sabato 21 dicembre 2019

Sul mistero della persona e dell'eucaristia - in dialogo con Stefan Oster, vescovo di Passau

Con questo post voglio cominciare un lavoro di riflessione sul tema della persona e dell'eucaristia (dottrina della transustanziazione) che ordinerò, come nel caso del post su Newman, in ordine cronologico inverso. Il post più recente si troverà all'inizio del post. 

(20.08.20) Per un atteggiamento di legittimità critica nei confronti della tecnica

È certamente uno dei meriti di Martin Heidegger aver analizzato in modo critico la tecnica - il porsi dell'uomo con intenzione di dominio sulla natura. Sarà necessario trovare un equilibrio nell'analisi di essa e di ciò che Stefan Oster chiama l'esperienza cognitiva, che egli distingue dall' esperienza personale e che sarà la base per una teologia dell'eucarestia, come sostanza personale. 
Tutti siamo contenti di aver uno spazzolino da denti e certamente non sarà necessario avere un'esperienza personale con esso - una cognitiva è già sufficiente. Con questo esempio voglio solo dire che una critica radicale ed apocalittica della tecnica (anche nel suo livello economico e burocratico) corre il rischio di essere solamente un lusso filosofico. 
Richiamandoci ancora una volta l'esperienza del bambino Stefan Oster (III 8d) ci fa capire che vi è davvero un pericolo nell'uso tecnico del reale, ma che se questo uso rimane secondario all'esperienza primaria d'amore, forse (uso questa parola perché potrebbe aver ragione Paul Kingsnorth nel dire che il paradigma tecnocratico ha già superato ogni limite)  sarà possibile anche a relativizzare la tecnica ed in primo luogo quello che il Papa chiama, nella sua enciclica "Laudato sì": il "paradigma tecnocratico come riduzione delle sostanze a sostanze morte. 
"Noi viviamo grazie alla solidarietà, alla fiducia, all'amore e all'amicizia" (Stefan Oster) e tutti gli aiuti tecnici sono secondari a questa esperienza personale primaria. Per un agnostico come L. Kolakowski questo modo di vedere è un "mito", non qualcosa che possa fermare il disastro che porta il nome di "indifferenza" - noi siamo per il mondo indifferenti. Se non vi è un donatore dell'essere come amore, allora è chiaro che non vi è un motivo ultimo per l'amicizia. Tutto è ridotto a "strumentalità" - noi siamo solo strumenti e non persone libere. 
Il criterio ultimo per comprendere il limite della tecnica è se esso serva o meno ad un'esperienza personale (ciò vale anche per la tecnica digitale). In ciò la tecnica è legittima. Se invece riduce la sostanze e le sostanze a sostanze morte, allora ha passato il suo limite. 

(07.08.20) Sono dato a me stesso - so di me stesso

Tra III, 8c e d c'è un Excursus sul dibattito teologico tedesco riguardante la soggettività, che permette a Stefan Oster di chiarire la sua posizione sul fondamento indisponibile della soggettività stessa. La posizione ontologica di Oster, che si richiama a Ferdinand Ulrich ed Hans Urs von Balthasar, vede nell'essere come amore il fondamento non disponibile della soggettività che però non viene intesa nella modalità della pura autocoscienza (so di me stesso), ma in quella di un rapporto esistenziale con il proprio sé (Sono dato a me stesso).  

La posizione di Levinas viene vista con ragione in modo critico: lo statuto filosofico e teologico dell'alterità, come ho spiegato ieri in un post in dialogo con Padre  Paolo Dall'Oglio, implica un rapporto umile con l'altro, ma ciò non significa il sospetto che la soggettività, solo in forza della sua struttura intenzionale, sia dominio: l'altro non deve venire fagocitato, ma neppure il proprio essere noi stessi, che è dono gratuito, in cui il donatore non dona solo qualcosa, ma dona se stesso, può essere dimenticato. 

Il mito di un non fondamento (per esempio in Massimo Cacciari) che sia ancora un di più di quello che si intende qui con la gratuità del dono dell'essere confonde il non fondamento con l'arbitrarietà - anche l'altro può diventare arbitrario e non un essere-in-dialogo-con la mia libertà, a sua volta donata. L'ermeneutica dell'amore (Paolo Dall'Oglio) e l'esperienza personale (Stefan Oster) non hanno bisogno né di "equivoche misture" né di un irrigidimento di sé e della propria identità o di quella dell'altro. 


(25.05.20) Appunti per una soggettività redenta - essere-se-stesso come qualità particolare dell'intimità con se stessi versus la gelosia (III, 8c)

Alla scuola di Hans Urs von Balthasar sto imparando, con fatica, a disinteressarmi di me stesso, ma con Ferdinand Ulrich e qui con Stefan Oster conosco il motivo evangelico dell'amore per sé, che Agostino distingue dall'egocentrismo. Il "senso religioso" di Luigi Giussani ha certamente anche questa dimensione di "soggettività redenta" che è il tema della meditazione odierna. Il bambino che gioca ridendo con il bastone e il secchiello è immagine di questa "soggettività redenta", che è sempre allo stesso tempo rapporto con sé, con il mondo e con Dio. 

Questa soggettività redenta si esprime in quella che stiamo elaborando come "esperienza personale" - un'esperienza che non considera se stesso o il proprio avere come un "privilegio" da difendere, come accade nel caso della gelosia, ma come dono; nella gelosia si impone la sfiducia, piuttosto che un' intima fiducia in se stessi e nell'altro. Una vera e certa intimità con sé e con l'altro non è gelosa, perché sa che non ha nulla da perdere né da difendere: ciò che veramente conta, il dono personale dell'essere come amore gratuito è il fondamento (un fondamento che a sua volta non ha fondamento) ultimo della fiducia. Chi è geloso deve invece sempre accertarsi che l'altro dimostri di appartenergli. La gelosia è una forma possessiva dell'io =io. 

Se non vogliamo cadere nella depressione o nella schizofrenia noi tutti dobbiamo coltivare una certa forma di amore di sé (ama il tuo prossimo come te stesso). Infine Oster sottolinea il fatto che non c'è un criterio esteriore ed antropologico sicuro per discernere se in quella che osserviamo in certe persone sicure  si tratti di una forma di vera soggettiva redenta o se si tratti di una forma nascosta di egocentrismo egoistico. Solo lo Spirito del Signore lo può: "e quando sarà venuto dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio" (Gv 16,8). La colpa è sempre quella dell'egoismo personale o collettivo (io = io; noi = noi). 



(20.05.20) Figure della soggettività e la lotta per una integrazione personale (III, 8b (iii)). 

In questo paragrafo Stefan Oster ci aiuta a comprendere che la vera esperienza personale non si costituisce con la sola azione (morale e conoscitiva), ma in "una unità tra azione e ricezione" (Ferdinand Ulrich) di un io che è in sé rapporto: io-tu. Se io cerco solo di controllare ciò che accade in me a livello corporale ed emozionare, questo controllo si capovolgerà nel bisogno di non controllo, cioè di "orgasmo". Nella sua forma "sana" l'orgasmo è comprensibile nella reciprocità del rapporto, nell'equilibrio tra dare e ricevere. L'idea che la meta dell'uomo sia sempre il controllo della sua coscienza (o ancor peggio della coscienza dell'altro) non ha nulla a che fare con la gratuità dell'amore, ma è una forma di dominio. "Se per esempio nell'amore sessuale la dimensione del "farne esperienza" giunge all'amore come virtù , ma non può mai essere superata nel "gioco d'amore, cioè nell'unità tra ricevere e concedere", allora essa rimane in pericolo di cadere in un dualismo dialettico tra l'io come controllo e l'io come emozione" (Stefan Oster ibidem, 282). Nel rapporto sessuale sano è in gioco una reciprocità della donazione che non ha nulla a che fare con forme di dominio di sé e dell'altro. 

Con grande probabilità, nella nostra "società trasparente" (Byung Chul-Han), non vi è quasi mai una capacità sana di dono di sé, ma viviamo in forme disturbate, che portano nel caso estremo al masochismo e sadismo, come modalità del sentirsi vivi. Ma anche dove non si tratta di masochismo o sadismo, ma di semplice forme di sostituzione della donazione con un auto donazione, come nel caso della masturbazione, e pur concedendo che quest'ultima è una forma  sostitutiva della donazione di sé all'altro, perché riduce forse anche in modo perverso il rapporto dell'io ad un tu inesistente, essa rimane in alcuni o tanti casi un modo di gestire di ciò che "accade in me" e che non è integrabile da nessun: "io agisco razionale e morale". Per fare un altro esempio: le fantasie erotiche che sono polimorfe per eccitarsi sono ovviamente anche forme sostitutive dell'altro, ma un esercitazione estrema di dominio su di esse si muoverà sempre tra la dialettica del controllo e la forzatura di un non controllo. Credo che dovremmo essere molto, molto umili in questi temi e non porre sugli altri pesi che non possono portare e che noi non possiamo portare, se non con compensazione in forme di dominio. 

Stefan Oster è molto coraggioso nell'esprimere questi pensieri (che io ho forse forzato un po' con la mia interpretazione, ma senza tradimenti) che fanno nascere in me la preghiera non di un controllo dell'es, ma di una sua reale e gratuita integrazione in un'esperienza di personale amore gratuito, come accesso al modo di vedere le cose e le persone del Padre. Padre nostro...



(19.05.20) Sull'esperienza psichica ed emozionale - coscienza, emozioni e sentimenti

Il lavoro sul capitolo III, 8b (i, ii) sta diventando per me un motivo di vera conversione ed approfondimento. Ritengo che Stefan Oster abbia ragione ha dire che Karol Wojtyla, pur nell'intenzione comprensibile di combattere il soggettivismo arbitrario dei sentimenti insista troppo sul "dominio" di essi; non credo, però, che Stefan Oster si trovi del tutto nel vero quando afferma che Wojtyla "ha senz'altro ragione ad accentuare la norma morale ed a rinviare all'esercizio delle virtù" come introduzione ad un ontologia dell'amore come dono; Oster aggiunge  che questo esercizio, per quanto utile, non è "ancora un essere-totalmente-dall'altro dimentico di sé e proprio in questo un libero essere-se-stesso" ( = ontologia dell'essere come dono). Sia in "persona ed azione" che in "amore e responsabilità" Wojtyla, pur comprendendo che la dimensione emotiva è qualcosa che accade all'uomo, indipendentemente dalla sua autodeterminazione morale e conoscitiva, insiste troppo sul fatto il "dominio" di essa porti alla vera conoscenza e al vero amore. Cerco di spiegare la mia posizione.  

Sono del tutto d'accordo con Oster che il "principio e fondamento" dell'essere uomo, a livello antropologico, consista in quello che egli chiama "esperienza personale" che è "la figura-telos" di ogni nostro agire come uomo, morale, etico e conoscitivo. Ma penso che se non si prende sul serio la dimensione di psicologia del profondo sulla struttura del desiderio (Lacan, Recalcati), anche nella sua forma polimorfa, il "dominio" non può che - se non sei santo come Karol Wojtyla lo era - capovolgersi dialetticamente nel suo contrario. L'idea di "esperienza personale" di Oster corre meno questo pericolo ed è un invito ad una vera conversione del cuore - essa è anche un invito ontologico e non moralistico alla coerenza. Nel suo magistero sulla misericordia Papa San Giovanni Paolo II è arrivato a dire ciò che ha provato a dire, ma secondo me non in modo convincente, nella sua opera filosofica, che comunque è molto differenziata ed interessante (e proprio per la sua differenziazione, per nulla moralistica) .  

Personalmente, però, non credo che la santità possa nascere da qualsivoglia forma di "dominio", ma è "grazia" - grazia non è fatalismo, ma neppure vi è una scala di esercizi che porta alla grazia, ma solo una semplicità di cuore e una povertà di spirito, può far si che nasca in noi la disponibilità alla gratuità che non nasce "né da da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo". La generazione di uomini da parte di Dio è pura grazia di un incontro d'amore gratuito che fa nascere in noi il desiderio di coerenza e di risposta. 

(16.05.20) Modalità dell’esperienza - come può essere integrata in un’esperienza personale? (III, 8 a, i e ii riguarda l’esperienza sensuale- corporale in cui ci vogliamo occupare in questa meditazione odierna) 

Stefan Oster distingue tra l’esperienza sensuale-corporale (sensazione, pulsione, esperienza delle cose materiali e del proprio corpo) e l’esperienza psichica ed emozionale (coscienza, emozioni e sentimenti), pur sapendo che questa distinzione non può essere intesa in modo univoco, perché l’uomo è uno solo è può essere inteso per lui solo come unione ilemorfica, come accade nella tradizione aristotelica e tomista.
Quale è la domanda che si pone Oster? Quella della integrabilità delle modalità dell’esperienza in un’esperienza personale, che ovviamente ha diversi gradi di intensità. Il suo modo di argomentare mi è piaciuto molto, perché appare spesso il verbo: „tentare“. Insomma si tratta di un tentativo possibile, ma non sempre realizzato o realizzabile. 
Le differenziazioni di Oster sono adatte per una lezione nelle classi superiori di un liceo e per l’università, ma anche in una meditazione quotidiana come questa possono essere integrati alcuni aspetti. 

In questa parte odierna ci limitiamo, per quanto possibile, all’aspetto sensuale e corporale. Posso mangiare tenendo conto solo del fatto di soddisfare la fame o posso mangiare integrando la fame in un contesto personale - come quando si mangia insieme, ma anche quando si mangia da soli prendendo il tempo necessario a questo gesto. Posso bere del vino per ubriacarmi o posso berne un bicchiere di vino per gustarlo. Posso aver un rapporto sessuale per quietare una pulsione o posso averlo per incontrare l’altro. In questo capitolo Oster fa piuttosto esempi riguardanti il calore in una stanza o il gustare il vino; la questione sessuale rimane in sottofondo, anche quando parla del rapporto con il proprio corpo. Quindi non fa l’esempio della masturbazione: è essa integrabile in un’esperienza personale o è solo e sempre una risposta ad un bisogno che tratta il corpo come oggetto e non come una realtà personale? Lascio qui per ora la domanda non risposta. Come lascio aperta la questione se la dimensione polimorfa della sessualità, che forse è più una questione più di emozioni che solo corporale, (per esempio posso anche come eterosessuale trovare eccitante un rapporto lesbico) sia di per sé non integrabile in un’esperienza personale. 

Nelle pagine che ho letto mi ha fatto riflettere l’inversione che Oster compie: chi pensa di avere solamente un corpo finisce con il ridurre il suo essere nell’essere solo un corpo, mentre chi pensa che è un corpo ha un senso più profondo del proprio corpo anche nella sua differenza dallo spirito, ma senza mettere in dubbio la priorità di quest’ultimo. Oster fa l’esempio di un pianista, la cui „mano appartiene ed obbedisce alla dimensione spirituale in essa presente“. „In questa mano lo spirito è totalmente incarnato. Sussiste un’identità profonda: lo spirito è nel corpo. E tuttavia è lo spirito che forma la mano e non viceversa. Lo spirito domina nel corpo“ (ibidem 256). A me non piace la parola „dominare“, ma capisco l’argomento di Oster e lo condivido. Nell’esempio della masturbazione la mano forse non ha la funzione qui descritta per la mano usata dal pianista. 

Con Oster credo che la modalità con cui rispondiamo ai nostri bisogni sensuali, sessuali e corporali abbia una rilevanza etica. Ma credo che proprio in questo tipo di temi non dobbiamo essere „rigidi“, perché l’essere rigidi non è segno della presenza dello Spirito Santo (Papa Francesco). L’essere rigidi in questioni morali riguardanti il corpo di fatto è un segno di un qualche squilibrio che si sta reprimendo o nascondendo (come nel caso del fondatore dei Legionari di Cristo, ma anche di tanti altri). Ritengo, però, necessaria la distinzione tra un uso adeguato o solo utilitario del proprio corpo. 

Il bambino dagli occhi gioiosi con il suo bastone nella mano destra, che "spontaneamente" gioca con il suo corpo e con il secchiello (e la sabbia) comunque rimane anche per me espressione incarnata di quell'esperienza originaria con con cui discernere cosa sia un'esperienza davvero personale. 


Ps Il mio modo forse spregiudicato di parlare di teologia dei sessi non deve essere confuso con alcuna concessione a „Babilonia la grande“; ascoltiamo come parla l’Apocalisse di Giovanni 18, 2b-3):

„È caduta, è caduta Babilonia la grande, 
Ed è diventata covo di demóni,
Rifugio di ogni spirito impuro,
Rifugio di ogni uccello impuro,
E rifugio di ogni bestia impura ed orrenda.
Perché tutte le nazioni hanno bevuto, 
Del vino della sua sfrenata prostituzione,
I re della terra si sono prostituiti con essa
E i mercanti della terra si sono arricchiti
Del suo lusso sfrenato“. 


