i due, allontanando di fatto la classe operaia lockeana non solo dall'élite di governo, ma anche, in misura considerevole, dalle istituzioni di governo dello Stato liberale. La possibilità di rivolgere questa irascibile paura del vittimismo contro lo Stato liberale e la sua élite oligarchica è stata ben compresa da Rousseau, che l'ha radicalizzata nel suo mito dello stato di natura.


III

 

Il mito dello stato di natura di Rousseau, molto più di quelli di Hobbes e Locke, assume la forma di una narrazione storica. Questa storia della natura umana inizia con un'integrità (wholoness) e una semplicità originarie, la cui perdita genera tutta l'infelicità umana. Rousseau annuncia anche (nel Contratto sociale) la possibilità di riscattare questa storia e di raggiungere una forma superiore di integrità. In altre parole, Rousseau si appropria dell'intero modello della storia della salvezza cristiana, racchiudendolo in una cornice immanente. La vittimologia che sviluppa all'interno di questa cornice ha una somiglianza fortemente ingannevole con quella cristiana e il suo effetto principale è quello di delegittimare il liberalismo lockeano.

 

Nel Secondo discorso Rousseau si lamenta del fatto che Hobbes e Locke abbiano proiettato le passioni degli uomini civilizzati (come l'orgoglio, l'aggressività, l'acquisitività e l'invidia) sulla psiche pre-civilizzata. La coscienza umana nello stato di natura di Rousseau si limita principalmente a semplici sentimenti: l'urgenza dei bisogni primari, il sentimento di benessere quando questi sono soddisfatti e la compassione spontanea per la sofferenza immediatamente percepibile di un altro. L'uomo naturale è innocente di ogni malizia e persino del pensiero, o in altre parole è naturalmente buono e contento. Tuttavia, diventando gradualmente consapevole della sua superiorità inventiva rispetto al resto della natura, l'uomo naturale raggiunge alla fine la coscienza di sé e sviluppa così quello che Rousseau chiama amour-propre: una capacità di auto-considerazione che diventa desiderio di stima di sé e degli altri. Rendendoci socievoli, e quindi anche dipendenti dagli altri per l'opinione che abbiamo di noi stessi, l'amour-propre è la fonte delle nostre passioni animate. L'amour-propre insoddisfatto distrugge la nostra integrità originaria e diventa una causa fertile di malcontento.

 

Sebbene la Storia infligga questa sofferenza all'umanità, fornisce anche una soluzione. Nel villaggio tribale, l'amour-propre è relativamente stabile e senza problemi: ci si guadagna la stima di un eccellente cacciatore o narratore, e i conflitti di stima si risolvono facilmente su basi inequivocabili. Rousseau giudica quindi questa fase dello sviluppo sociale "l'epoca più felice e più duratura", sottintendendo che è proprio la soddisfazione dell'amour-propre, se raggiungibile, a fornire qualcosa di più della semplice soddisfazione di cuore: la felicità per ciò che si è in relazione agli altri. Ma la Storia, ahimè, non ha finito con noi. La scoperta dell'agricoltura e della lavorazione dei metalli, e quindi anche la specializzazione del lavoro e del commercio, introducono la civiltà, insieme alla disuguaglianza di ricchezza e di status. Sia l'integrità originaria che la felicità tribale vengono così distrutte dal "progresso" fuorviante di una società che ci fa precipitare accidentalmente in una vita di conflitti con i nostri vicini e in un'accresciuta divisione e insoddisfazione all'interno di noi stessi, o in quella che è arrivata a essere chiamata alienazione. Come Freud amplifica, siamo tutti vittime scontente della civiltà stessa. Lungi dal legittimare l'ordine giuridico che pone fine allo stato di natura, questa vittimizzazione universale sembra gettare i semi di un risentimento permanente (anche se per lo più inconscio) nei confronti delle esigenze della "società" e della nostra condizione civile.