Commenta la Bibbia a cura di Bruno Maggioni (Milano 2009): „I cristiani non sono invitati a fuggire le realtà in cui vivono, ma ad abbandonare con decisione ogni forma di compromesso con l’idolatria e a respingere ogni forma di contaminazione con il paganesimo promosso dall’impero. Il testo vuole anche scardinare l’insidiosa convinzione circa la potenza umana di Roma. Agli occhi di Dio nulla di quanto essa possiede è stabile: quanti restano a bocca aperta per il suo lusso, resteranno a bocca aperta per la sua gloriosa disfatta“. L’idolatria o la sfrenata prostituzione è un mischio di lusso mercantile ed impurità. La mia spregiudicatezza, se c’è, non vuole legittimare ciò, solo rendere conto di quello che è innegabile, anche nella recente storia della Chiesa: abbiamo parlato in modo troppo rigido di sessualità con conseguenze a dire poco disastrose.

PS II (18.04.20)

Della "teologia del corpo" di San Giovanni Paolo II mi interessa in modo particolare un aspetto che egli ha sviluppato nel suo libro "Persona ed azione"; Stefan Oster riassume questo aspetto che mi interessa così: "Karol Wojtyla conferisce al corpo una quasi-soggettività propria, perché il corpo nella sua reattività vegetativa è indipendente dall'autodeterminazione della persona. Anche se, in condizioni normali, il corpo e la sua propria vitalità sono la base della autodeterminazione della persona, come si vede nel fenomeno del movimento" (Persona e transustanziazione, ibidem,241). Ora io credo che nella nostra "società trasparente" le "condizioni normali" non siano più un "evidenza". Questo significa che dovremmo lavorare molto di più su questa "quasi soggettività del corpo". 
Un altro aspetto importante della riflessione di san Giovanni Paolo II è quello di "amore e responsabilità" - io, nei miei tentativi di filosofia dei sessi ne parlo di meno, perché come filosofo ho bisogno di comprendere il mondo; non per un dialogo con il mondo, che mi è del tutto estraneo - l'unico dialogo necessario è quello con Cristo per ottenere da lui, come grazia, la santità - ma perché il mondo è in me (con il suo bisogno di piacere). Questa mattina, però, mentre il Papa dava la sua benedizione avevo di fronte a me la foto di mia moglie e dei miei due figli - ecco questa vita, che mi commuove sempre, perché miracolosa, è frutto di quell'atteggiamento che sGPII chiama "amore e responsabilità".    



(13.05.20) Cosa vi è di soggettivo ed oggettivo nell'esperienza personale? (III, 7) (con un breve accenno al caso di Silvia Romano) 

Ultimamente ci eravamo occupati dell'opposizione polare tra soggetto ed oggetto in dialogo con Massimo il Confessore; oggi con l'aiuto di Stefan Oster, riflettiamo su questa opposizione in riferimento alla questione della esperienza personale. Sia in Balthasar, interprete di Massimo, che in Oster c'è una priorità del soggetto sull'oggetto, ma in entrambi si tratta infine di una riconciliazione degli opposti e non di una "antinomia". 

Oster usa per "oggettivo" anche la parola "sachlich" che significa: concreto, positivo, obiettivo, imparziale, funzionale, sobrio e attento ai fatti. Dice alla fine del capitolo III, 7: "al cospetto di un uomo sachlich stiamo silenziosamente stupiti e meravigliati; è così raro che l'uomo sia veramente uomo". Un uomo è tale quando la sua esperienza oggettiva e soggettiva sono le due facce della stessa medaglia. Soggettivo non significa quello che pensavano alcuni miei allievi nella discussione del lunedì scorso in filosofia sul tema delle norme universali. Loro intendono: io, soggettivamente, penso che uccidere gli stranierei sia cosa sbagliata, ma altri la pensano diversamente, insomma è una questione di prospettiva; era difficile far capire loro (forse una ragazza ha capito) la differenza tra "ci sono" diverse prospettive, ma non "dovrebbero esserci" su una questione come quella dell'uccidere gli stranieri. I ragazzi hanno un senso forte della loro soggettività (basta dare un' occhiata a Instagram per capirlo) , ma la esprimono in modo molto debole. Oster ci spiega che c'è davvero quel senso forte di soggettività: il modo con cui io amo mia moglie è solo mio, quindi è soggettivo, ma che io pensi che non si uccidano gli stranieri è sì la mia posizione soggettiva, ma essa è anche l'unica posizione, che è "sachlich". 

Per quanto riguarda l'esperienza personale mi aiuta il modo con cui lo fa Oster ( e mi fa anche tanto bene), perché non si tratta appunto, come dice già l'espressione, del perdersi del soggetto in una "comunità", in un "collettivo", ma del ritorno in una situazione originaria del nostro essere persona. Si tratta di capire cosa significhi essere-se-stessi; essere-se-stessi non è un concetto assoluto, ma storico e in quanto tale trascendente - "l'esperienza personale non si può chiudere in un sistema, ma è storico-finita proprio perché è in relazione alla trascendenza" (Oster, 237).  Mi trascendo, essendo me stesso nell'altro/Altro! Questa è la mia sussistenza: è una sussistenza relazionale e in questo senso relativa. Dice Ulrich: "si può comprendere l'ontologia della sostanza come fenomenologia della fedeltà di Dio" (cit. ibidem 238, nota 142). È solo la fedeltà di quell'Altro che è amore assoluto che mi rende sussistente. Ci sono certo tanti aspetti da considerare: psicologici, sociologici, giuridici e politici... ma la conversione di Silvia Romano, la ragazza italiana liberata dopo 18 mesi di prigionia in Somalia, all'Islam, è comunque, prima facie - cioè fin che lei non lo smentisca - come una decisone della suo essere-se-stessa. Certo una decisione del tutto "soggettiva", cioè singolare e personale. Che anche cristiani siano tra i lupi che ululano contro questa ragazza per i motivi più disparati, dopo una tale prigionia, è una delle tante manifestazioni, che siamo davvero cattivi. Che Dio ci perdoni. 

(26.03.20) Cosa è l'esperienza originaria e/ o trascendentale? Una meditazione nei giorni del covid19 

Le pagine del capitolo III, 6 del libro su "persona e transustanziazione" di Stefan Oster mi permettono di formulare alcuni pensieri, che in questi giorni dell'emergenza mondiale causata dal covid19, volevo in qualche modo esprimere, ma non avevo trovato un linguaggio adatto per farlo.

Oster si confronta qui in modo particolare con Augustinus K. Wucherer-Huldenfeld. Mi limito ad alcuni pensieri di questo ricco capitolo. In primo luogo si da un'esperienza originaria, quando veniamo totalmente assorbiti da un avvenimento. E perdiamo ogni "distanza neutrale dell'osservatore". Questo accade, però, in primo luogo con persone. Nell'amicizia con persone. È l'esperienza personale che ci accade dopo un dialogo con qualcuno che ha saputo davvero comprendere e trasformare il nostro cuore. Il totale assorbimento in un avvenimento che perda questa dimensione "personale", rischia di diventare solo una "tortura". 

Anche la singolarità e l'imparagonabilità di un'esperienza originaria accade nell'incontro con una persona; un avvenimento che ci fa solo paura, può causare problemi psichici e/o un'isteria di massa e non un'esperienza personale. L'incontro con una tale persona ha una dimensione "vincolante", non il vincolo di una prigionia, ma il vincolo come occasione di superare la grande malattia del nostro tempo, in cui siamo confrontati con individui come "monadi" che sono prigioniere di un modo d'essere che può essere ridotto alla formula: io = io. L'egoismo individuale e collettivo si esprime in queste formule: io = io e noi = noi. 

Non è possibile fare una reale esperienza originaria se non comprendiamo profondamente che una persona è una "relazione sussistente" (una persona è "in se stesso un rapporto") e questo lo si comprende se siamo rimasti o se ridiventiamo come bambini: un bambino sa fidarsi, sa perdersi nell'altro come un atto di fiducia e non di paura. Sa giocare anche in mezzo alla guerra o in mezzo ad un campo profugo. Sa "ripetere"  come esperienza del gioco, non nella modalità di adulti che ripetono testi imparati a memoria e che non ci permettono di fare una reale esperienza. Gli adulti non sanno "ripetere in avanti", ma ripetono come pappagalli. I bambini anno morire a se stessi "nella vita", noi adulti moriamo solo "nella morte". 

Heinrich von Kleist affermava nella "Pentesilea" che si può (!) imparare nel dolore, ma spesso veniamo schiantati nel dolore. Per cui bisogna stare attenti a non sovra accentuare l' "imparare attraverso il dolore" (per esempio in una continua assunzione di immagini dolorose); per rimanere sani dobbiamo usare tutti i registri dell'esperienza:  teorico, morale, estetico e religioso. Certo la morte non ci permette di essere totalmente armonici, in modo particolare la morte di molti in breve tempo e la "ragione" da sola non ci aiuta in una tale situazione; dobbiamo imparare quell'atto di fiducia proprio ai bambini che "postulano", senza saperlo dire, che la realtà è dono! La realtà è sempre dono! Ferdinand Ulrich che lo ha espresso in modo filosofico preciso ha fatto da giovane esperienze nei vagoni ferroviari della morte e della fame, che lo hanno portato dall'allora Cecoslovacchia in Baviera, che io non avrei il coraggio di vedere nemmeno come cinema. 

Il postulato dell'essere come dono d'amore è un atto di fiducia che possiamo implorare e ci vuole molto coraggio "filosofico" (non astratto) nel vedere questo come un'esperienza "trascendentale", cioè costituiva del soggetto,. Questa esperienza trascendentale è l'altra faccia della "storicità" in cui questa "esperienza originale", riaccade come storia di un'amicizia, come per esempio quella che Lucio Brunelli ha descritto nel suo libro sul papa: "Francesco: come l'ho conosciuto io". Il motivo ultimo per cui io seguo con fedeltà la Santa Messa del Santo Padre è perché vedo in lui, come avevo visto in Ferdinand Ulrich, un uomo che ha fatto questo atto di fiducia di cui parlo (ma che ovviamente  ha bisogno delle nostre preghiere per compierlo fino all'ultimo respiro).  Quasi tutte le critiche al Santo Padre nascano dal fatto che non si sopporta la libertà-vincolo dell'esperienza personale che egli sempre ci propone. Mentre proprio questo vincolo-libertà mi spinge a seguirlo. 


(16.3.20) L'esperienza personale è qualcosa di qualitativamente più intenso della contemplazione, III (ultima parte del capitolo III,5). 

La contemplazione è un'esperienza interiore importante, ma l'esperienza personale ha un significato più universale. Contemplare rimane un atto intellettuale, mentre con il significato di esperienza personale, il vescovo Stefan Oster ci vuole aiutare a fare un passo di totale donazione di sé in Dio . Josef Pieper intendeva la parola "contemplazione" non solo nel senso "religioso", ma anche "umano", ma nella parola stessa vi è un significato semantico che non permette quel passaggio che ci vuole fare Stefan Oster. Solo l'amore come esperienza personale ci permette di superare la paura della morte, ed anche la paura di una reale donazione di sé. Ritorneremo, nel corso di questo lungo post sulla abilitazione del vescovo tedesco, sul tema della morte, ma faccio un passo indietro: come mai dopo un atteggiamento di vera contemplazione e di vera teoria (cioè di attività che non si lasciano ridurre ad uno "scopo") basta un occhiata di sfuggita ad una foto di una ragazza in Instagram, che ha postato uno degli "amici", per farti perdere l'equilibrio contemplativo - perché pur nel grand bene della contemplazione, questa rimane un atto "astratto" (non eccitante). L'astrazione può essere superata solamente con ciò che Giovanni chiama "amore": 1 Gv 4, [18] "Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore." 

Ma cosa è questo "amore"? Ulrich lo spiega rimandandoci all'esperienza originaria del bambino: "Il bambino non contempla "frasi", "parole", "regole di comportamento", "norme logicizzate", ma guarda la verità dell'amore del tu, in carne ed ossa, oppure non guarda un bel niente"; noi per ridiventare come bambini, non dobbiamo diventare infantili, ma vivere della "sfera originaria dell'essere come salvezza" (Hans Urs von Balthasar): il bambino non distingue tra l'amore di Dio e quello dei genitori, per cui tutta la sua realtà personale è "santa", espressione del "Santo, Santo, Santo" (anche quando gioca con il suo bastone e il suo secchiello). Questa è una esperienza rara, ma davvero umana: "quanto raramente l'uomo è realmente uomo" (Oster). 

C'è un esperienza di originario si al nostro essere noi stessi e al nostro essere con gli altri che non viene sconfitta neppure da un'epoca drammatica: è quello che ha cercato di dirci Etty Hillesum in Auschwitz. Anche questo tempo drammatico del virus covid-19 può far si che noi ci sentiamo desolati e che percepiamo la realtà come una follia raccontata da un folle, una follia pericolosa. Quello che negli ultimi giorni ho chiamato: il vivere solo nella notizia (per quanto importante sia la notizia come spiegazione ed informazione necessaria) approfondisce questa desolazione, solo la preghiera permette di vivere l'esperienza del male come ultimamente sensata, anche se io non ne conosco il senso. Certo Dio potrebbe fare anche un miracolo del tipo di quelli che compie Gesù, perché solo lui ha il diritto di "tollere" la natura - certo questo diritto non c'è l'ha "cultura", per cui vale ancora di più quello che dice Tommaso della grazia: questa perfeziona, non "tollit" la natura. Ma come possiamo superare la paura che ci paralizza? lo lo sto vivendo in questi giorni partecipando alla Santa Messa con Papa Francesco alle sette del mattino, trasmessa in rete. Non vedo un mago, ma vedo un uomo in cui l'esperienza personale come amore si fa volto; anzi di più si fa "voce": la bellezza non può essere solo "guardata", ma "udita": Maria riconosce Gesù quando viene chiamata per nome. 

(11.3.20) Il fine perfetto della conoscenza è l'amore, II 

Il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) ci aiuta a comprendere il valore della gioia e della contemplazione, non assorbite dalla logica totalizzante del lavoro di cui abbiamo parlato ieri. Quindi ci fa comprendere il valore della "calma", della "lentezza" dell'esistere direi. La contemplazione della beatitudine è per lui, nella scuola di san Tommaso, la massima forma della conoscenza: "L'essenza della beatitudine consiste in un atto della forza conoscitiva spirituale" ("essentia beatitudinis in actu intellectus consistit", Sth I, II, 3, 4). 

Poi insiste sul "vedere" nella contemplazione, per cui essa non è solo un "volere" o "amare", ma l'avere ciò che si ama; il volere chi si ama non è ancora gioia, secondo questa logica amorosa; l'atto di conoscenza, come consociamo dalla bibbia, è un "possedere" chi si ama, è un conoscerlo sessualmente e non solo spiritualmente o meglio il "sesso" stesso è una conoscenza in cui spirito e carne sono la medesima cosa. La conoscenza spirituale, però, è per Tommaso la forma massima dell'avere. Per quanto mi riguarda io credo che in questi discorsi il "vedere" sia sopravvalutato; l'aver l'amato/a accade anche nell'ascoltare e nel toccare. Il toccare sessuale porta all'orgasmo che è una forma di piacere "mondano" intenso, che non può essere trascurata. Ma ovviamente anche l'orgasmo rimane solo un simbolo mondano ed imperfetto, perché alla fine i due corpi rimangono anche solo uno accanto all'altro. Il parlare con la propria sposa, anche se non può, almeno negli anni giovanili (ma quando non si è più giovani da questo punto di vista?) sostituire il "sesso", può essere un simbolo più forte di quella pace di cui parla Pieper, di quella conoscenza di cui parla Tommaso. Nel "parlare" ed "ascoltare vi è però qualcosa di più del solo "vedere" l'amata o l'amato.

Il guardare stesso (per rimanere dapprima nel vocabolario di Pieper), l'aver l'amata non fa finire l'amore, perché "il fine perfetto della conoscenza è l'amore ("nam dilectio est cognitio terminus" (Sth II, 27, 4 ad I). L'ascoltare l'amata/o/* è un simbolo molto forte di questo "terminus" amoroso, anche forse più del "vedere". E lo stupore, che non è solo l'inizio della filosofia, sorge sempre di nuovo nel vero ascoltare... Ma allo stesso tempo, senza il "toccare" anche l'ascolto può diventare astratto. Sono curioso di come ci si toccherà nel cielo, senza alcuna paura di un virus pericoloso (questa meditazione è stata scritta in quelle settimane in cui il Covid-19 si è impossessato del mondo). 

Tutte queste dimensioni dell'esistenza o forse meglio, per evitare il plurale, visto che si tratta di uno stesso ambito tematico, la dimensione del conoscere come amore, del conoscere amoroso possono essere indebolite da una logica lavorativa onnipresente.  

(9.3.20) Sul senso del lavoro e della contemplazione, I 

Il capitolo III, 5 contiene tantissimo materiale: così lo mediterò in alcuni passi che hanno tutti a che fare con il tema: lavoro e contemplazione. Forse con un linguaggio più "mondano" si tratta in primo luogo di pensieri riguardanti il lavoro e il tempo libero, l'ozio, la pigrizia e la distrazione per poi passare al vero atteggiamento filosofico ed esistenziale della contemplazione.  

Nella concezione di Aristotele il lavoro non viene compiuto per il lavoro stesso, ma per arrivare a quell'atteggiamento di "teoria", che da più peso all'essere che all'avere. Si lavora insomma per avere "tempo libero", nel senso forte del termine e non nel senso di un tempo per distrarsi in modo da potere di nuovo lavorare. Distrazione e lavoro possono diventare le due facce di un'unica estraniazione dal proprio essere-se-stessi. 

A partire da Cartesio, se ricordo bene Augusto del Noce ed in genere se prendo sul serio le mie conoscenze della modernità, la "teoria" viene messa a disposizione del cambiamento tecnico della realtà. Questo non deve essere inteso solo in senso negativo (vi è una legittimista critica del moderno anche in questo ambito), perché ciò ha permesso per esempio di superare il lavoro  degli schiavi, che invece era presupposto come "normale" nel lavoro teorico di Aristotele. Nel secolo scorso, però, abbiamo cominciato a vedere una nuova forma di "schiavitù" (meglio già a partire dalla rivoluzione industriale): gli uomini vengo usati perché il sistema lavorativo funzioni (J. Piper negli anni 60 ha scritto cose importanti sul tema).  Il filosofo tedesco J. Habermas ci ha permesso di comprendere cosa sia la "colonizzazione del mondo vitale": la logica solo economica e tecnica irrompe anche in ambiti di lavoro (scuola...) in cui sarebbe necessaria in primo luogo una "comprensione umana" e non soluzioni tecniche che si impongono come "colonizzazione di pseudo esperti". Questo è per esempio il motivo per cui tanti insegnanti, con grande esperienza, sono scettici, se confrontati con continue innovazioni tecnico didattiche. Non vogliono essere colonizzati! 

Nella mia esperienza decennale nella scuola, vedo, per fare un esempio, che i ritmi di lavoro insostenibile di un ginnasio tedesco portano come reazione dialettica, nei ragazzi, ma anche negli insegnanti, ad un fine settimana di distrazione ed ozio digitale. Questa alternanza dialettica non è sana e non porta ad una vera pace dell'essere-se-stessi in sé, nel mondo e negli altri. La filosofia (nel medioevo era l'arte liberale per eccellenza), come la ho importa da Ferdinand Ulrich, parte da un'esistenziale pace interiore e cerca di comprendere l'essere nella sua totalità, ma anche nella "piccola via", come "dono", un "dono" che non può essere "funzionalizzato" alle esigenze lavorative.   

(04.03.20) "Lo psicologo F. Künkel capisce con enfasi quanto sia importante lodare adeguatamente (cioè in riferimento all'oggetto) un bambino.

Ad esempio, se il bambino sta costruendo una torre, è necessario lodare l'edificio nella sua bellezza, funzionalità ecc. e non il bambino stesso. Altrimenti c'è il pericolo crescente che il bambino sia motivato a costruire di nuovo una torre, ma la costruirà per ricevere gli elogi dell'adulto e non più a causa di ciò a cui il bambino si era dedicato. Il bambino rischia di diventare "egoista" (ichhaft), come dice Künkel. Così riassume il vescovo Stefan Oster, 2010 (2014) una posizione molto interessante di uno psicologo tedesco. Il cammino che stiamo facendo per comprendere la sostanzialità della persona umana, non è una concentrazione egoistica sulla persona, ma l'intuizione geniale che se si vuole prendere sul serio la libertà di una persona, allora si deve comprendere che il suo essere-se-stessa non può essere dissolto nella relazionalità dei suoi rapporti: "il rapporto originario con il sé, che per l'uomo è personale, non può essere dissolto o identificato semplicemente con la relazionalità all'altro" (Stefan Oster, III, 4, pagina 214). Tanti disastri che accadono nella chiesa, nella famiglia e nella scuola hanno a che fare con la non comprensione di questa questione ontologica. 

Noi pensiamo che si possano superare questi disastri con la "lode della disciplina", ma la disciplina senza la libertà e senza il riconoscimento della libertà del essere-se-stesso dell'altro è "dittatura"; con la proposta di una "disciplina della lode" (Anton Schmid) si è fatto un passo avanti, ma Stefan Oster, alla scuola di Ferdinand Ulrich e di altri, ci fa comprendere che la vera lode deve essere "sostanziale", ciò significa comprendere che essere-se-stessi ed essere-dimentichi-di-se-stessi sono la medesima cosa cosa, come lo sono l'essere-dall'-altro e l'essere-presso-se-stessi" (Oster); la nostra sostanza personale consiste nell'essere persone-che-conoscono-per-amore. Il nostro rapporto con noi stessi non può essere diluito nel nostro rapporto con l'altro, ma senza il rapporto con l'altro perde la sua semplicità iniziale e diventa (alle volte ancora prima di andare all'asilo) crudele ed egoistico. Allo stesso tempo deve essere detto con totale chiarezza che nessun altro può costruire il mio essere-me-stesso. Dio lo può, ma lo fa nella modalità di una "generazione" e di una "creazione" che non sono una "costruzione": Dio che è amore assoluto presuppone ciò che crea! Cosa che vediamo in modo pieno solo nella vergine immacolata! 



(29.02.20) Come mai il bambino può giocare dimentico di sé, totalmente nelle cose che sta facendo?(cfr. III,3 a partire dalla pagina 204)

Meditando ieri sulla gioia che possiamo vedere nella foto del piccolo Ferdinand Ulrich, abbiamo toccato una dimensione fondamentale della nostra ricerca su cosa sia una persona. Il grande mistero ontologico della fiducia (ontologico, non estetico, come quello presentato da Iwan Karamasow nella sua figura del grande inquisitore). "Il bambino che gioca è nel senso profondo della parola tranquillo, è tranquillo in un senso ontologico e si lascia essere" (Stefan Oster). Quando gioca nella sabbia con il suo secchiello "il venir condotto dalla cosa (la sabbia che si lascia formare, se umida; RG) ed il giocare spontaneo sono le due facce dello stesso avvenimento" (Oster). E questo è possibile perché il bambino sa che attraverso la presenza dei genitori, della mamma e/o del papà la realtà è un luogo sicuro. Mia figlia mi ha detto ultimamente che quando è in crisi mi telefona, perché vuole sentire nuovamente, attraverso la mia voce, quella sicurezza ontologica (che non si pone per esempio come alternativa ad una sicurezza che può dare un psicologo, ma si trova ad un livello più profondo). Nel gioco, e per me oggi nel leggere o scrivere, accade qualcosa di molto simile a questa esperienza di cui stiamo parlando: il ricevere e la spontaneità sono le due facce del medesimo avvenimento, del medesimo processo. Mi fido di alcuni autori che mi danno una grande sicurezza come il bambino con il suo secchiello si fida nel giocare nella sabbia; non è una mancanza di criticità, anzi questa fiducia non nasce da un atteggiamento di uno schiavo, ma per l'appunto di un bambino. Non seguo uno "scopo", ma mi abbandono in questo processo di lettura o scrittura e cerco di tenere presente anche la mia esperienza. Questo è possibile solamente quando si ritiene ultimamente la realtà come dono e ciò è vero anche in un campo di concentramento (Etty Hillesum); Ulrich stesso ha vissuto esperienze drammatiche quando ha dovuto lasciare la città (Odrau nell'odierna Repubblica ceca) in cui era nato per venire in Baviera. Aveva raccontato a mia moglie con una dovizia di particolare il viaggio nel vagone ferroviario che lo portò a Mühldorf am Inn, dove ora è sepolto, nella tomba dei suoi genitori.

Sono grato per l'ontologia biblica di Ulrich perché mi ha permesso di comprendere che la grazia di Dio non annulla la sostanza umana, ma la la libera. Il vescovo di Passau si esprime così: "Il bambino è fondato in se stesso, sussiste, giocando e buttandosi nelle cose, che assume in sé e compie. Così semplicemente esiste e si sviluppa come un essere che esiste nella calma del suo crescere e divenire dinamico, insomma come se stesso. Essere e divenire non sono due poli distinti, ma l'unico e medesimo avvenimento: essere-se-stesso nel ed attraverso il compimento dell'essere-altro" (Stefan Oster). Stefan Oster vede come difficolta fondamentale del "pensiero protestante" la mancanza di questa comprensione ontologica della sussistenza personale; sono d'accordo con lui, ma credo che vi siano pastori luterani, che nella loro azione pastorale, non siano legati a questo "pensiero protestante", anzi che in fondo non si sentono per nulla "protestanti". Se penso all'amore per la musica, per la cucina, per i paesaggi danesi di Michael Greßler, il pastore luterano di Camburg, non vedo il pericolo di una sovra accentuazione del tema della grazia. 

La "Selbigkeit" (l'essere medesimo) dei poli, ricezione e spontaneità, in Ulrich e in Oster non ha il carattere di un superamento sistematico della tensione dei poli (Guardini, Bergoglio); essa è l'espressione ontologica del "primerear" di cui parla il Papa. Nella drammaticità dell'esistenza, quando si ha la sensazione di non aver più la realtà sotto controllo (come nel cado del covid-19) si è sempre tentati di non credere più a quella "Selbigkeit". La stessa tentazione accade quando si è confrontati con un bambino che non ha per nulla quella "calma" di cui abbiamo parlato qui; ma grazie a Dio essa, la "calma", non è un prodotto del nostro pensiero, ma ci sarà donata, nella modalità libera, in cui il Padre si occupa sempre di noi, anche quando non percepiamo questo suo amore. 

(28.02.20) Essere bambino, esperienza personale: l'esistenza ludica (cfr. III,3, fino alla pagina 204)

Quale è l'esperienza più affascinante del nostro essere uomini? Gesù ha messo un bambino al centro della nostra attenzione per rispondere a questa domanda. Lewis, in una frase citata da Stefan Oster nella nota 64 del libro che stiamo meditando, ci fa vedere un'immagine molto realista dei bambini: non tutto è bello solo perché lo fa un bambino; bambino possono essere anche crudeli ed egoistici, ma vi è una coincidenza di "ricettività" e "spontaneità" in loro, che non è solo l'inizio, ma anche la meta della nostra esistenza, di ciò che chiamiamo una buona esperienza. Una capacità di stupirsi e di compassione che noi adulti abbiamo per lo più perso. Hegel, nel suo linguaggio filosofico, formula il problema in modo geniale, anche se egli non ha un senso ultimo di quella positività del "ricevere", che invece è propria della filosofia cristiana di Ferdinand Ulrich o della pedagogia di Giussani; in Hegel viene sovra accentuata la dimensione del "lavoro dello spirito", detto questo, la sua frase coglie in modo sintetico quanto cerchiamo di dire: "Quell'unità che noi osserviamo nei bambini come qualcosa di naturale, deve essere il risultato del lavoro e della formazione dello spirito". 

C'è una foto di Ferdinand Ulrich, come bambino di due anni e cinque mesi (quindi nel luglio del 1933; da più di sei mesi Hitler è salito al potere), con un bastone nella mando destra e un secchiello in quella sinistra, in cui si può vedere questa "unità" di cui parla Hegel: un unità gioiosa, di stupore gioioso, di fiducia ultima, uno sguardo divertito e divertente, che l'anziano Ulrich qualche giorno prima della sua morte aveva anche nel suo letto di morte, quando con umorismo spiegava a mia moglie Konstanze come avrebbe potuto svegliarlo, qualora lei fosse arrivata e lui dormisse. Certo il suo sguardo drammatico e di sofferenza, quando ci ha raccontato qualcosa che lo faceva soffrire, era anche presente, come era presente un registro solenne quando ci ha parlato della nostra unità, e di sollievo quando ha ascoltato la mia interpretazione di Papa Francesco, ma la cosa che più mi ha colpito è proprio questo volto ludico, di gioco che unisce in "Selbigkeit" (l'essere medesimo) il bimbo e l'anziano Ferdinand Ulrich. Questa esperienza ludica era per me il sigillo di un'autenticità mai incontrata. 



(La foto è stata donata da Ferdinand Ulrich alla sorella dell'Agnello Cécile; le ho chiesto il permesso prima di pubblicarla). 

(26.02.20; Aschermittwoch) Parlare e credere (cfr. III,2e)

Come impara a parlare il bambino, secondo Stefan Oster? Impara in uno "spazio di relazione interpersonale"; non percepisce le persone come "oggetti", ma appunto come persone che ci sono. Non sa ancora specificare "cosa" esse siano. Questo è il primo "avvenimento" - l'esserci delle persone. Il primo grande presupposto per ogni vera conoscenza è la conoscenza della "personale alterità dell'altro" (Oster); se non ci sono traumi questa esperienza accompagnerà il bambino che diventa adulto, per tutta la vita. L'altro è una persona, non un oggetto a mia disposizione, una persona indipendente da me che liberamente si apre in un dialogo con me; è una libertà che si auto possiede e liberamente cerca un dialogo con me. Solo quando abbiamo incontrato un tale tu, consistente ed aperto, possiamo liberarci dalla esperienza tragica di un monologo chiuso in se stesso che riduce gli altri ad oggetti del mio ego! È una vera e propria esperienza di "fede": credo che l'altro che è persona, con il suo volto e con il suo linguaggio, sia davvero interessato ad entrare in dialogo con me. Non vedo il suo essere persona, per questo parlo di fede, di credere, vedo solo ciò che Robert Spaemann chiama la "rappresentazione empirica" della persona, il suo volto, il suo corpo e sento anche un'ulteriore rappresentazione empirica" della persona che è il suo linguaggio. Come l'essere finito è "niente", non è una cosa, non è un "oggetto", così non lo è la persona. Non stiamo parlando di un niente nichilistico, ma di quello della gratuità dell'amore, che è anche il presupposto per una vera apertura dialogica. Per imparare a parlare e credere. 

(23.2.20. 89. Geburtstag von Ferdinand Ulrich) Intero ed identità

Come il suo maestro ed amico Ferdinand Ulrich, Stefan Oster non salta nella sua riflessione  filosofica e teologica, la prima fase, quella dell'essere "bambino", l'inizio della nostra esperienza umana. Devo pensare alla "correzione" che fece Hannah Arendt al suo maestro ed all'inizio amante Martin Heidegger, che parlava dell'"esserci per la morte": vi è anche e soprattutto, in un certo senso, un "esserci per la nascita". Il modo con cui Stefan Oster riflette sull'esistenza (come intero e come identità) non è "tradizionalista", non è "cristianista" - ma è un uomo della tradizione cristiana. Il tradizionalista pensa che è la tradizione, come identità fissa, che salva, ma la tradizione è "solo" la modalità con cui viene trasmesso l'Unico che salva in modo sempre nuovo. Il cristianista ama il cristianesimo più che Cristo, per parlare con Remi Brague. L'identità e l'intero di una persona nasce essenzialmente in questa esperienza di "famiglia" di cui vorrei ora parlare e non in primo luogo in rifermento ad una "patria nazionale". 

In questa fase iniziale (bisogna leggere con molta attenzione III,2d, anche le note) vorrei concentrarmi su due punti. 1. L'identità del bambino (nella sua interezza) dipende dalle persone da cui dipende (i genitori) o dalla persona da cui dipende, nel caso venga educato solo da una persona, ma non è solo un "tu" per queste persone: è un "egli", una "lei" ed oggi si dovrebbe prendere sul serio anche la possibilità * (lo dico senza mettere in discussione l'ordine maschile e femminile della creazione). La "paideia" (educazione) non può essere "arbitraria" (beliebig) e dovrà prendere sul serio che il bambino è davvero un altro! E questa sua alterità non disponibile deve essere amata ed accettata, percepita ed assentita! 2. Anche la dimensione del "tra" deve essere presa sul serio: il bambino(a*) guarda e sente ciò che i genitori fanno o non fanno tra di loro; senza cadere nella trappola tradizionalista sarà possibile accennare ad una dimensione più femminile (vicinanza) ed una più maschile (distanza) e se io penso alla mia piccola famiglia posso confermare che la figura personale dei nostri due bambini è unica ed indisponibile, ma ovviamente è stata determinata dal "tra" di mia moglie e me. 

Detto ciò è vero che l'amore autentico non è solo "legame", ma anche "slegamento" (Ulrich) - dobbiamo imparare da subito a "lasciar andare" i nostri bambini, nella modalità dell'età che hanno. La nostra presenza l'altro ieri al funerale di Ulrich, non pianificata, mentre Johanna e Ferdinand vivono ad Heidelberg (Baden- Württemberg)  e noi a Wetterzeube (Sassonia-Anhalt) è stato un grande dono di Ulrich o meglio del Signore! Siamo stati confermati come unità, pur nella "differenza", in un mondo in cui tanti bambini hanno già due "divorzi" dietro di sé. Vi è un mistero ultimo di come si è "famiglia" che non dipende da un "discorso", ma che si realizza nei tempi e nelle modalità del Signore! E non è mai giudizio contro qualcun altro. Non vi è nessun merito nella "paideia" - non metto in dubbio che l'educazione "ferma" di mia mamma in Mirafiori Sud a Torino, in un quartiere operaio, abbia raggiunto una certa "riuscita", che nel palazzo dove abitavamo non era probabile, ma non è un merito della mia cara mamma, ma di Dio! Del Mistero! Che a volte lascia accadere degli avvenimenti che non sono ricostruibile a partire da una filosofia, come sapeva Ferdinand Ulrich. 