Per ottenere la legittimità di una politica, essa deve trasformare l'uomo civile e diviso nel cittadino repubblicano completamente devoto. Questo regime soddisfa l'amour-propre eliminando ogni dipendenza personale: tutti i cittadini partecipano alla "volontà generale" aderendo alla regola impersonale della legge; tutti godono della libertà di un autogoverno attivo, ognuno obbedisce solo alle leggi che si è dato volontariamente; e tutti sono uguali, ognuno ottiene gli stessi diritti sugli altri che concede su se stesso. Il cittadino ottiene così l'interezza diventando un tutt'uno con le leggi: la volontà del cittadino, in quanto cittadino, è la volontà generale impersonale. Questo comporta una drastica trasformazione. Il vero legislatore, dice Rousseau, deve essere capace di cambiare la natura umana. Nella zelante devozione del cittadino al regime, ogni compassione naturale viene soffocata. Questo è esemplificato dal cittadino spartano, sia uomo che donna, completamente dedito alla virtù, soprattutto marziale, necessaria per sostenere l'autogoverno repubblicano. Secondo Rousseau, la libertà è la facoltà umana "più nobile" e solo i cittadini delle repubbliche raggiungono "la virtù e la felicità". Questo è il compimento civile dell'amour-propre, paragonabile a quello che si trova nella vita tribale, e la sua riarmonizzazione della psiche dà all'ordine legale la sua legittimità, eliminando ogni senso di vittimizzazione sociale o civile.

 

L'immanentizzazione di Rousseau della narrazione della storia della salvezza comporta un'inversione delle polarità di colpa e responsabilità. Nella narrazione cristiana, per quanto possiamo essere inclini a scaricare su altri la colpa della nostra condizione di deficienza e infelicità, il peccato originale è nostro e continua a turbare la nostra vita in comunità, e la risoluzione escatologica non dipende in ultima analisi da noi, ma dall'azione salvifica di Cristo. Per Rousseau, la caduta dall'integrità ci viene addosso per i ciechi incidenti della storia; ma poiché la nostra natura è malleabile (o "perfettibile") e nessun peccato originale ci impedisce di migliorarla, nulla ci impedisce di raggiungere la nostra immaginabile integrità se non il peso morto degli ordini sociali passati e l'insufficiente impegno nel regime redentivo non ancora raggiunto. Quella di Rousseau è quindi una vittimologia rivoluzionaria. Per generare un impegno nell'ardua lotta per redimere la storia, tuttavia, non è sufficiente combinare il disagio per le distorsioni della civiltà con la promessa di integrità (wholoness) nel nuovo regime democratico. È necessaria un'altra forma di vittimismo, e il mito di Rousseau fornisce anche questa.

 

Secondo Rousseau, la società civile nasce quando la disuguaglianza delle ricchezze produce gli "haves" e gli "have-nots", ognuno dei quali rivendica diritti nei confronti degli altri. I ricchi rivendicano la pretesa lockeana di meritare ciò che hanno costruito. I poveri, dopo aver tentato invano di suscitare la compassione dei loro vicini acquisiti appellandosi pietosamente al diritto di autoconservazione, devono ricorrere alla sottrazione dei beni accumulati, ma non senza appellarsi al diritto del più forte. In altre parole, le rivendicazioni dei diritti emergono quando le disparità di ricchezza distruggono l'amicizia della nostra condizione più primitiva, e non sono altro che razionalizzazioni emotive e strumenti ideologici delle parti in conflitto nella lotta economica.


Infine, i razionali e i laboriosi, dal momento che i loro possedimenti sono vulnerabili, hanno la lungimiranza di architettare la grande truffa storica: propongono di porre fine allo stato di guerra concordando articoli di pace e di unione, al fine (secondo le parole del ricco) di "proteggere i deboli dall'oppressione, frenare gli ambiziosi e assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene". Questi sono i termini pretestuosi dell'alleanza hobbesiana, il cui scopo è proteggere l'accumulo lockeano dei ricchi. Il mito di Rousseau fornisce quindi una contro-narrazione al mito del liberalismo lockeano, smascherandolo come ciò che il suo discepolo Marx avrebbe chiamato mistificazione ideologica. Ciò che questi miti precedenti presentano come la figura della "vittima" del furto e della violenza (una vittima innocente nel mito hobbesiano, una vittima meritocratica in quello lockeano), Rousseau lo espone come la maschera sotto la quale si nasconde il ricco che cerca di assicurarsi la ricchezza cooptando i poveri; e il loro spauracchio del predatore violento e dell'approfittatore si mostra come un ritratto calunnioso del povero spinto alla disperazione. La rivendicazione hobbesiana-lockeiana del vittimismo che "legittima" il contratto originario è una truffa perpetrata dai ricchi, e Rousseau vuole che ci indigniamo a nome dei poveri truffati e vilipesi, che sono le vittime più vere dell'instaurazione dell'ordine politico e giuridico.