(15.02.20; compleanno di mio figlio Ferdinand) La casa e le cose

Ritorniamo a meditare l'abilitazione universitaria di Stefan Oster che vuole essere "una teoria universale di interpretazione del mondo a partire da un orizzonte personale" (191); nel capitoletto che meditiamo, il teologo tedesco si confronta in primo luogo con letteratura psicologica che fa vedere come anche la "casa" per il bambino, come "spazio interno di intima sicurezza" è in primo luogo "incarnazione di una presenza personale mediata materialmente"; nella prospettiva di uno studio su "persona e transustanziazione" è ovviamente non indifferente vedere come alla materia sia possibile essere, in qualche modo, "presenza personale". Ma a questo punto della riflessione, che è più filosofica che teologica, mi sembra importante sottolineare il nocciolo "mater" della "materia", anche dei "vestiti" che il neonato vede come "continuazione del proprio corpo". Casualmente (sit venia verbo) avevo appena scritto oggi nella mia bacheca in Facebook un breve aforisma sulla polarità feconda tra nudità ed essere vestiti: 

Bisogna prendere sul serio l’opposizione polare tra nudità ed essere vestiti. La prima mi ricorda l’autenticità, sebbene noi la “rispecchiamo” anche con immagini non autentiche. La seconda è una grande misericordia del Signore. Come ci ricorda la Genesi.

La materia può essere ridotta anche "materialisticamente" a qualcosa di solo "oggettivo" o ancor di più a "sostituzione" dell'impegno personale. Con un gioco di parole presente nelle lingue anglosassoni, Oster afferma che ogni "dono può essere un veleno" (cfr. pagina 192); posso anche donare un giocattolo molto costoso per non impegnarmi personalmente con i miei figli. Mutatis mutandis ciò vale anche per la pedagogia in generale: una qualsiasi offerta di materiali e di tecniche di insegnamento non può essere "sostituzione"dell'impegno personale dell'insegnante. 

Per quanto riguarda invece un possibile modo "malato" di vivere la propria nudità o la nudità degli altri, ma anche di vivere la scelta dei "vestiti" credo che questa meditazione sulla casa e le cose (la materia) ci offra un criterio di discernimento importante: umano è tutto, ma quando non mette in discussione la "sicurezza intima" e personale del nostro corpo. Nel linguaggio di Recalcati, a differenza (forse) di quello ontologico di Oster, la "Cosa in sé" è il "reale informe", non come dono, ma come veleno. Possiamo vivere il nostro rapporto con il cibo e/o con il sesso per raggiungere questa "cosa in sé" del tutto non personale (che pensiamo ci appaghi) e visto che la struttura del desiderio è sempre personale si corre il rischio di vuotare di senso sia il mangiare che il sesso. Dire queste cose per me è sempre anche un atto di confessione personale. Non mi sento meglio di nessuno. Secondo Lacan la donna ha un desiderio di tipo più olistico e il maschio più a "pezzi" (alcuni miei allievi pensano che oggi non sia più così) - ciò significa che vi è in noi maschi una più grande tentazione di perdere la dimensione personale nel sesso. Questo non deve scandalizzarci. In una delle più belle dichiarazione di amore, che io conosca, Walker Percy fa dire a Will Barrett ad Allie, la sua giovane amata: "amo il tuo carissimo cuore ed anche il tuo caro sedere, il più bello in tutta la Carolina. Voglio il tuo sedere, il tuo e non un altro, e voglio te per il resto della mia vita, te e nessun'altra" (The second coming, edizione tedesca,  Berlino 1989, 470-471). Quando una volta misi questa citazione nella mia bacheca In Facebook una donna religiosa si scandalizzo tanto; mi spiace, ma dal tipo, avevo il senso che non la santità, ma la "pruderie" era la causa dello scandalo. Perché anche il sedere può essere visto e mediato in modo personale. Ma ovviamente è anche una grazia poterlo coprire, essere vestiti e non solo per il freddo. 

(11.2.20; prima apparizione di Maria in Lourdes; in questo giorno, lo saprò dopo aver scritto questa parte del post, è morto Ferdinand Ulrich) 


Sul „reale informe“, come esperienza dell’inferno 

Confrontarsi seriamente con l’ultimo libro di Massimo Recalcati, Le nuove malinconie, Milano 2019, significa fare un lavoro linguistico e di pensiero notevole e significa anche appropriarsi del linguaggio di Lacan, in modo particolare del registro „reale“; con il suo studio sul „sacrificio“ („Contro il sacrificio“), avevamo approfondito invece i registri dell’immaginario e del simbolico. 

Il „reale“ in Recalcati/Lacan è un „reale informe“, assimilabile all’esperienza della discesa all’inferno di Adrienne von Speyr. Cristo nell’inferno incontra o meglio è immerso nel „reale informe“, che non può essere più mediato a livello né immaginario né simbolico: il reale non è un’ „immagine“ e non è un „simbolo“. La „cosa“ come „reale informe“ non viene più mediata dalla nostra capacità simbolica di riflessione, né dal desiderio vitale di un oggetto che si sottrae a noi, ma è l’incontro con la brutalità del „reale informe e senza senso“: questa è la causa della malinconia; in essa non veniamo sorpresi dalla gioia (C-S. Lewis), ma da un’esistenza senza senso e senza l’Altro. Il malinconico è solo (ma non „solus cum solo“ (Ignazio di Loyola), ma semplicemente „solus“)  è confrontato con un’eccedenza insensata di un’esistenza senza senso, che è immersione nel „reale informe“. 

Mentre il paranoico ha bisogno dell’altro/Altro come nemico, il melanconico è senza alcun „Altro“. Il paranoico crede di possedere la verità dell’Altro, il perverso si sente padrone del godimento dell’altro, il melanconico invece è del tutto solo con il „reale traumatico del non senso“. L’esistenza non ha senso per il melanconico e quindi non vi è in esso nessuna ontologia, tanto meno un’ontologia dell’essere come dono di amore gratuito; non può fare quell’esperienza di „apertura“ che Stefan Oster ci ha fatto fare con Gadamer (comunione dell’essere presente nell’altro come incontro di significato) e con C.S. Lewis (apertura come gioia, come un venire sorpresi dalla gioia). La „sostanza“ nel melanconico non ha una valenza „personale“, ma solamente di „reale informe“. Il soggetto melanconico vive l’esistenza come colpa, è sempre colpevole „ma non è mai paradossalmente responsabile della sua colpa“ (Recalcati) - solo una persona, non il reale informe, può sentirsi responsabile di una colpa precisa e particolare. 

Ma non solo per quanto riguarda la grazia dell’amore gratis, anche l’eros  viene distrutto dal melanconico; eros vive di una mancanza e di una procrastinazione, mentre il melanconico è melanconico per una eccedenza di presenza allucinante: soffre della presenza dell’oggetto come reale informe, piuttosto che della sua mancanza (non è capace a vivere il lutto). La tendenza securitaria (Recalcati) nasce dalla malinconia odierna: è il tentativo, con un „muro“, di isolarsi come „soli“ per essere indisturbati nella nostra immersione nel „reale informe“ - quindi non vi è spazio per un altro che svegli la „pulsione vitale erotica“. Se capisco bene Recalcati il fascismo interiore del melanconico non è uguale al fascismo paranoico dell’epoca di Mussolini ed Hitler. Questi si sentivano detentori della verità, il melanconico no. 

È chiaro che in un’epoca del genere presentare la „presenza“ come „ripetizione della cosa“ non può avere valenza salvifica, ma corre il rischio di trasformare la presenza stessa come immersione nella „cosa“ come „reale informe“; le mie meditazioni sono per me necessarie perché senza questa mediazione simbolica, anche la presenza reale è solamente una forma di immersione nel reale lacaniano e non in quello personale di Giussani e Ullrich. 

La nostra epoca malata non è malata di nevrosi in cui il „reale“ è un „resto“ (oggetto piccolo (a) - per usare il linguaggio di Lacan/Recalcati), con cui si tenta un lavoro simbolico di „significazione“; nella paranoia il „reale“ non coincide con l’esistenza: il reale si presenta come persecuzione da parte di un altro/Altro considerato come nemico, di cui ci si sente „perseguitati“ (il nemico può essere per esempio il comunismo, sebbene l’epoca stalinista sia finita da decenni); per il melanconico il „reale“ non è un „resto“, ma è l’esistenza tout court, che è priva di ogni senso, ma non nella modalità della „privazione“, ma della „presenza eccedente“: esso, il reale“ è „l’Uno assoluto  dell’esistenza „sprovvista di senso“ (Recalcati, ibidem p. 20, nota 34)“.


Da questo „inferno“ anche Cristo è stato liberato da un’Altro, dal Padre misericordioso, non si è liberato da se stesso, ma dal Padre, „che è più grande di me“ e dallo „Spirito Santo“ che il „femminile“ in Dio (Marc Ouellet). Lo Spirito Santo mandato dal Padre, etc. 

(6.2.20) Un bambino di sei mesi sorride solo alle persone, non agli oggetti

Nel capitolo III,b, "legame e fiducia", Stefan Oster presenta momenti di letteratura importante riguardante la psicologia dello sviluppo dei bambini, anche nella fase in cui hanno pochi mesi. Il risultato impressionante è l'importanza notevole che hanno per i bambini legami duraturi e stabili, per una percezione delle persone e attraverso di esse del mondo; per esperienza, come insegnate, so che purtroppo vi sono tantissimi non successi e tantissimi fallimenti a questo livello dei legami; quello che i bambini della quinta classe (undici anni) mi raccontano spontaneamente nelle passeggiate rituali che faccio con loro, mi fanno vedere come tantissimi bambini non hanno fatto per nulla un'esperienza di legami stabili. 

Ovviamente il legame stabile da solo non permette ancora una stabilità psichica, bisogna aver fatto l'esperienza dell'amore gratuito in questo tipo di rapporti di cui stiamo parlando e non solo con la madre, ma anche con il padre e con "terzi". Il fatto che bambini di sei mesi sorridano a persone e non ad oggetti, fa vedere questa dimensione ontologico personale ultima su cui ci sta facendo camminare il vescovo tedesco. 

Io credo che quanto segue sia il compito più importante di un genitore, anche quando i bambini sono diventate persone adulte: non si tratta mai, né primariamente "di aver ragione", ma di offrire quella "stabilitas" dei rapporti senza la quale non è possibile aver una vita riuscita, in un mondo fortemente drammatico. So come genitore di aver fatto errori, di cui mi ero accorto in modo particolare nel dialogo con Ferdinand Ulrich (in questo blog avevo trascritto un dialogo che avevo avuto con lui a proposito di mia figlia Johanna, quando era bambina: https://graziotto.blogspot.com/2017/06/in-dialogo-con-ferdinand-ulrich.html ), ma credo che io, come tutti i genitori possiamo crescere, fino all'ultimo respiro, in questo nostro compito di proporre un amore stabile gratuito. Ulrich mi insegnava l'arte molto complessa dello "legamento", del lasciar-essere e lasciar-andare i propri figli, in modo che crescano nel proprio libero essere-se-stessi. L'offerta di stabilitas e il lasciar-andare, sono le due facce di una medesima medaglia. Un vero legame di fiducia implica anche quello che Ulrich chiamava "slegamento". Ecco una citazione da quegli appunti: "Per quanto riguarda Johanna: Konstanze ed io dobbiamo concentrarci di più sulle nostre persone e lasciar in pace Johanna. Il rapporto d'amore matrimoniale  è in primo luogo il rapporto tra padre e madre e i bambini in un certo senso sono aggiuntivi. Proprio qui deve essere compiuto lo "slegamento" di cui parlavo sopra." (11.8.1999; Johanna aveva quattro anni; ho trascritto gli appunti a partire dal 20.2017).

(5.2.20) Nello spazio del riconoscimento (cfr. Stefan Oster, Persona e transustanziazione, 179 sg.)

Quando dico che vivo in una delle zone più secolarizzate del mondo, con l'80 % di non battezzati, la gente cattolica sorride e ci tiene a dirmi subito che anche loro vivono nel secolarismo; è vero, ma non prendono per nulla in considerazione quell'assenso minimo di cui parla anche Adrienne nel commento a Gv 7, 31 e di cui ho parlato ieri nel "gruppo chiuso" in Facebook dedicato alla dottoressa e mistica svizzera. Quell'assenso minimo che fa si che i "molti nella folla" vogliono comunque, per qualsivoglia motivo, battezzare i loro figli. E poi non tengono conto dell' "ex opere operato". Vero, però, è questo è certamente uno dei tratti fondamentali della secolarizzazione ed è comune a tutti i paesi in cui essa vige come "dittatura del relativismo" (Benedetto XVI) è che si è perso del tutto o quasi l'esperienza di uno spazio del riconoscimento, senza il quale il nostro essere personale non viene "svegliato"; siamo "persone" anche solo per il fatto che apparteniamo alla specie umana, ma solo il riconoscimento, "sveglia", non "opera" il nostro essere persona. 

Per eprimerci con il linguaggio di Rilke, citato da Oster (che non cita solo questo poeta, ma tanti lavori scientifici e filosofici): spesso i bambini non hanno fatto l'esperienza di uno "spazio umano", che si aggiunga allo "spazio notturno" delle nostre paure. "Nirgends ein Knistern, dass du (die Mutter des Kindes) nicht lächelnd erklärtest..." -  Da nessuna parte un crepitio che lei (la madre del bambino) non abbia spiegato sorridendo... Manca l'esperienza di un amore gratuito, in cui la madre e ad a suo modo il padre, affermano la singolarità e l'unicità del loro bambino. La capacità di esprimere prospettive diverse di interpretazione del mondo, la capacità di vedere il mondo come una casa accogliente dipende dall'esperienza concreta dell'amore gratuito. La capacità di vedere il mondo non solo come un mondo di oggetti, ma come esperienza personale, anche mitologica nel senso positivo del termine (cfr. Narnia, Perelandra), non dipende, cioè non è operata dal riconoscimento dell'altro, ma è svegliata da lui. Nessun uomo può donare ad un altro uomo il suo essere persona, dice con ragione Robert Spaemann, ma senza il riconoscimento il nostro essere persona è come addormentato.

Poi la vita è drammatica, anche per chi ha fatto questo esperienza del riconoscimento personale del proprio essere-se-stessi, ma senza questa dimensione dell'amore gratuito, non è per nulla sopportabile (per questo si cercano vie d'uscita: la dipendenza dal successo e dal mondo solo materiale - ma senza una "mater"). Un'esperienza ecclesiale che sia solo "istituzione", senza questa esperienza della gratuità dell'amore non può che essere un'ulteriore frustrazione. In mia moglie, che mi era presente nel leggere questo capitolo dell'abilitazione di Oster (III, 2a) vedo realizzata, anche nella nostra società del tutto secolarizzata, questa dimensione dell'essere madre - cioè di una persona che crea intorno a sé uno "spazio del riconoscimento", come "disciplina della lode" (Anton Schmidt) - ma anche lei da sola, senza il nostro unico vero Padre (San Alberto Hurtado) non può compensare una tale mancanza. 

PS Il tentativo di aprire le scuole tutto il giorno, quando non sono solo espressione di uno statalismo incontrollato, nascano certamente dall'intuizione di supplire a questa mancanza di esperienza personale gratuita di riconoscimento, ma allo stesso tempo ciò non riuscirà se non vi non sarà una reale educazione all'amore e non solo alla presenza nel territorio. 

(3.2.20) Essere-se-stesso ed essere-in-relazione non sono due aspetti separati dell'essere umano 

Il cammino che stiamo percorrendo con Stefan Oster è quello di "riformulare una comprensione della sostanza a partire dalla persona" (177). Per ora ci sono state due tappe importanti del cammino: Gadamer e Lewis. Entrambi ci hanno fatto comprendere che la persona è "aperta" all'altro, è disponibile ad una vera "comunione dell'essere presenti" (Gadamer) ed in quanto tale anche davvero se stessa. Mentre il filosofo tedesco, però, rimane ad un livello di ipostatizzazione del "discorso" stesso (il discorso o il dialogo come soggetto di una "inversione della coscienza", che corre il rischio di rimanere ancora una volta un "monologo"), in Lewis (professore di letteratura medievale e scrittore) abbiamo a che fare con una "conversione di tutto l'uomo" e con un esplicito assenso alla fede cristiana (mentre Gadamer si trova vicino alla fede). Solo l'incontro con il Dio d'amore, permette all'uomo di essere davvero un amante, "liberato" (reso capace di) per questa capacità di amare: liberazione che succede già all'inizio della nostra vita, quando come bambini viviamo immediatamente nel senso di una non contraddizione tra l'essere-se-stessi e l'essere-in-relazione - per esempio nel rapporto con nostra madre, con nostro padre o con un primo parroco che si incontra nella vita. Come ci dice Gesù: dobbiamo ridiventare bambini per entrare nel Regno dei cieli. 

L'esperienza personale non è identica con ciò che psicologia, sociologia, etc. intravedono come tale - queste scienze sono importanti, ma per loro natura sono scienze che catalogano, si esprimono in tabelle e statische, insomma cercano di "controllare" il fenomeno che studiano, mentre l'amore come esperienza personale non vuole assumere nessuna forma di controllo; in vero il peccato, più grande, come amante, è quello di costringere l'altro nei miei schemi e nei miei bisogni; la forma di "controllo" scientifico invece ha una sua esigenza legittima: posso davvero usare un cadavere solo per imparare l'anatomia; posso costruire schemi sociologici che mi permettono di comprendere la società in cui vivo e posso dialogare a livello di psicologia del profondo con l'altro per comprenderlo scientificamente e forse per guarirlo.  

Pur essendo il significato di "esperienza" decisivo per comprendere il pensiero di Stefan Oster, questi prende sul serio l'obiezione di Robert Spaemann: se si riduce la parola esperienza a ciò che si vive, anche ecclesialmente, nella speranza di riacquistare il significato originario positivo della vita si corre il rischio di incappare in frustrazioni, perché "la fede è per l'appunto la risposta ad un deficit esperenziale costitutivo,  in statu viatoris; ma non lo toglie" (cit. in ibidem 178). 

Una vera corrispondenza tra l'essere-se-stesso e l'essere-in-relazione ha un nome: gioia; questa è la meta ultima della vita e come si esprime Dmitrij Karamasow, senza di essa "il mondo non può essere e non può sussistere"; allo stesso tempo nelle tante forme di "curvatio in se ipso", in cui gioia e voluttà, gioia e piacere, si confondono, anche in modo legittimo, ma anche in modo perverso, noi perdiamo, come fa vedere con grande forza letteraria Dostjewskij, per esempio nei "Fratelli Karamasow", la nostra originaria capacità di vivere in modo (come chiamarlo?) "spontaneo" (automatico dice il vangelo di Marco), quello che da bambini, pur essendo nati nella disobbedienza (San Paolo), potevamo: fidarci dell'altro per essere noi stessi. Credo che oggi nella regione in cui vivo, molti non abbiano fatti questa esperienza; ciò li rende davvero poveri, anche se ricchi, ed e una delle espressioni più grandi di amore gratuito (caritativa) offrire come insegnanti o come amici la possibilità di fare quest'esperienza originaria di gratuità. 

(2.2.20) Come usare concetti, immagine e il linguaggio se la realtà ha una priorità sulle idee (e quindi su concetti, immagini e linguaggio), come pensano sia C.S. Lewis, sia Stefan Oster, sia Papa Francesco (e molti altri ancora)? 

In modo  particolare quando ci mettiamo in relazione con un altra persona, dobbiamo stare attenti a non ingabbiarla nei nostri concetti e nelle nostre immagini: il tu dell'altro è sempre anche un "lei", un "egli" con un suo "essere-se-stesso" libero che supera sempre l'immagine e il concetto che ci siamo fatti di lui/lei. Questa riduzione è lecita con un cadavere quando lo sezioniamo per scopi medici, ma non con una persona viva. "Non possiamo accasarci in immagini e concetti, e guardare più a loro che alla realtà stessa" (Stefan Oster, 167). Questo è il significato del percorso che abbiamo fatto fino ad ora con il vescovo di Passau alla scuola di Gadamer e Lewis: vogliamo essere davvero aperti e non fare solo monologhi. 

Essere aperto non significa non prendere sul serio ciò che Lewis chiama "tao" (la legge morale universalmente valida dell'umanità): alla scuola di Luigi Giussani, Robert Spaemann, Benedetto XVI, Adrian Walker ho imparato a non confondere pseudo spontaneità con libertà. Non vi è nulla di più non vero, a livello di moralità, che la "dittatura del relativismo" (Benedetto XVI); significa ciò che nel tao non possono esserci cambiamenti? Ci possono essere, ma dall'interno del tao stesso, come ci possono essere dei cambiamenti nel linguaggio, ma all'interno del linguaggio stesso: un grande poeta può cambiare il linguaggio, perché è interno al linguaggio stesso. 

Il modo autentico di muoversi nella realtà è la "partecipazione" - partecipazione a quel dono dell'essere che non è una cosa, o una "persona" ma che viene fatto da una Persona a persone. La posizione di Lewis dopo la morte della moglie non era del tipo: le cose sono buone perché Dio le vuole così e non perché siano in se stesse buone (tao); Lewis interpreta Dio come il grande iconoclasta delle immagini che ci siamo fatti, perché Dio è una Persona libera - ciò non significa che non vi sia un ordine nell'essere donato, ma che ciò che noi comprendiamo di questo ordine è sempre limitato, mentre Dio è "id quod maius cogitari nequit" (Anselmo). È ciò vale anche per noi uomini: le persone che incontriamo sono libere (questo vale anche per le "persone migranti") e noi non possiamo solo osservarle e analizzarle, come si fa per esempio con i cadaveri. Vi sono "leggi" anche per le persone libere e vive: Stefan Oster, alla scuola di Ferdinand Ulrich, Gadamer und Lewis (per far qualche nome) ci insegna che la grande tentazione degli uomini è quella di voler ridurre la realtà in immagini e concetti fissi una volta per tutte e di volerla dominare in virtù di questi. E intendere questa riduzione come "legge".

Lewis ci ricorda che nel club letterario chiamato degli "Inklings" si cercavano persone che usano il linguaggio per comunicare un pensiero e non lo usavano al posto del pensiero. Le mie meditazione sono un tentativo (!) di pensare realmente, non solo "per modum cognitionis", ma "per connaturalitatem quandam ad ea de quibus iam est iudicandum" (Tommaso d'Aquino).    

(31.1.20; Don Bosco) "La fede pensata non è la fede vissuta, il dolore pensato non è il dolore vissuto e le gioie pensate non sono le gioie vissute" (Stefan Oster riassume C.S. Lewis) 

Che cosa significhi vivere in carrozzella lo saprò quando ne avrò fatto esperienza, cosa significhi essere in un ospizio lo saprò quando ci starò (penso alla visita di Ferdinand Ulrich qualche giorno fa), etc. È questa forse la cosa più importante che ho imparato da Ferdinand Ulrich: il discernimento tra il concreto Logos universale e le forme di "logicizzazione" della realtà. Quello che Lewis dice di sua moglie, ancora viva, lo posso dire anche della mia: "La cosa più preziosa che mi aveva donato (sua moglie era morta quando ha scritto queste righe; rg) il matrimonio era questo continuo essere colpiti da qualcosa di molto vicino e che mi ispirava fiducia, ma allo stesso tempo di senza dubbio diverso e che esercitava resistenza - con una parola: la realtà" (ibidem, 1674).

La nostra fede, la nostra filosofa è spesso solo un "castello di carta" e Dio non ama i castelli di carta, ama noi ed Egli è il grande iconoclasta - lo dico con tutto il rispetto per le immagini e i concetti della filosofia. C'è un modo di vivere il lutto, dice Lewis che lo ha vissuto, in cui noi siamo appiccati alle immagine dell'amato, e non all'amato stesso. In fondo il grande lavoro da fare è quello del superamento dell'astrazione: sia quando parliamo di fede, sia quando parliamo di dolore (meglio essere cauti in ciò finché non lo si è veramente vissuto, diceva sempre il maestro domenicano di teologia del cardinal Schönborn ai suoi futuri sacerdoti), sia quando parliamo di gioia. 

(27.1.20) Solletico o trascendenza - come incontrare l'altro e come leggere davvero un libro? 

È possibile solamente se non si intende la nostra persona e il nostro essere-se/noi-stessi come uno  "statico stato dell'essere", invece che come un "compimento dell'essere se stesso nel ed attraverso l'altro" (un libro o una persona). Dobbiamo intendere il nostro essere noi stessi in modo "centripeto" (Lewis) e non "centrifugo" (Gadamer). Il primo è un movimento dalla periferia verso il centro, il secondo dal centro verso la periferia. Bisogna stare attenti, però, al "solletico", alle "associazioni" - la "chiesa in uscita" di Papa Francesco è un movimento centripeto e non centrifugo (la chiesa in uscita non è in fuga), perché è davvero un invito ad incontrare l'altro nella periferia, reale o esistenziale; l'altro non solletica il mio interesse, ma giunge davvero fino a me (e questo mutatis mutandis vale anche per l'incontro con un libro: se esso solletica solo il mio interesse, non ci sarà una vera appropriazione centripeta. 

In Lewis questo movimento centripeto, che fa si che venga sorpreso dalla gioia dell'incontro con l'altro e con l'Altro, non ha che fare con un essere ipostatizzato di cui si è perso il senso (Heidegger) o di un linguaggio ipostatizzato di cui si è persa la memoria (Gadamer), ma con Dio che è una reale Persona che dona gratuitamente l'essere e per questo è presente come "traccia" in tutto. Etty Hillesum ci fa comprendere che è anche presente in Auschwitz. È presente in una stanza di un ospizio che diventa luogo di rivelazione del cuore del mondo. Solo che noi dobbiamo superare la dimensione del "solletico" che si sostituisce ad un vero movimento di "trascendenza". Dice Lewis: "Nell'adorazione di Dio, nell'amore, nell'azione etica e nel sapere trascendo me stesso, mi disinteresso di me stesso proprio compiendo il mio essere-me-stesso. Questo tipo di "trasformazione" credo ci aiuterà a comprendere anche il mistero dell'eucarestia. 

Quando si ama, cioè quando si agisce e riceve, perché questo è l'amore, senza alcun "pretesa", "sono ciò che faccio" e "necessità" e "libertà" sono i due poli di una opposizione polare feconda e non una contraddizione. Quando "scelgo" cosa la Persona, che è Amore gratuito assoluto, ha pensato per me, nel senso degli Esercizi di Ignazio, sono davvero libero, perché seguo il senso necessario e personale dell'essere come dono che mi libera. Sono capace di una vera "decisione", che cambia il mio modo di pensare e di agire e non è solo lo "sviluppo continuo" di quello che sono in modo fisso e superficiale. 

Anche lo "stato di vita del cristiano" (ed in esso gli stati di vita dei cristiani) è da intendere come un momento oggettivo che non faccia cadere il mio io nei pseudo movimenti dell'istintività e della pressione sociale, insomma è un aiuto contro la logica del "solletico", ma non è la scusa per "installarsi" in una posizione umana incapace di vedere che in tutto e in tutti vi è sempre traccia di quella bontà, bellezza e verità ultima in cui Dio dona se stesso, donando l'essere. 

NB: questo movimento verso la gioia di Lewis ha, nel positivo senso del termine, una dimensione erotico platonica, forse non è ancora specificamente cristiano, ma come ci ha fatto vedere Benedetto XVI nella "Deus caritas est", vi è un'analogia tra "eros" e "agape"; tipicamente cristiano è il movimento della kenosis che discende fino all'inferno - senza questo movimento la gioia rimane alcunché di non sufficientemente universale (cioè non è speranza per tutti), ma senza le cose che dice Lewis sulla gioia, il movimento discendente può essere confuso per "masochismo": la meta ultima della donazione dell'essere è la gioia ! 

(24.1.20) Leggere libri e l'incontro con l'altro come "esperienza di un essere-se-stesso originario" 

Nella mia vita i libri sono stati così importanti (e lo sono tuttora) che quando qualche tempo fa ho decisivo di scrivere una mia vita intellettuale l'ho intitolata. "Libri ed altri ricordi"; mentre nella Siria degli ultimi otto anni vi è stata solo la guerra, cioè un tempo in cui forse non si ha tempo di leggere libri, qui da noi vi è stata la pace, un tempo dei libri. Per quell'esperienza del divenire ciò che noi siamo, con quella giusta dose di dimenticanza di sé e di lavoro con se stesso, in modo di poter incontrare l'altro, i libri sono indispensabili, almeno quando si ha una vita intellettuale. 

I libri aiutano ad approfondire ciò che C.S. Lewis chiama "looking along" che è qualcosa di diverso di "looking at". Lewis spiega questa differenza con un esempio: In una legnaia egli vede un raggio di luce e in essa i granelli danzanti di polvere, guarda "sul" (looking at) raggio di luce, per così dire. Ma nel momento in cui si trova "nel" (looking along) raggio di luce stesso e vede in esso e con esso, vede attraverso la porta appena aperta un albero con le sue foglie che si muovono al sole. Il secondo modo di vedere che oggi è andato perso, non è solo un sapere utile e oggettivato (savoir), ma un sapere-con, una comprensione intima (connaître), che richiede tempo e permette di ampliare il nostro sapere e la nostra esperienza, di superare il nostro provincialismo. 

Nell'epoca dei social media si legge molto, ma non in questo senso di un compiuto incontro con l'altro. Certo un libro non può sostituire l'incontro con l'altro e quando domenica andremo a trovare Ulrich con la possibilità che lui dorma, visto che ha avuto un ictus, questo incontro sul letto, forse, di morte non può essere sostituita da nessun lettura dei suoi libri, anche se i libri, ed in modo particolare i suoi, sono davvero una possibilità di crescita, di immedesimazione e di vita riuscita.  

(22.1.20) Il riconoscimento dell'essere-se-stesso dell'altro è sempre un atto di libertà. Robert Spaemann 

Questo vale anche nel lavoro; se nel lavoro non si riconosce l'essere-se-stesso dell'altro, se non si valorizza la libertà dell'altro, allora l'unica possibilità rimasta è la fuga - fuga esterna o esilio interno. Se nel lavoro  si esprime solo un equilibrio di potere, allora ci troviamo in un'esperienza totalmente opposta a quella dell'amore: "loro (le persone che amano veramente) ci amano di più, hanno bisogno di meno di noi" (C.S. Lewis) - in altre parole, in una situazione di estraneità lavorativa, siamo necessari, ma non riconosciuti nel nostro essere-noi-stessi.  L'obbedienza, se non può essere usata in modo identico a come usiamo la parola la libertà, non ha più nulla a che fare con l'ascolto (in tedesco la parola obbedienza, Gehorsam ha un significato semantico simile a quello dell'ascolto, hören)  dell'essere-se-stesso dell'altro: è obbedienza cadaverica, ma i cadaveri non contribuiscono alla creazione di un lavoro significativo, come  lo è la gioia creativa. Certo, per chi crede vale anche, o forse anche principalmente, che nella sofferenza  - "Dio sussurra nelle nostre gioie, parla nella/con la nostra coscienza, ma nel nostro dolore grida ad alta voce. La sofferenza è il suo megafono per svegliare un mondo sordo" (C.S. Lewis) -  può esservi un'esperienza di trasformazione di sé in ciò che si è profondamente, ma non la croce, la gioia il fine dell'azione umana. 

L'essere persona è questa capacità ultima di trasformare se stessi in ciò che si è. Ciò non accade per un nostro merito, ma per grazia - così é qualcosa che può accadere anche in una persona che è malata di Alzheimer. Henri de Lubac ci ha fatto comprendere che la "costruzione" di una "natura pura" non deriva da Tommaso d'Aquino, ma da tomisti posteriori a lui. Tommaso ha sempre parlato di un "desiderio naturale" di Dio, che è a sua volta grazia e non pretesa. Dio non ci deve niente, perché di fatto l'amore stesso non è mai nella modalità di un "dovere". In un certo senso la "grazia" implica una "morte" dei nostri desideri, anche se rimane vero, che "gratia perficit naturam, non tollit"; secondo me Ferdinand Ulrich meglio di tutti ci ha permesso di comprendere che il "perficit" passa attraverso una morte, ma nella modalità dell'unità del "vivere e morire"; quando si incontra l'altro si deve sempre "negare" ("morire") il nostro egoismo, ma non il nostro essere-noi-stessi. Tanto meno per incontrare Dio, l'Altro, dobbiamo negare il nostro essere-noi-stessi, perché Dio è colui che ci dona il nostro essere-noi-stessi. Ed anche tutta la creazione, nella sua dimensione pre-personale, che però come giustamente dice Spaemann può essere compresa solo in modo "antropomorfico", non è segno, nel senso di una riduzione distruttiva della cosa stessa nel suo essere solo segno. La realtà, sottolinea con ragione Stefan Oster, non viene assorbita in modo cattivo in Dio; nella donazione dell'essere non accade "un pseudo trascendere del concreto, che viene solo usato per essere gettato via e lasciato alle nostre spalle. Un'esperienza che abbia i connotati cristiani è piuttosto quella che in tutto (Ignazio di Loyola) si può trovare Dio". "La trascendenza senza trascendenza" di Ernst Bloch è ovviamente un costrutto ateistico, ma il suo messaggio è decisivo anche per noi cristiani: in tutte le cose, in tutti gli animali, nelle piante e nelle persone vi è questo mistero ultimo della donazione dell'essere, in un certo senso "anche nel peccato", confessato e non giustificato.  Per questo la realtà non è solo in funzione del suo trascendere, è questo suo trascendere stesso, è movimento, avvenimento.  