 

Forse la caratteristica più degna di nota della retorica vittimologica socio-economica di Rousseau è il suo carattere "terzo". Suscita la nostra indignazione contro i ricchi a favore dei poveri. Siamo così invitati a riattivare la naturale compassione che la vita civile ha soffocato in noi, guadagnando una sorta di autenticità terapeutica sentimentale. Il nostro amour-propre è così doppiamente gratificato, in quanto siamo certi che il nostro cuore è nel posto giusto (con la vittima innocente) e il nostro thumos è legato a una causa giusta, una causa il cui fine ultimo è riscattare la farsa fraudolenta che è stata la storia umana fino ad oggi. Soprattutto, essere "dalla parte giusta della Storia" (cioè protestare contro il passato perché ha reso vittime tutti noi, distorcendo la nostra bontà naturale, e gli oppressi ancora di più) richiede solo di sentire correttamente, e forse di esprimere il nostro sostegno alle vittime; l'azione è facoltativa. Kant, Hegel, Feuerbach e Marx insisteranno sul fatto che questo progresso della Storia ha la sua soluzione per i problemi che genera, dando così vita alla vera e propria mitologia del progressismo. Rousseau non si faceva illusioni di questo tipo.

 

Se la Storia provvidenziale non ci obbliga a consegnare l'ordine redentivo, con il risultato che rimangono tra noi entrambi i tipi di vittime (le vittime universali della civiltà e le vittime particolari di un ordine civile iniquo), allora la vittimologia di Rousseau serve soprattutto a delegittimare tutti i regimi attuali. Così attesta Il contratto sociale: "L'uomo è nato libero, ma ovunque è in catene". O forse è meglio dire che c'è solo un tipo di regime che questa vittimologia potrebbe servire a legittimare (o almeno a delegittimare tutte le alternative), cioè un regime rivoluzionario ufficialmente dedicato a eliminare il vittimismo specificato, ma che non raggiunge mai completamente il suo scopo.


Il regime rivoluzionario, infatti, non ha bisogno di raggiungere pienamente la progettata armonizzazione dell'uomo, né di eliminare la disuguaglianza e il vittimismo di terzi; la sua implacabile devozione ufficiale a entrambe le impossibilità sosterrà la sua legittimità. I suoi devoti agiranno o si agiteranno in nome della compassione mentre, come cittadini-soldato della causa, si indurranno a non provare realmente compassione. L'impegno dei rivoluzionari verso il futuro regime egualitario, l'unico veramente legittimo, conferisce loro una sorta di legittimità anticipata come attori politici e li autorizza a denunciare tutti coloro che non sono così impegnati come sostenitori di un regime illegittimo. Le vittime delle iniquità del regime non rivoluzionario svolgono il ruolo negativo di delegittimare tale regime, e la compassione di terzi degli "alleati" rivoluzionari rafforza contemporaneamente la loro legittimità virtuale e li isola dalla macchia del regime illegittimo, indipendentemente dal fatto che continuino a beneficiarne. Essi, consapevoli e impegnati, sono i redenti. Gli elementi centrali della vittimologia rivoluzionaria di Rousseau - l'energica posizione morale di protesta e resistenza, l'auto-esonero attraverso l'impegno e la compassione, e l'addossamento di tutte le colpe ai malvagi oppressori reazionari - servono a gratificare l'amour-propre in modo più potente di quanto non potrebbe mai fare un vero governo. I rivoluzionari sono i virtuosi redentori non solo di se stessi e degli oppressi, ma della natura umana in quanto tale e della Storia stessa.

 

Se richiamiamo alla mente l'immagine del Leviatano sul frontespizio dell'opera di Hobbes - un gigante coronato che brandisce gli strumenti dell'autorità militare e religiosa, il cui corpo è composto da individui più piccoli - possiamo immaginare la manovra di Rousseau come un'operazione che strappa questi individui dal corpo in cui sono assorbiti e li reintegra come vittime alla nostra attenzione. Il loro vittimismo, non più la forza vincolante che li unisce in un unico corpo, diventa un rimprovero alla forza repressiva di quel corpo. La compassione che accompagna la loro visibilità assomiglia alla carità cristiana per i deboli e gli oppressi coltivata dal ricordo della Passione, dando così vita al cristianesimo sentimentale del XIX secolo. Per molti (compresi i protestanti liberali e i cattolici progressisti che ne sono gli eredi), esso rimane l'essenza di ciò che si intende per cristianesimo oggi.