(20.1.20) Per superare i monologhi filosofici e l'astrazione della legge

Per superare tutto ciò è necessario l'incontro con l'altro e con il tu, che è sempre anche un "egli", "lei" (Ferdinand Ulrich). Ho un amore "spontaneo" per la filosofia ed un rispetto "dovuto" per la legge, ma non ho mai creduto che un monologo o un'astrazione mi salvino. Infine può salvarci solo un Dio, ma come filosofo sono attento a tutta la realtà e capisco molto bene cosa C.S.Lewis con i suoi esempi concreti (un buon vino, una donna) ci vuole dire. Nel bosco vicino a casa, in primavera, quando ancora il percorso è libero da troppi rami, posso giungere ad una piccola cascata d'acqua: il suo gorgogliare e la luce del sole in mezzo ai fitti rami, non sono solo "natura", ma dono personale per me. Come lo sono i volti dei ragazzi e delle ragazze a scuola. Come lo è il volto di mia moglie, etc. La gioia che dona un buon bicchiere di vino, il volto di una donna, la pera che ho mangiato questa mattina sono "doni personali", in vero sono differenti "gioie" che interpretano quella gioia propria alla "gloria" (Herrlichkeit) che si rivela nell'essere donato. Vi sono gioie "proibite", ma non nel senso che una mela rubata sia meno buona; il sacrilegio è appropriarsi di un dono che chi dona l'essere non ha fatto a te - così argomenta con ragione Lewis. Per non cadere in questi sacrilegi  abbiamo bisogno anche del "tao", cioè di norme che non dipendono da un contesto solo sociale o psicologico. Riassumiamo filosoficamente con Stefan Oster: "il volto personale della creaturalità viene interpretato e sperimentato come traccia del donatore personale in esso" (ibidem, 145).

In queste ore si dibatte se sia legittimo o meno che Benedetto XVI porti il titolo di "papa emerito" e si vesti con il vestito bianco di un papa. Vi è ovviamente una dimensione canonica del problema, per cui ieri dopo la lettura del lungo testo di padre Gianfranco Ghirlanda SJ (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350455.html?fbclid=IwAR08ZWJjkehTC8eDHftiBSqkVRlu3KyYTvxeqFDHGhWTyHmE4akIbL-95tY) sul tema ho scritto nella mia bacheca in Facebook: 

"Credo di aver compreso l'argomentazione del gesuita, padre Ghirlanda: non è più Papa (chi si è dimesso) perché l'autorità papale gli viene direttamente da Cristo nella sua elezione come papa e non nella sua elezione come vescovo. Il titolo "emerito" nell'università significa anche che non si è pie professori ordinari di una cattedra. Credo che si dovrà chiarire, dopo la morte di BXVI, questa faccenda a livello canonico; comunque ora dobbiamo essere tutti molto misericordiosi con tutti i protagonisti di questa storia così nuova (anche se c'è stato il caso di Celestino)".

In vero, però, vi è anche la decisione di Benedetto XVI da prendere sul serio - che questa venga interpretata come la possibilità di un "anti papa", è vero solamente per chi non ha ascolta attentamente il vescovo di Roma emerito. Ascoltiamo qui il suo breve discorso per il sessantacinquesimo del suo sacerdozio, in cui dice che lui si sente protetto dalla bontà del Santo Padre, Francesco: https://www.youtube.com/watch?v=L2ynvDd56Zo&feature=youtu.be&fbclid=IwAR1pG86dJIuBuO4krRFKF0MnutebCUf7uYv1gfnJeeFrUPV5EZhN6EEzYVE.

Proprio tenendo conto delle argomentazioni del diritto canonico riprese dal padre Ghirlanda è chiaro che se si vuole tenere conto in modo particolare del fatto che «La prima sede non è giudicata da nessuno» (c. 1404), Benedetto XVI si è trovato a fare una scelta che la sua libertà teologica ha espresso con la decisione di portare l'abito bianco e di prendere il titolo di "papa emerito". Ora questa sua decisione è per me "normativa", in primo luogo a livello "ontologico" e non canonico (vedremo cosa faranno i canonisti) e non l'affronto né con un monologo filosofico né con l'astrazione della legge. Non mi posso immaginare Benedetto XVI se non proprio come si è dato in questi anni di reale "silenzio" (non di mutismo). Io credo che con la sua decisione Benedetto XVI abbia voluto esprimere una questione ontologica di donazione dell'essere e non primariamente giuridica. 

Sulla questione specifica del celibato dei sacerdoti non voglio entrare; nella mia bacheca l'altro giorno ho scritto: 


La questione del celibato dei sacerdoti è troppo complessa per un post in questo grigio sabato pomeriggio - poi non vorrei partecipare alla miriade di persone che sanno sempre tutto su tutto. Ma un argomento non mi convince per nulla. Quello che l'abrogazione del celibato darebbe sacerdoti alla Chiesa. I sacerdoti alla Chiesa li dona Cristo, non un'operazione o strategia clericale. Qui in Germania possono diventare sacerdoti, nella Chiesa luterana, uomini sposati e donne sposaste, eppure non è che vi siano file di persone che vogliono diventare "pastori". E tanto meno file di credenti senza pastori. Per quanto mi riguarda, se penso a un pastore luterano come il mio confratello Michael Greßler o al sacerdote ortodosso Alexander Schmemann, mi sembra del tutto chiaro, che può esserci anche un ottimo sacerdote sposato, ma come dicevo la questione è troppo complessa, per essere decisa in questo pomeriggio grigio, dal piccolo amico di Gesù che sono. 


(17.1.20) Realtà come alterità con un volto personale

Il passaggio che fa Stefan Oster da Gadamer a C.S.Lewis è per me il passaggio dall'apertura di un intellettuale, certamente prestigioso, per l'appunto con un grande desiderio di apertura e dialogo ad un uomo davvero aperto nel senso più olistico del termine; in quasi trent'anni di inserimento l'autore anglicano mi ha permesso, con le sue cronache di Narnia, di comunicare importanti verità del cristianesimo, in primo luogo quella del sacrificio di amore gratuito di Cristo (Aslan) per noi uomini.  

Il C.S.Lewis che ci presenta Oster ci fa riflettere su una dimensione filosofica decisiva per la nostra meditazione quotidiana: abbiamo bisogno, per diventare ciò che siamo, del volto personale dell'altro. Per disinteressarci davvero di noi stessi, che è uno dei momenti decisivi per diventare ciò che si è, abbiamo bisogno dell'altro. La terminologia che usa C.S. Lewis per farci comprendere ciò non è immediatamente evidente e deve essere spiegata. Dobbiamo capire cosa egli intenda con le parole "enjoyment" (divertimento) e "contemplation" (contemplazione): vengo a sapere che un amico si trova ora nell'ospizio. Enjoyment ha a che fare con la prima parte della frase: "vengo a sapere". E "contemplation" con "un amico che si trova nell'ospizio". Semplifichiamo: vengo a sapere qualcosa. "Vengo a sapere" = enjoyment; "qualcosa" = contemplazione. Enjoyment si riferisce a se stessi, contemplation all'oggetto. Ma questa differenza non è uguale alla differenza di Husserl tra "noema" (contenuto della conoscenza) e "noesis" (pensiero, conoscenza), perché la differenza husserliana si svolge nell'autocoscienza, mentre quella di Lewis nell'incontro con l'altro. 

Lewis prende sul serio la dimensione del desiderio e sa che la vera spontaneità la si vive quando si è davvero rivolti all'altro: sento intensamente il dolore di un amico che si trova a letto nell'ospizio, non quando ci rifletto sopra filosoficamente, come sto facendo ora, ma quando la notizia mi giunge e mi immagino che questo mio amico ora non può più muoversi, né mangiare da solo. Sento il fascino di una donna quando la mia attenzione è rivolta a lei, nel momento in cui incomincio a riflettere su di lei o su quello che provo, si affievolisce la forza dell'impatto. 

Non credo che sia bene riflettere solamente su ciò che ci attira, anzi credo che sia im portante "rimanere", senza paura, in ciò che ci attrae, ma allo stesso tempo dobbiamo cercare di comprendere cosa accade davvero nell'attrazione. Che cos'è il desiderio?
"Tutte le immagini e le sensazioni, se le ho confuse idolatricamente con la gioia stessa, hanno presto ammesso onestamente la loro inadeguatezza. Alla fine tutte hanno detto: "Io non lo sono". Sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Cosa ti ricordo?"" (C. S. Lewis).
Dobbiamo imparare a rimanere con il nostro sguardo e il nostro ascolto nella persona che ci ha attratto e che non è identica con le "immagini e le sensazioni" che solleva in noi e che potrebbero essere anche solo egoistiche; "rimanere" in quella persona implica certo anche un momento di "verginità" (distanza), ma senza perdere tutta la forza di ciò che ci attrae: quella persona è un nostro compagno di viaggio verso il destino. Questo vale per un amica, per un amico ed anche per la nostra sposa, sposo. Nel matrimonio il "rimanere" diventa anche il "diventare una carne sola", ma sempre nel rispetto della persona dell'altro. Ma anche senza nessun moralismo: "Il modo più sicuro per disarmare una rabbia o un desiderio era quello di distrarsi dalla ragazza o dall'insulto e cominciare a esaminare l'emozione stessa. Il modo più sicuro per guastare un piacere è stato quello di cominciare a esaminare la propria soddisfazione." Etty Hillesum nel suo rapporto con S. ci insegna a "rimanere" nel piacere e non solo a riflettere sul piacere, senza paura che tutto posso portare al peccato. Per quanto riguarda quest'ultimo, siamo comunque tutti "nella disobbedienza" e la riflessione non è meno pericolosa del piacere. Per rimanere "vergini", nel senso positivo del termine, ma anche per quanto riguarda l'eros, nel senso positivo del termini, è necessario non perdere di vista che l'altro che ci attira è sempre una persona. La pornografia (quando non si tratta di sadismo) non è primariamente problematica per quello che fa vedere, ma perché le persone sono ridotte ad un oggetto. 

Pian piano dovremo anche comprendere la dimensione davvero personale della gioia personale che cerchiamo e desideriamo con tutti noi stessi. 

(16.1.20) Come mai i cristianisti tradizionalisti non possono comprendere Papa Francesco - motivo filosofico 

Il motivo più semplice è che di fatto non prendono sul serio il Vangelo, in tutti i suoi aspetti; ma legato ad esso, in modo del tutto intimo, vi è anche un motivo filosofico. In questione è la comprensione di cosa sia "sostanza", che di fatto per Aristotele ultimamente è la persona singola (e non l'uomo che è una sostanza seconda). Josef Seifert, il filosofo tradizionalista cattolico che ha criticato ultimamente il pontefice, aveva in anni precedenti criticato anche Hans Urs von Balthasar per la sua comprensione di cosa sia una persona. La critica suonava sinteticamente così: in Balthasar ci sarebbe una sopravvalutazione di ciò che è "relazione" nei confronti di ciò che è "sostanziale". Stefan Oster ci fa invece comprendere che il problema di questa "critica" sia la non comprensione del fenomeno elementare che "la persona come sostanza può essere allo stesso tempo compresa come rapporto, cioè come relazione in se stessa". Balthasars e Oster non contraddicano il "principio aristotelico di non contraddizione", che afferma che non si possono affermare nello stesso tempo due cose contraddittorie, ma pensano in modo "polare", cioè pensano nel senso di quella opposizione feconda, in cui si trovano sostanza e relazione, per il motivo stesso che esprime Robert Spaemann e cioè che di persona si può parlare solo al plurale. Per il Papa i migranti non sono "sostanze seconde" (l'essere umano) o addirittura "terze"(lo straniero), ma per l'appunto sostanze prime: cioè persone. 


Pensare la „sostanza“ in contraddizione alla „relazione“, piuttosto che in un suo rapporto polare significa difendere un qualcosa che viene minacciato da qualcosa altro, invece che pensare l’altro, in questo caso, la relazione, come un arricchimento fecondo. 

Infine la "relazione" è propria alla sostanza stessa nel senso che la sostanza non è alcunché di statico, ma è frutto di una "Frei-Gabe", di un dono che rende libera la sostanza di diventare ciò che è. Il secondo passaggio che fa Oster, dopo essersi confrontato con la filosofia ermeneutica dell'apertura di Gadamer, è quello della "gioia", con C.S. Lewis: il processo del diventare ciò che si è non è il procedere di un funzionario che per l'appunto segue solo degli ordini a lui esteriori, ma è un processo di gioia in gioia, di una sostanza, di un io che viene sorpreso dalla gioia. 

Per quanto riguarda la questione storico giornalistica e linguistica, se sia opportuno non usare la parola "tradizionalismo" per rispetto al dinamismo della "tradizione" (tradere), usando piuttosto il termini "conservatorismo reazionario", direi che in vero sia il cristiano che l'uomo pensante sono persone che sanno ereditare una tradizione e sanno conservare; l'importante è mettersi d'accordo che qui si intendeva criticare quel movimento mondiale "teo con", "cristianista" che sta cercando in tutti i modi di ostacolare il lavoro del pontefice argentino, vescovo di Roma e vicario di Cristo, dandone una spiegazione filosofica. 

(15.1.20) Cosa significa essere una persona?  

L'idea che si è una persona quando si è capaci di superare i propri limiti spazio temporali ed anche, in un certo senso, la "natura" che si ha (non che si è) è di grande aiuto, per esempio per comprendere il fenomeno della "promessa": io prometto ad un'altra persona di esserle fedele, pur non sapendo cosa accadrà ed anche al di là delle possibilità o dei limiti spazio temporali (la promessa può essere stata fatta in un altro paese e/o in una età giovanile) o non potendo anticipare il "come" della realizzazione che ogni persona ha dei bisogni della natura: per esempio nel bisogno sessuale, che potrebbe non procedere in modo "simmetrico" o nel desiderio di ricchezza o di salute. 

La sostanzialità della persona quindi viene compresa da Stefan Oster come questa capacità personale di mantenere una promessa. Si tratta di una forza dinamica; allo stesso tempo, da grandi filosofi come Heidegger o Scheler è stata fatta l'obiezione che questa idea di "sostanza" per l'uomo è una prigione pseudo oggettiva che non permette, le chiamerei così, variazioni di libertà soggettiva. Insomma nell'idea classica di "natura" e di "sostanza" di Tommaso che Oster difende si sosterebbe di fatto ha un troppo di "ricezione" ed un troppo poco di "spontaneità". 

Io so ed intuisco - per questo leggo primariamente Oster e non Scheler - che ciò che davvero è in gioco nell'atto puro della donazione dell'essere è una comprensione della gratuità come atto di amore che non imprigiona l'uomo, ma lo libera; eppure nel corso della lettura di questo lavoro del vescovo di Passau voglio approfondire la critica che è stata fatta al concetto di "sostanza". Per ora comprendo che non  è alcunché di statico, ma di massimamente dinamico: è un "dono" donato per amore da un donatore che dona se stesso nel dono e permette alla "sostanza donata" di diventare ciò che è. Per quanto riguarda la donazione stessa essa non dona se stessa, ma è l'atto in cui un donatore infinito si dona così che la persona donata lo possa imitare nel suo "diventare ciò che è". 

È legittimo chiedersi come mai sia necessario nella modalità di un "diario" come il mio riflettere su un tema così astratto come la differenza reale tra la donazione e la sostanza donata, tra la donazione (l'essere come dono) e il donatore divino. Lo spiego con un esempio: dono una rosa a mia moglie. Non posso insistere troppo sulla donazione (che razza di dono sarebbe quello in cui faccio pesare il fatto di averlo fatto) e di fatto Tommaso dice che essa è "niente", ma qualora mia moglie vedesse la rosa e la trattasse come un oggetto che è semplicemente ora presente nella sala, tradirebbe il senso ultimo del mio dono e fra qualche giorno, quando la rosa sarà appassita, tutto sarà finito. Ed io come donatore sarei semplicemente uno che ha aumentato la spazzatura nel mondo. Questo, però, non è vero! L'atto di donazione nella sua semplicità e completezza sarà ancora vero, anche quando la rosa sarà del tutto appassita e verrà gettata nella spazzatura. 

La persona è anche colei che sa ritenere come vero un atto come la donazione dell'essere che supera tutti i limiti spazio temporali, nella sua semplicità e completezza. 