 

Se ricordiamo le due forme di vittimismo generate dal mito lockeano, quelle della classe dominante e della classe operaia meritevole, lo stato di natura ripensato da Rousseau serve a far esplodere il velo di Locke sulla tensione che si annida tra loro. Se guardiamo al liberalismo in termini classici, vediamo che esso cerca di unire oligarchia e democrazia in un'unità stabile che non appare come nessuna delle due. Questo sistema benefico di libertà naturale - con le sue sfumature provvidenziali del dono di Dio della terra sfruttabile dai razionali e dai laboriosi e della mano nascosta che sparge intorno a sé l'abbondanza della marea crescente di prosperità - promette ricompense a tutti se coopereranno nel proteggere il funzionamento naturale di questo sistema da un governo prepotente. Rousseau radicalizza la differenza tra i due sistemi, utilizzando l'anelito alla completezza e all'autocompiacimento per ritrarre una democrazia ridefinita come l'unico regime legittimo, e l'oligarchia liberal-economica come la farsa più mendace per ingannare e cooptare le sue vittime. L'obiettivo della resistenza non è il governo, ma il sistema.


Come abbiamo notato, tuttavia, il mito di Rousseau è portatore di una doppia vittimologia. La vittimizzazione dei sentimenti del nostro io naturale, sommersa dal processo di civilizzazione della Storia e ulteriormente eclissata dall'intensità del conflitto socio-economico, viene alla luce come potenzialmente rimediabile quando Rousseau guarda più da vicino all'infanzia. Come l'uomo naturale è originariamente buono e viene deformato dal cieco progresso della Storia, così il neonato è del tutto innocente ma successivamente deformato dalla sconsiderata socializzazione in un ordine corrotto di relazioni umane. L'Emile di Rousseau delinea una psicologia dello sviluppo che definisce l'agenda di un'educazione olistica che cerca di preservare la bontà naturale, l'indipendenza e la compassione. Allo stesso tempo, attribuendo tutte le distorsioni dell'integrità umana all'incapacità di fornire tale formazione correttiva, apre la porta a una cultura terapeutica che si occupi delle vittime della distorsione sociale e della genitorialità che non riesce a essere perfetta (cioè di tutte le genitorialità).

 

Questa antropologia dello sviluppo trasmette con forza il punto (che rimaneva tutt'al più ambiguo in Hobbes e Locke) che non c'è un peccato originale che ponga limiti alla soluzione dei mali sociali o alla coltivazione dell'integrità (wholoness) umana. Allo stesso tempo, le richieste di restaurazione sentimentale sono impossibili da soddisfare come quelle di legittimità politica. Le possibilità di rifare sia gli esseri umani sia le strutture sociali responsabili della loro deformazione sono quindi, in senso stretto, illimitate: la terapia deve essere infinita come la rivoluzione. Ma poiché per entrambi i tipi di rifacimento esiste almeno potenzialmente un'agenda, ciò che finisce per essere veramente illimitato nella pratica è la colpa che può essere assegnata a coloro che non "fanno abbastanza" - colpa sempre da assegnare a terzi che perversamente si accontentano del loro inadeguato livello di consapevolezza dei problemi o di impegno per le soluzioni. Il vittimismo terapeutico, tuttavia, si differenzia da quello socio-economico in quanto posso sempre rivendicare il vittimismo per me stesso. In effetti, le varie revisioni che Rousseau ha apportato nel corso degli anni alle sue Confessioni autobiografiche mostrano proprio quanto siano diametralmente opposte all'ammissione di Agostino di fronte a Dio di essersi sottratto all'assunzione di responsabilità per i propri peccati: Rousseau attribuisce sempre meno colpe al "pauvre Jean-Jacques" e si dipinge sempre più come una vittima degli altri. Il fatto che siamo tutti figli danneggiati porta l'agostiniano alla preghiera e il rousseauiano all'accusa.

 

In America, nella seconda metà del XX secolo, la vittimologia terapeutica è riuscita ad affermarsi in modo spettacolare come la vittimologia rivoluzionaria aveva generalmente fallito. Per gli organizzatori e gli ideologi marxisti è stata una fonte di frustrazione continua il fatto che la vittimologia rousseauiana non abbia un vero appeal sulla classe operaia. Questi sono spesso pronti a simpatizzare con coloro che lottano contro gli ostacoli che impediscono loro di guadagnarsi una vita decente con il proprio lavoro, ma non a ricompensarli per il loro status di vittime economiche, e sono generalmente soddisfatti se la contrattazione collettiva assicura un compenso migliore e attenua i risentimenti su cui gli zelanti rivoluzionari ripongono le loro speranze. È stato geniale da parte di Adorno e Marcuse trasferire tutte le uova vittimologiche dal paniere politico-rivoluzionario marxista a quello freudiano-psicoterapeutico, trovando così un pubblico ricettivo tra i giovani relativamente benestanti e privilegiati del dopoguerra.