(14.1.20) Il mistero del dono dell'essere e la "missione" (Sendung) del Figlio 

Quello che stiamo imparando da Stefan Oster (Ferdinand Ulrich) sulla donazione a livello ontologico ha una dimensione ultima cristologia, in quello che Adrienne von Speyr chiama la "Sendung" del Figlio da parte del Padre: il Suo essere mandato. A livello cristologico vi è la tentazione di fissarsi su "colui che è mandato" (il Figlio), mentre si dimentica chi manda (il Padre) e l'atto del mandare (la missione, la Sendung): "ma la verità del Figlio si trova proprio in questo suo venire dal Padre e proprio in ciò si trova il suo essere la verità" (cfr. Adrienne von Speyr, Commento al Vangelo di Giovanni, 7,28). Come noi a livello ontologico ci fissiamo sulla "sostanza" donata e non vogliamo saperne nulla di Chi dona l'essere e del dono dell'essere come tale e non ne vogliamo sapere nulla, perché è quella dimensione ultima di gratuità ontologica (non sentimentale), che a causa del peccato è stata profondamente nascosta (anche se non totaliter). 

(11.1.20) Sul mistero del dono dell'essere 

La donazione dell'essere non è una questione di quantità - è un atto di amore completo e semplice, come sottolineano Tommaso d'Aquino, Ferdinand Ulrich e Stefan Oster (tra gli altri); la donazione dell'essere in una coccinella o nell'uomo non è da comprendere in modo quantitativo, anche se l'uomo ha più nobiltà di una coccinella, si tratta dello stesso mistero di donazione dell'essere; per questo motivo l'impegno dell'uomo per la nostra "casa comune", la natura, ha una sua ultima legittimazione ontologica: tutto ciò che esiste partecipa del mistero del dono dell'essere nella sua gratuità ultima. La differenza la si percepisce nel paragone tra le sostanze - vi è una reale differenza tra la donazione dell'essere e la sostanza, ma la differenza tra le sostanze ha che fare con la somiglianza che una certa sostanza ha con l'intenzione e la causa ultima della donazione dell'essere che è l'amore; vi è più amore in un uomo che in una coccinella, perché la forma dell'uomo è più nobile di quella di una coccinella (non la materia in primo luogo). La forma dell'uomo è la sua capacità intellettiva e amorosa, anche se non si è uomo solo quando si comprende e si ama; si è uomini anche quando si dorme, sebbene: "dormiens enim, quia non actu sentit vel intelligit, non perfecte vivit, sed habit dimidium vitae" (Tommaso d'Aquino). 

L'essere come dono è semplice e completo, ma non è sussistente, per cui è chiaro che non può essere spiegato in sé, quasi che l'essere fosse un'ipostasi per se stessa; piuttosto è vero quello che dice Robert Spaemann: "La vita è l'essere paradigmatico accresciuto o originale." (citato in Oster, ibidem 120) La vita cosciente è l'essere paradigmatico", tanto che "la vita come tale non può essere o non essere. Essa è l'essere", anche se  la parola essere sembra essere o forse è alcunché di più esteso che la vita, ma questa dipendenza ermeneutica dell'essere dalla vita è espressione di quel mistero ultimo che la donazione dell'essere non è dominio, ma "servizio" ed in sé non è "niente", come abbiamo spiegato ieri. 

In questo modo ci avviciniamo a quel mistero ultimo che è la persona come "individuum rationalis naturae": la persona è ciò che vi è di più perfetto in tutta la natura, perché nella persona nel modo più nobile si rivela l'intenzione ultima della donazione dell'essere, senza per questo scadere in una concezione quantitativa del dono dell'essere: in un concerto, per riprendere il paragone musicale che fa Oster, non vi sono differenze a livello di partecipazione al concerto stesso: ovviamente in un concerto per piano ed orchestra il piano ha un ruolo più nobile che il triangolo, ma entrambi suonano lo stesso concerto. 

L'enciclica di Francesco, "Laudato si'", in dialogo con i suoi predecessori ci richiama anche  al mistero del dono dell'essere, rinviando ad alcune  parole di san Giovanni Paolo II, che nella "Centesimus annus", ci ricordava, che "la capacità dell'essere umano di trasformare la realtà deve svilupparsi sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio". Oster ci sta facendo capire il senso profondo di "questa donazione delle cose" e ci sta facendo comprendere che vi è una dimensione personale ultima nella "donazione delle cose". Per questo, con ragione, il Papa (Francesco), rinvia alla preoccupazione paterna di Papa Benedetto XVI che vede la questione ecologia profondamente unita con quella antropologica: "con paterna  preoccupazione ci ha invitato a riconoscere che la creazione risulta compromessa "dove noi stessi siamo le ultime istanze" - la donazione del dono della vita all'uomo, nella modalità di un processo in cui l'uomo diventa quello che il donatore con il  dona voleva, è la risposta ultima a questa esigenza di Benedetto XVI. 

Quello che stiamo cercando di riflettere sul mistero della donazione dell'essere può aiutarci a comprendere cosa significhi libertà sia nel dibattito cristiano che in quello islamico (cfr. Klaus von Stosch, Islam, Paderborn, 2017, 119-126: "zum Ringen um die menschliche Freiheit"). Von Stosch afferma che il dibattito sulla libertà e l'onnipotenza di Dio ha tantissimi paralleli islamico cristiani e che forse solo negli ultimi tempi, in ambito cristiano vi è più disponibilità a prendere sul serio quella che Massimo Borghesi chiama "la legittimità critica del moderno", che eredita in ambito cristiano quello che la scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno) chiamava la "dialettica dell'Illuminismo". Oster ci permette, però, di comprendere che la concezione classica della metafisica (Aristotele, Tommaso), permette, più di quanto sia disposto ad ammettere von Stosch, che cosa sia la libertà: donazione dell'essere è sempre anche donazione della libertà all'uomo di diventare ciò che è: un uomo libero che risponde liberamente all'amore di un Dio libero. Perché la sostanza massima, a livello dell'essere finito, è sempre la sostanza di un uomo che sa amare e pensare: la sostanza come persona.   

(10.1.20) Cosa è una sostanza? 

In primo luogo essa, secondo Tommaso d'Aquino, Ferdinand Ulrich e Stefan Oster (ovviamente anche altri) è la meta ultima della donazione dell'essere: l'essere ci viene donato non in una pseudo sussistenza dell'essere stesso (di cui poter ripiangere la mancanza), ma nella " sostanza concreta e finita" - questo albero, questo cavallo, questo uomo. Per questo Ulrich parla di una "Subsistenzbewegung" o di una "Verendlichungsbewegung": la sussistenza dell'essere non è l'essere, ma appunto la sostanza finita e la donazione dell'essere è da intendere come un "movimento di sussistenza" (Subsistenzbewegung), come un "movimento in cui l'essere come amore si rende finito" (Verendlichungsbewegung). Il passaggio dalla potenza all'atto non ci permette di comprendere di cosa stiamo parlando, perché l'essere è "actus purus"; l'essere come amore che si dona è donazione pura. Il correre non corre, ma un corridore corre; l'essere non è sussistente, ma lo è la sostanza in cui l'amore si concretizza. La sostanza ha l'essere nella modalità di una ricezione dell'essere; questo amore puro è il fondamento della sostanza, ma il fondamento non ha un fondamento: è un puro flusso, senza il quale però le sostanze non sarebbero. La ricezione stessa, però, non è da intendere come qualcosa di "passivo", di "statico": in forza della dinamica della donazione stessa la sostanze può diventare ciò che è. 

L'essere (non l'essere assoluto di Dio, di cui ora non stiamo parlando) non ha sussistenza: questo non È un annuncio nichilista, come stanno comprendendo anche gli astrofisici, ci ricorda Oster, che intendono  il "nulla" come "energia massima": "dobbiamo liberarci dall'idea che il nulla sia vuoto" (Günther Hasinger, astrofisico), "al contrario: ciò che noi definiamo essere "niente", è lo stato energetico massimo dell'universo" - il big bang è l'aprirsi di un baccello - è un' esplosione di energia, come lo è l'amore gratuito. Non vi è nulla di più potente che l'amore gratis!  

(9.1.20) È possibile per un credente fare una reale esperienza, essere davvero aperto ad un dialogo? 

Chi ha ridotto l'essere in un oggetto (la parola di Dio, la realtà, la natura...), che vuole essere "risposta" a tutti i problemi, sembrerebbe non poter fare una reale esperienza, in cui si impari qualcosa di nuovo o dialogare con un altro/ con altri/ con l'altro in modo aperto e non dogmatico. Questo comunque il sospetto di molti nell'era moderna e postmoderna. Oster ci sfida su questo punto è mette in evidenza i suoi maestri: Ferdinand Ulrich, Hans Urs von Balthasar, Klaus Hemmerle, Gabriel Marcel, Ferdinand Ebner ed altri. L'essere non è una "cosa", che può venire dimenticata, ma un "atto", che è radicale donazione. La creazione non è una fabbricazione di cose, ma un atto personale. Senza questo atto di radicale donazione non vi è alcuna "esperienza", ma solo "mutamenti casuali" (Darwin) che vengono "realizzati" come si realizza un "piano senza pianificatore". Insomma non la fede, ma l'opzione ateistica moderna si rivela come "dogmatica" - questa si, che sa già tutto: sa cosa sia la parola di Dio (per esempio un inganno; Reimarus), la realtà (un' astrazione, Darwin, Marx, Nietzsche) e la natura (un'invenzione filosofica); sa addirittura cosa sia l'essere (Heidegger) e il linguaggio (Gadamer). Gadamer ha una filosofia, aperta alla fede, come l'ultimo Habermas, ma in qualche modo non vuole o non può esplicitare il nesso ultimo e vitale tra teologia e filosofia.

Il dono dell'essere presuppone chi dona e colui a cui viene donato qualcosa o qualcuno. In se esso non è "nulla", ma non un "niente" nichilista, ma un nulla nel senso della "gratuità". Quando dono una rosa, l'atto della donazione è nello stesso tempo "essere" e "nulla". Dio è essere assolutamente sussistente e la rosa è un essere relativamente sussistente, come sono un essere relativamente sussistente chi dona e chi riceve il dono. L'atto della donazione è qualcosa di "semplice e completo", ma "non sussistente" (Tommaso d'Aquino). Quando si perde il senso della semplicità e completezza della gratuità tutta la realtà diventa davvero un oggetto incomprensibile. L'atto della donazione dell'essere è il presupposto perché vi sia una reale esperienza ed un reale dialogo. Dio non dona in modo avaro: egli dona completamente e radicalmente separandosi da ciò che dona, ma allo stesso tempo essendo presente in ciò proprio nella modalità della separazione: Egli dona se stesso, non cose. Egli dona una realtà che è capace di diventare se stessa (evoluzione) e dona in modo particolare l'essere dell'uomo come un essere libero capace di diventare ciò che è. 

La parola di Dio non può che dire se stessa (inscriversi) all'interno di questa donazione dell'essere. Per questo è "dinamica" e non una risposta a tutto, che uccide le domande. Il linguaggio dell'essere come dono deve poi venire tradotto nelle parole che gli uomini si scambiano, se no si corre il rischio di un linguaggio ipostatizzato (come quello che si usa in un certo gruppo chiuso di persone; è spesso la tentazione degli ordini e dei movimenti ecclesiali), che davvero rende impossibile ogni dialogo ed ogni esperienza. Tutte queste differenze ed in modo particolare la differenza tra Dio e l'atto dell'essere permettono una rivelazione libera di Dio ed un accoglimento libero di questa rivelazione. Vi è una Schwebe (fluttuazione, sospensione) cattiva (Ferdinand Ulrich) che è però una pseudo fluttuazione, è piuttosto un'indecisione che si sostanzializza; ma vi è anche una Schwebe buona (Ulrich usa la parola nel senso cattivo, Balthasar in quello buono): nella donazione come atto, Dio si dona realmente e l'uomo riceve realmente questo dono: questa donazione non è un'oggettività incarcerante, ma una reale donazione di un essere-se-stesso che può diventare-se-stesso: "Tu sei poi tu stesso, presso te stesso, se fai e compi ciò che sei" (Ulrich). Questa donazione "non è qualcosa di sostanziale e sussistente, ma la pienezza fluttuante dell'essere di Dio nella modalità, nella "condizione" del suo essere donato ad uno che riceve in quanto finito" (cfr. Hans Urs von Balthasar in dialogo con Ferdinand Ulrich).

(8.1.20) Stefan Oster, che pian piano cerca di andare oltre Gadamer, ci fa fare nella sua "abilitazione", che stiamo meditando, alcuni passi, che sono per me fondamentali, per comprendere cosa sia davvero un'esperienza. 

1. In primo luogo: senza i tratti personali dell'altro, non è possibile fare un'esperienza, ma semplicemente lo si assume nella propria "coscienza", in quel modo monologico di Hegel, che vogliamo superare nella dimensione di un vero dialogo. Quando si incontra davvero un altro, cambia il nostro atteggiamento: quello che l'altro vuole da me, non è anticipabile dalla mia "coscienza", dalla mia "riflessione". Guidato dall'amore gratuito non metto l'altro nel cassetto della mia coscienza e neppure dell'avvenimento come un "esso" che risucchia ogni tu, senza concedergli di essere un "egli" e un "lei". 

2. Con Gadamer possiamo capire bene cosa sia l'arte e il gioco e come essi siano imparentati con la fede: "ogni opera d'arte ha sempre qualcosa di sacrale in sé", come lo ha un "gioco", quindi in vero non esiste il problema che l'arte possa mettere in dubbio la realtà con il suo "cosi è" - anzi è forse possibile con una buona opera d'arte ("buona" è ridondante, perché l'arte non può che essere buona) giungere alla verità personale di qualcuno più che scrivendone una "biografia". Arte e gioco sono modalità di un'esperienza personale. Gadamer ne trae da tutto ciò anche una conseguenza molto attuale: "La distruzione di opere d'arte è come un assalto in un mondo protetto dalla santità". 

3. Vi è esperienza solamente se sono in gioco "persone" con la loro "indipendenza" dal nostro "piano", dalla nostra "coscienza" e dai nostri bisogni. E tutto ha un carattere personale, anche la natura, anche la materia; quindi ha ragione il Santo Padre Francesco ha ricordarci che dobbiamo fare una reale esperienza anche con la natura, con la nostra casa comune, rispettandone le tracce personali che sono in essa e quindi la sua indipendenza dalla nostra volontà di dominio tecnico. 

4. Con ragione dice Oster che Heidegger e Gadamer ipostatizzano l'essere o il linguaggio, senza comprendere che l'unica perdona assoluta è colei che ci dona anche l'essere e il linguaggio: l'essere non è una cosa, come non lo è il linguaggio; non sono un "esso". L'essere, come anche il linguaggio, sono "dono". Un dono che non si cosifica, ma che rende liberi; colui che dona l'essere e il nostro essere noi stessi, ci dona la libertà di diventare quello che siamo /dona la libertà di diventare cosa si è: sia nell'evoluzione per quanto riguarda la natura, sia nella storia per quanto riguarda il nostro agire. Pian piano cominciamo a comprendere cosa sia un'esperienza ontologica.

(7.1.20) Il vero problema di Gadamer è come discernere tra pregiudizi che non portano ad alcuna conoscenza e pregiudizi che sono l'inizio del processo di conoscenza; come distinguere tra l'interpretazione metodica e la verità (così è); se Oster ha ragione con la sua critica allora Gadamer tende ad interpretare all'infinito ed ha un criterio solo, quello della "distanza del tempo", che però ovviamente non ci permette un giudizio ora e non ci permette quel momento di assolutezza, riconosciuto anche da Habermas, proprio della parola verità. Per me la sua (di Gadamer) sfida di essere aperti, come ho già detto, è di importanza vitale, eppure noi tutti abbiamo bisogno, anche e soprattuto attraverso l'esperienza, di dire che una certa cosa è proprio così e non diversamente. Ci vogliamo orientare seriamente alla realtà e non solo ad un'interpretazione di essa. 

Un momento forte della critica di Oster è quello della differenza, non solo della differenza tra un testo e me, ma della differenza tra me che conosco e il tu che vorrei conoscere e che è sempre anche un "egli" e "lei" che non si può diluire in un "processo" o in un "avvenimento". L'inesauribilità dell'altro e quindi la differenza tra me e l'altro non può essere chiusa da nessuna esperienza unitaria, fosse quella anche di un'appartenenza ad un certo movimento ecclesiale o ad una certa forma ecclesiale. Qui si tocca un punto che mi sembra decisivo per la questione dell'apertura non dogmatica. Vedremo come procede il vescovo di Passau nella sua abilitazione su persona e transustanziazione. 

Quello che ho imparato da Robert Spaemann, a riguardo di quanto detto nella mia meditazione odierna, è quello che san Giovanni Paolo II dice nella "Fides et ratio" 82,84: solo una filosofia che sia oggettivamente vera, ma ovviamente anche capace di migliorarsi nel suo procedere conoscitivo può essere "ancella" della teologia. Una filosofia che sia solo interpretazione rischia di "ipostatizzare" o il linguaggio (Gadamer) o l'essere (Heidegger) e così di non aprire a quella vera ed unica differenza, tra chi dona l'essere e il dono dell'essere stesso (teologia) e analogicamente (filosofia) tra il dono dell'essere e la sostanza donata. D'altra parte la sfida di un dialogo aperto mi interessa molto per i motivi che accenno nella seconda parte della meditazione e che spero di approfondire in questo dialogo con il vescovo di Passau.