In particolare Adorno, ne La personalità autoritaria, ha ricategorizzato l'opposizione politica all'ideologia progressista come una resistenza psicologica basata su patologie contratte nell'infanzia. Quando propagò le sue idee in America, dimostrò un infallibile istinto retorico rivedendo la sua descrizione dell'alternativa sana dalla "personalità rivoluzionaria" alla "personalità democratica". Secondo la psicologia politica di Platone, sono proprio i figli sicuri degli oligarchi a diventare irrequieti nei confronti delle regole di gratificazione acquisitiva ritardata e di contenimento delle passioni, diventando le anime democratiche che trattano tutti i desideri come ugualmente validi e li liberano dalla censura della legge morale e della vergogna. Questo movimento giovanile sentimental-rivoluzionario portò al grande superamento della tensione tra le due vittimologie rousseauiane, consentendo loro di coesistere all'interno dell'ordine liberale accanto alle due vittimologie lockeane in una società americana libera e prospera. In questo modo sono state messe in moto diverse generazioni di una sinistra americana occupata principalmente dalla liberazione morale e sentimentale personale, pur nutrendo simpatie per vaghe idee di rivoluzione e per l'entusiasmo generale per l'impegno dimostrato da altri.

 

La fine della Guerra Fredda e il conseguente declino dell'ottimismo economico hanno portato a un ampliamento del divario tra le due forme di vittimismo rousseauiano, proprio come è avvenuto per le due forme lockeane. Mentre lo spirito in ultima analisi antiliberale dell'impegno totale dei cittadini poteva essere ammirato nella sua forma comunista (grazie anche alle sue professioni ufficiali e vociferanti di compassione per le vittime terze), gli effettivi risultati pratici di tale impegno, quando politicamente vincenti, erano raramente attraenti per gli abitanti degli Stati liberali. In quella che Francis Fukuyama ha definito "la fine della storia", gli Stati reali che rappresentavano la realizzazione della rivoluzione comunista sono crollati, lasciando apparentemente il liberismo borghese globale come il futuro possibile della sinistra. Ma anche in questo caso la leadership elitaria dei neoliberali è stata ripudiata da una fazione alienata e animata, in questo caso da una nuova forma di impegno rivoluzionario: la politica dell'identità.


IV

 

La politica identitaria della sinistra consente ai suoi rappresentanti di provare un senso di legittimità rivoluzionaria ancora maggiore. Sebbene gli impegnati utilizzino ancora il vittimismo di terzi per delegittimare il sistema, possono anche identificarsi con la vittimizzazione del gruppo a cui appartengono e parlare come uno di loro. Questo rimane possibile anche quando (come di solito accade) gli impegnati sono coloro che soffrono meno gravemente della vittimizzazione e che guadagnano in modo sproporzionato dal successo dell'agitazione. C'è la sensazione di partecipare a una sorta di "volontà generale" del gruppo oppresso nella sua protesta continua contro il dominio, e quindi la soddisfazione dell'amour-propre fornita dall'impegno in un regime legittimo vagamente immaginato.

 

Poiché, tuttavia, questi regimi futuri non hanno bisogno di avere una forma chiara nemmeno nell'immaginazione, e quindi non hanno il potenziale pratico per generare nuove istituzioni politiche, fino a un certo punto possono svolgere il loro ruolo psicologico all'interno e sotto l'ombrello dello Stato amministrativo persistente, anche spingendolo al servizio della loro agenda. I loro aderenti hanno quindi sentito poco il bisogno di immaginare un vero e proprio regime politico alternativo, proprio come i patrioti lockeani della classe operaia hanno sentito meno il bisogno di venerare l'ordine costituzionale come alternativa a un sistema sovietico che è scomparso. Così, il trionfo globale dell'ordine liberale nel grande conflitto del XX secolo ha generato, nel XXI, due movimenti di dissenso animati e illiberali provenienti dalle fazioni lockeane e rousseauiane che avevano precedentemente elaborato i loro conflitti all'interno dei quadri nazionali dell'ordine liberale.

 

Per certi versi, nel corso del tempo queste due fazioni si sono assomigliate. Ognuna di esse vede il governo come un sostenitore della minaccia più incombente, sia essa la supremazia bianca o il marxismo culturale. Ciascuna riconosce la legittimità di una politica diversa da quella che condividiamo. I patrioti lockeani hanno a cuore una repubblica virile che esisteva nel passato pre-progressista, mentre i rivoluzionari rousseauiani professano fedeltà a una democrazia perfetta che esisterà nel futuro post-oppressivo. I gruppi di "destra" hanno abbracciato sempre più caratteristiche di identità di gruppo in risposta all'autoaffermazione dei gruppi identitari di "sinistra", tanto che è diventato possibile parlare di politica identitaria da entrambe le parti.


Entrambi sono anche inclini alla paranoia. Nel delirio indotto da questa paranoia, la paura di essere vittimizzati serve a coloro che si trovano ai due estremi come giustificazione per esimersi dall'autorità dello Stato e dalle formalità delle istituzioni e della civiltà liberali. I progressisti e i populisti più mainstream possono accontentarsi della guerra retorica della denuncia, ma questo non fa che contribuire ulteriormente all'erosione della legittimità, perché ogni fazione parla come se un governo che include l'altra fosse già un governo in crisi. E in effetti, anche se di solito vengono trattate come tendenze estremiste marginali, queste due fazioni e il loro conflitto con i partiti politici tradizionali potrebbero rappresentare il crollo potenzialmente incontrollabile della legittimità dello Stato liberale moderno.

 

Secondo la formulazione classica di Max Weber, la caratteristica distintiva dello Stato moderno è quella di detenere con successo il monopolio della coercizione fisica legittima o della violenza. La politica dell'identità rifiuta la legittimità di questo monopolio statale. I gruppi di sinistra negano principalmente la legittimità dello Stato, in quanto la sua violenza ha storicamente sostenuto l'oppressione degli emarginati. I gruppi di destra rifiutano in primo luogo la rivendicazione del monopolio della violenza da parte dello Stato: insistono sul fatto che il diritto di portare le armi è la garanzia essenziale della libertà, poiché solo le milizie di cittadini possono preservare la libertà repubblicana da invasioni di campo da parte dello Stato armato.


Charlottesville nel 2017 (1) è diventata una chiamata alle armi per entrambi gli estremi, e alla fine ha aumentato le loro somiglianze. Le "milizie di destra" hanno guadagnato notorietà e numeri, e i gruppi di sinistra hanno risposto con una crescente militanza, alcuni assumendo la posizione di resistenza armata. I Proud Boys e i Three Percenters hanno ora le loro controparti nella Socialist Rifle Association e nel Trigger Warning Queer & Trans Gun Club.

 

Qualunque cosa si possa pensare del fascino delle armi, non dobbiamo sorprenderci che una crisi di legittimità porti alla loro ascesa alla ribalta. Le armi sono gli strumenti di violenza che rendono possibile lo Stato moderno. Nelle piccole repubbliche del mondo antico, essere un cittadino significava essere un guerriero e combattere corpo a corpo, e questa difesa attiva della città faceva guadagnare un ruolo nell'autogoverno. Nel mondo feudale, i diversi ranghi avevano armi distinte, diverse funzioni e responsabilità militari e, di conseguenza, diversi obblighi sociali reciproci. Le armi rendono possibili grandi eserciti di leva composti da tutti i sudditi di una nazione.

 

Le armi possono essere acquistate da un'autorità centrale che riscuote le tasse e poi messe nelle mani di qualsiasi soggetto arruolato o ingaggiato, per essere pagato per il servizio dalla stessa autorità centrale. In questo modo, la messa in campo di grandi eserciti di fucilieri ben addestrati divenne il modo efficace di fare la guerra a partire dall'inizio del XVII secolo. I monarchi europei monopolizzarono con successo queste operazioni fiscali-amministrative-militari e resero così obsoleto l'ordine feudale, creando quelle che Tocqueville chiamava condizioni sociali democratiche e l'ormai evidente distinzione tra società e Stato. L'America delle origini si sviluppò in modo diverso. I coloni europei sbarcarono con le armi in mano e le condizioni sociali democratiche tra di loro erano per lo più scontate. Solo negli anni '30, quando l'America sembrava essersi trasformata in uno Stato moderno e centralizzato, il governo federale tentò di regolamentare il possesso di armi da fuoco.


Le armi figurano in primo piano sul frontespizio del Leviatano di Hobbes, scritto dopo il primo mezzo secolo di uso effettivo delle armi da fuoco sul campo di battaglia. Il ritratto immaginario della condizione umana nel mito dello stato di natura di Hobbes porta i segni della trasformazione sociale che lo accompagna, e questo è uno dei motivi per cui quest'opera di filosofia politica è tra le prime a descrivere un mondo umano immediatamente riconoscibile per noi moderni. Hobbes è il primo ad affermare esplicitamente l'uguaglianza naturale di tutti gli uomini. Ma ciò si riduce al fatto che siamo ugualmente capaci di ucciderci a vicenda, poiché anche gli uomini più forti possono cadere in un'imboscata o devono dormire per qualche tempo. Questo non è un pensiero che viene naturale in un mondo medievale con i suoi ordini differenziati che includono una classe guerriera dominante. Quando Hobbes prescrive la creazione di uno Stato che concentri e monopolizzi la forza violenta ed elimini il tipo di status indipendente caratteristico del sistema feudale, sta, almeno in parte, prescrivendo come il governante moderno dovrebbe rispondere a questa prospettiva di un potenziale più equo e meno socialmente differenziato di esercitare e subire la violenza.

 

Questa violenza monopolizzata dallo Stato, resa possibile e necessaria dalle armi, richiede un principio di legittimità. Come abbiamo visto, nel racconto hobbesiano, il principio ultimo di tale legittimità è una condizione condivisa di vittimismo. Come abbiamo visto, il mito hobbesiano costituisce il "popolo" come un gruppo di vittime unite dal desiderio di protezione. In questo modo fonda la legittimità dello Stato su un bisogno condiviso di sicurezza passiva. I miti lockeano e rousseauiano utilizzano il vittimismo per dare legittimità alle azioni politiche in opposizione allo Stato, intese come correttivi necessari a forme illegittime di potere statale. Nelle loro versioni estreme, queste vittimologie finiscono, nella mente dei loro aderenti, per ridefinire il "popolo" come coloro che sono vittime dello Stato in modi specifici - in altre parole, gruppi politici identitari con proprie fonti di legittimità.

 

"Potere al popolo", un vecchio slogan della vittimologia di sinistra, esprime mirabilmente l'effetto della politica dell'identità. Se il "popolo" è costituito da un gruppo di individui con un desiderio condiviso di essere al riparo dalla vittimizzazione, e se questo desiderio condiviso dà legittimità all'autorità politica e alla monopolizzazione della violenza, allora coloro che condividono un forte senso di vittimismo comune si vedranno come "il popolo" che è la fonte della vera legittimità. La vittimologia lockeana della "destra" e quella rousseauiana della "sinistra" costituiscono quindi la base di popoli diversi. I lockeani sono i "veri americani" che rimangono fedeli nello spirito alla resistenza rivoluzionaria contro i governanti prepotenti e alla legittimazione originaria da parte del "popolo" di una costituzione di governo limitato. I rousseauiani rivendicano la solidarietà con coloro a spese dei quali "l'establishment" ha fatto il proprio nido.

 

Quando Nikole Hannah-Jones sostenne che la guerra per l'indipendenza era motivata dall'ansia di proteggere la schiavitù, la sua storiografia era forse palesemente sbagliata, ma la sua vittimologia era astutamente mirata. Essa cercava di spostare lo status dei Fondatori, autodichiaratisi vittime dell'oppressione coloniale, sul lato oppressore della bilancia, delegittimando così la loro pretesa originaria di essere "il popolo" che costituisce la base della legittimità dello Stato. Sebbene questa mitizzazione sia stata accolta con entusiasmo dai vittimisti rousseauiani, è servita solo a rafforzare il senso di identità politica dei patrioti lockeani e ad alimentare la loro resistenza alla vittimizzazione da parte dell'élite progressista.


La crescente polarizzazione della politica in America e altrove non è solo una questione di retorica sgradevole e di politiche drasticamente divergenti. Coloro che si definiscono membri di gruppi oppressi dal "governo" o dal "sistema" si sottraggono all'insieme comune dell'unico "popolo" la cui comune protezione dalla vittimizzazione violenta fornisce la legittimità del monopolio della violenza da parte dello Stato. La crescita di sottogruppi che si identificano come il vero "popolo" legittimato diminuisce la legittimità dello Stato e della violenza che esso esercita per scoraggiare la vittimizzazione reciproca. Ogni gruppo si sente quindi più giustificato a usare la violenza per proteggersi dalla presunta vittimizzazione sostenuta dallo Stato. Canti di "Defund the Police" accompagnano l'abbattimento e l'incendio di veicoli delle forze dell'ordine; canti di "Stop the Steal" spingono una folla di linciatori a fare irruzione nel Campidoglio e ad assalire gli agenti dicendo loro che stanno combattendo dalla parte sbagliata. Sebbene la preoccupazione che questi gruppi antitetici sfocino in una guerra civile sembri esagerata, è del tutto plausibile che la violenza in corso da entrambe le parti continui a minare il senso di legittimità dello Stato, soprattutto se (come sembra probabile) la violenza riguarda le elezioni.

 

La metà superiore del frontespizio del Leviathan raffigura il potere sovrano come un gigantesco re guerriero-sacerdote il cui corpo incorpora tutti i piccoli corpi degli individui vulnerabili che lo compongono. Questi sono uniti in un unico corpo dalla coscienza vittimistica che li rende il popolo e dalla loro disponibilità a concedere il monopolio della violenza al sovrano per scongiurare la prospettiva della vittimizzazione. Si tratta di una cupa parodia dell'incorporazione al corpo di Cristo attuata nella liturgia sacramentale attraverso il sacrificio della vittima del tutto innocente. Ci viene ricordato che, pur essendo suscettibili di vittimizzazione, non siamo mai del tutto innocenti e che abbiamo bisogno di dare e ricevere continuamente il perdono. Questo dovrebbe permetterci di essere più amichevolmente vicini gli uni agli altri nella polity (forma di governo), che è la seconda forma di comunità.


Questa incorporazione nello Stato - descritta da Zarathustra di Nietzsche come "il più freddo di tutti i mostri freddi" - può fornire solo una somiglianza distorta della comunione con il nostro Creatore mediata attraverso il nostro Redentore. La vittimologia secolarizzata che sottende quell'insoddisfacente incorporazione politica deve inevitabilmente essere rivolta contro se stessa, assumendo forme che promettono ammalianti imitazioni della liberazione e della dignità personale che si trovano solo nell'incorporazione divinamente istituita. La pace della città terrena è sempre tenue perché, in fondo, è sempre divisa contro se stessa. Non può fare buon uso delle armi che toglie dalle mani della Chiesa, proprio perché non sono state fatte per essere armi.

 

C'è una storia più lunga e complicata da raccontare su come questa crisi sia arrivata a noi, e perché ora, e cosa dice sul destino del liberalismo. Il punto qui è suggerire che la vittimologia secolare della politica dell'identità rappresenta una crisi del tentativo di fondare la legittimità dello Stato moderno e il suo monopolio della violenza sulla vittimologia secolarizzata, e che dovremmo aspettarci che il disfacimento di questo progetto sia violento. Si tratta in fondo, credo, di una crisi della nozione stessa di legittimità come principio secolare. Possiamo avere un principio sostenibile di legittimità politica che non sia in qualche modo esplicitamente subordinato al Dio che si offre come agnello innocente ucciso per noi? Sembra che stiamo naufragando su questa domanda, alla quale la politica dell'identità pretende di rispondere in modo affermativo, mentre ci spinge verso la dissoluzione. Speriamo di riuscire a trovare una risposta più soddisfacente, perché altrimenti, Dio ci aiuti, siamo davvero in alto mare.


Mark Shiffman è professore associato di filosofia presso il Saint Patrick's Seminary and University di Menlo Park, California. È il traduttore del De Anima di Aristotele (Focus Books) e delle Regole di Cartesio per la direzione della mente (Saint Augustine's Press, di prossima pubblicazione).


NB: Ringrazio l'autore per il permesso di pubblicare il suo articolo, che presento qui anche in traduzione italiana - si tratta di una traduzione automatica di DeepL corretta da me. Le sottolineature (corsivi, etc.) sono mie. Roberto Graziotto - L'articolo in inglese si trova qui: Versione inglese originale


Note


(1) Wikipedia presenta solo la parte di destra: "Lo Unite the Right rally, noto anche come disordini di Charlottesville o scontri di Charlottesville, è stata una manifestazione organizzata dai suprematisti bianchi avvenuta a Charlottesville, in Virginia, dall'11 al 12 agosto 2017 (Wikipedia).