(6.1.20. Epifanie) Confrontarsi con Gadamer significa per Stefan Oster confrontarsi con il tema di cosa sia un vero dialogo; in quale modo ci è possibile uscire da quel grande monologo hegeliano o da quei quotidiani monologhi che non ci permettono di incontrare davvero l'altro, perché nella modalità della sola "riflessione" non è possibile farlo? Come superare la dialettica soggetto-oggetto tipica delle scienze naturali, pur rispettandone risultati ed innovazioni? La proposta di Gadamer di una "wirkungsgeschichtliche" coscienza (una coscienza con conseguente storiche) sembra non superare davvero il monologo hegeliano, anche se Gadamer ha una reale sensibilità per ciò che chiamerei un vero dialogo; egli ci invita ad un'apertura anti dogmatica, ma di fatto per lui di "sostanziale" vi è solo il linguaggio: il linguaggio come soggetto, così come per Heidegger era l'essere l'unico soggetto, di cui lamentava la dimenticanza, come Gadamer lamentava la dimenticanza del linguaggio. 

Questi tentativi però in qualche modo, dice Oster alla scuola di Ferdinand Ulrich, sono forme in cui l'essere o il linguaggio stesso diventano "ipostasi" - il nostro essere davvero noi "se stessi" come l'essere davvero se stesso dell'altro si perdono in modo tale da venir risucchiati da un "es" (esso) (da un'oggettività al di là del "egli" e "lei"): per incontrare davvero l'altro egli non può rimanere solo un "tu", ma deve essere percepito per l'appunto come un "egli" o un "lei". Questo vale anche per un movimento ecclesiale: quando esso pretende di risucchiare tutto nell'avvenimento come unica unità legittima, perde di vista quello che Oster chiama il "pensiero delle differenze" (ibidem, 99). Solo l'amore gratuito permette di lasciare aperte le differenze: un carisma o un avvenimento (essere, linguaggio, linguaggio di un movimento ecclesiale...) che pretenda di chiudere le differenze, non è più spirito, non è più amore, ma solo "istituzione", "oggettività".  

(5.1.20) In questo primo grande passo che Stefan Oster fa con Gadamer incominciano a formarsi alcuni giudizi, alcuni significati di parole che mi aiutano molto a riflettere sull'essere del mio sé (Selbstsein); dapprima la formula "Kommunion in Dabeiseins", che forse si può tradurre con "comunione nell'esserci", nell'essere presenti negli eventi che vogliamo interpretare e comprendere. Gli avvenimenti non si possono comprendere dal di fuori, ma solo nella comunione dell'esserci. Poi vi è il giudizio sull'apertura all'altro, alle esperienze con una doppia esigenza: sapersi dimenticare (essere quindi davvero aperti), incontrare davvero l'altro e allo stesso tempo essere persona, che in modo unico e storico incontra l'altro, senza perdere la propria "sostanza", che è dono irripetibile ed unico; sostanza, in riferimento alla mia persona è quell'essere me stesso che mi è stato donato e che è la possibilità concreta del mio incontro con l'altro, con gli altri, con l'Altro. Oster presenta un'esigenza ontologica di pensare le persone come plurale (Robert Spaemann), ma appunto anche come "sostanza" e non solo come "avvenimento in dialogo". 

Oster si confronta con quella perdita di sostanzialità ontologica che conosciamo come "pensiero debole" (Gianni Vattimo), con quella sfida postmoderna, che ritiene di non poter più formulare un'ontologia della verità, perché essa sarebbe foriera di pericoli per gli altri o che perlomeno non permetterebbe di incontrare davvero gli altri. Ma solo persone possono incontrare (essere aperte a e per le persone) persone e il concetto di persona non può essere spiegato senza una dimensione ontologica, che nel pensiero di Ulrich è "dono gratuito dell'essere". La sfida è di alto livello. Come dimenticarsi davvero, come essere davvero aperti, senza essere una "tabula rasa" di stampo nichilista? 

Questo tipo di riflessioni hanno anche un valore importante nel rapporto con la nostra casa comune (Papa Francesco, Laudato si', 2015): come aver un rapporto aperto con la natura, con l'altro, senza esercitare indebite forme di dominio? Come in genere con l'altro vi è anche una dimensione comune, così vale anche per la natura: viviamo dell'aria che respiriamo, etc. La dialettica soggetto-oggetto non è quella adatta per esprimere un vero ed autentico rapporto con l'altro/ non altro che è la nostra casa comune; anche per questa questione ecologica sarà necessaria una dimensione che percepisca l'essere come dono. 

(04.01.20) Essere davvero aperti nell'esperienza

Leggendo un articolo in cui si parlava del bisogno di un nuovo cambiamento di paradigma della comprensione di ciò che sta accadendo nel mondo - esso parlava del come comprendere i grandi temi del cambiamento dell'ambiente: cicloni tropicali, ondate di calore, campi aridi, incendi boschivi, inondazioni, diminuzione della biodiversità e proponeva il superamento di una differenza rigida tra scienze dello spirito e quelle naturali - mi chiedevo se davvero sia possibile un cambiamento di paradigma, senza perdere di vista, che il tema del rapporto tra soggetto ed oggetto nella storia della filosofia, non è per nulla statico e che nell'antichità o nel passato vi erano soluzioni che possono servire anche ora. Ma ancora più mi chiedevo se una certa riflessione su questi argomenti, se pur legittima e necessaria - Papa Francesco ne parla nella sua enciclica "Laudato si'" - non ci possa far dimenticare che la prima e grande esperienza su cui possiamo riflettere è quella educativa, a partire dalle prime fasi in cui il bambino si sveglia alla conoscenza. Solo quando si è davvero concentrati nella cosa, nel pezzo come lo è un bambino che gioca, ma come lo è un adulto che dialoga con un altro, siamo alla scuola dell'apertura che ci permette di superare ogni forma di egoismo personale e collettivo. Siamo in quel atteggiamento dello spirito che ci permette di fare una vera esperienza. Quello che mi impressiona davvero in Greta Thunberg è il suo essere del tutto sul pezzo, mentre un articolo di giornale, per quanto buono, di fatto è un esercizio intellettuale che si presenta come una novità assoluta, mentre invece non lo è: è solo un momento nel grande processo della storia dello spirito. E poi manca di quella riflessione sul reale e sul quotidiano che non è mai davvero oggetto di interesse dei "Feuilletons". Quello che davvero conta in un'esperienza è quello che Gadamer riassume così: "Io stesso sono unico, non intercambiabile, insostituibile; sono una persona", che deve imparare una reale comunione con la realtà che vive e che sia capace di ripetere non in modo noioso, "ma in avanti" ciò che è necessario per vivere. E questo sia quando interpreta un articolo di giornale, un libro scientifico o riflette sull'esperienza quotidiana. 

Per quanto riguarda ciò che Stefan Oster chiama l'"esistenziale della fanciullezza", presente in modo incoativo in Gadamer, vorrei raccontare un piccolo aneddoto: incontrai il filosofo di Heidelberg, una volta a Monaco di Baviera, con cui mangiai una sera delle lumache, ed una volta ad Heidelberg; gli regalai, tra l'altro, il libro di von Balthasar "Se non diventerete come bambini"; mi guardò un po' stupito, ma forse, pensai, avrà letto quel libro prima di morire, molto anziano, più che centenario; quando questa mattina ho letto l'osservazione di Oster sull'esistenziale della Kindheit ho dovuto ripensare a questo piccolo aneddoto della mia vita. Chissà che non sia stata un occasione per l'anziano filosofo di approfondire ciò che aveva incoativamente pensato. 

(27.12.19) Mi interessa profondamente la sfida di un atteggiamento radicalmente antidogmatico, di un atteggiamento aperto (Gadamer); l'atteggiamento di chi non sa tutto, che sa addirittura di non sapere; l'atteggiamento di chi sa che una conversazione può essere reale solo se si "elabora un linguaggio comune nella conversazione" (Gadamer), senza cadere nella contraddizione di una soggettività assoluta, perché una soggettività assolutizzata non può che mancare il punto di incontro con la realtà (Gadamer contro Cartesio). I dogmi della Chiesa sono molto pochi e aiutano contro una soggettività assolutizzata, non sono un ostacolo contro una vera apertura. 

(25.12.19) Per un lento ritorno all'ontologia dell'essere come dono

In un dialogo serrato con la filosofia di Gadamer Stefan Oster giunge ad affermare:  "Indipendenza, positività originale come riconoscibile, positività sensata e desiderabile, libertà, storicità, unicità e capacità di comunicare se stessa sono quindi caratteristiche essenziali della realtà" (ibidem, 67) - questo è il senso della realtà quando facciamo una reale esperienza di essa; la realtà stessa è un "luogo di incontro" in cui essa si rivela come alcunché di affidabile; che cambia, ma non in modo arbitrario, come un luogo in cui si sperimenta anche la storicità di ciò di cui facciamo esperienza. Un luogo che supera la statica differenza tra "essenza" ed "accidente": nell'accidentalità della nostra esperienza storica, si rivela un senso ultimo, che Gadamer chiama "Logos" con i filosofi greci. 

La sua (di Gadamer) esigenza anti-dogmatica e di vera apertura nell'ascolto dell'altro e di ciò che ci viene detto dalla realtà stesa, non termina solo in un atteggiamento di "negatività": è vero che l'altro o la realtà negano le mie generalizzazioni (i miei cassetti in cui voglio inscatolare la realtà), ma non negano me stesso; anzi considerano me stesso in una reciprocità "positiva": il mondo, la realtà nella sua positività si comunica con quella positività che sono io stesso e che siamo noi come comunità in dialogo.

Questo atteggiamento di reale apertura è ciò che, in dialogo con Padre Dall'Oglio ho cercato di formulare anche per l'Islam (di questo non parlano le pagine di Stefan Oster, che sono oggetto della meditazione odierna). Per quanto una religione come l'Islam, sia un avvenimento storico, che può anche essere "datato", come lo sono tutti gli avvenimenti "storici", non accade mai nella realtà che un avvenimento di tali dimensioni, che fonda la speranza di miliardi di persone, non abbia nulla da "dire", non abbia nulla di quella "Indipendenza, positività originale come riconoscibile, sensata e desiderabile, libertà, storicità, unicità e capacità di comunicare se stessa" che caratteristiche essenziali della realtà stessa. 

(24.12.19) Esperienza: Aristotele, Hegel e Gadamer 

I primi passi del libro di Stefan Oster sono filosofici; non possiamo percorrerli tutti nel dettaglio, qui nel mio "diario", ma vorrei tenere fermo almeno due momenti. Quello che è in gioco, già a partire da Aristotele, che distingue tra chi fa un'esperienza e chi vi riflette (chi fa un'esperienza, sa di averla fatta, ma non ne ha ancora riflettuto il perché), è  l'esperienza quotidiana: cosa è questa e come "difenderla" dalla "scienza"; a partire dal tragico Eschilo Gadamer ci ricorda che si cresce nell'esperienza soffrendo, ma io aggiungerei anche nella gioia; l'importante è che si capisca la grande dignità che ha l'esperienza quotidiana per comprendere il mio/nostro rapporto con il mondo. Un secondo elemento è quello che Hegel e Gadamer chiamano l'incontro con l'altro, come esperienza "negativa": se mi lascio andare nel rapporto con l'altro egli mi "nega". Non vi è un'esperienza dell'altro se lo si incasella in ciò che già so. Esperienza è alcunché di antidogmatico, che ci apre ad altre esperienze. Questa è la grande sfida, anche se ovviamente vi sono dei limiti e delle ambiguità in questo approccio filosofico. 

(23.12.19) Primi approcci alla parola "esperienza"

Stefan Oster si confronta seriamente con la parola "esperienza", certo anche a partire dalla luce della fede, ma anche semplicemente nel suo carattere "quotidiano" - di fatto primariamente a questo livello è decisivo se l'essere sia un dono o se noi siamo semplicemente gettati nell'esistenza. Per il nostro problema se "sostanza" e "persona" siano contraddittori o se siano un'opposizione polare feconda, per usare le categorie con cui Massimo Borghesi interpreta il pensiero filosofico di Jorge Mario Bergoglio a partire da Romano Guardini, Oster ci fa comprendere che certe contrapposizioni sono piuttosto un problema del discorso teologico e filosofico che della nostra percezione quotidiana - a questo livello noi percepiamo davvero le cose come un "quid" al di fuori di me. La scuola (gli insegnanti, i genitori e gli alunni) in cui lavoro/con cui lavoro, il percorso stradale tra la mia casa e la scuola, l'albero che vedo se guardo fuori della finestra ,tanto per fare qualche esempio sono delle "realtà che esistono in se stesse" e non dipendono dalla mia coscienza. E il considerarle così "funziona", sarebbe piuttosto un segno di malattia se pensassi il contrario. 

Walter Kasper e Joseph Ratzinger, nella sua fase giovanile, vedevano una contraddizione (o nel linguaggio usato da Oster, un'opposizione non feconda), tra sostanza e persona, mentre Oster vede, proprio a partire dalla presa sul serio dell'esperienza quotidiana, e così  dei problemi teologici e filosofici ad essa connessi, un percorso che gli permetterà di considerare il teodramma (Balthasar) tra la persona di Dio e quella degli uomini. Ed arrivare fino al grande mistero dell'Amore crocifisso. Oster dialoga con tutti, anche ad un livello secolare, perché la considerazione di sé e del mondo anche delle persone che non credono, sono decisive per prendere sul serio l'esperienza che ci troviamo a vivere con i nostri altri con-uomini; con la luce della fede Oster offre poi una "risposta" alle domande e alle aporie che rimangono aperte ad un livello solo secolare, ma una risposta che è a sua volta una grande domanda a noi tutti: come diventare persone che amano davvero, ognuno e tutti, pur mantenendo certe "distanze", che fanno parte dell'amore stesso? Vi è una conversione, una trasformazione che noi come persone possiamo compiere o non compiere, quella da  persone egoistiche in persone che prendono sul serio in tutto l'amore gratuito, fino alla notte oscura della Croce e della discesa all'inferno, che spesso le nostre sorelle e i nostri fratelli non cristiani hanno vissuto, come anche i cristiani, in un lager, nella violenza, nella morte disperata; senza una tale "trasformazione", senza una tale "conversione" quella del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo sarebbe solamente un rito strano. Non lo è se ciò che accade sull'altare è l'espressione ultima di ciò che può accadere nella vita dell'uomo. 

Con un certo tremore seguo il vescovo di Passau in questa sua avventura filosofica che prende sul serio la parola "esperienza", che ho incontrato anche nel grande pedagogo e teologo italiano Luigi Giussani; Oster risponde di più, per quanto mi riguarda, ad un bisogno filosofico di quanto faccia il sacerdote italiano, ma in comune hanno entrambi un grande amore per la chiesa e per l'esperienza educativa che li accomuna; Oster è un salesiano! Dicevo con tremore, perché secondo me senza prendere sul serio l'esperienza, tutta la dottrina cristiana diventa un castello di sabbia che interessa solamente chi per caso si trova nell'ambito della esperienza cristiana, mentre io, che vivo ormai da tanti anni in una regione con l'80% di non cristiani, ho bisogno di una categoria che salvi completamente l'umano, non solo la sua espressione cristiana. 

(22.12.19) Il cristiano non si può permettere una dicotomia tra filosofia e teologia, piuttosto dovrà cercare una via in cui la fecondità dei due poli si arricchiscano, come opposizione feconda, e non come contraddizione. Per cui il pensatore cristiano non potrà che pensare nella "luce della fede". Oster ci fa comprendere come ciò sia essenziale per il concetto di persona, che viene pensato nello spazio della metafisica europeo all'interno dei dibatti cristologici e trinitari. Hans Urs von Balthasar ci aveva invitato a prendere sul serio la presenza incancellabile di "theologumena" nel discorso filosofico. Nel suo ultimo grande libro, "Anche una storia della filosofia", Jürgen Habermas, partendo da una seria domanda sul futuro della filosofia, dice, in dialogo con la fede, che solo un in un suo significato olistico, capace di pensare l'opposizione feconda tra sé e mondo, la filosofia ha forse ancora una chance. Sarà bene che il cristiano, per evitare ogni autoreferenzialità, pensi anche in dialogo con autori "secolari" come Habermas, ma il cuore ultimo del pensiero e di una filosofia cristiana, non potrà che essere un pensiero alla luce della fede, che questo sia cosa buona anche per la filosofia tout court dovremmo pian piano dimostrarlo, con umiltà, ma senza ridurre l'identità cristiana in una tabula rasa. 

Per quanto riguarda le opposizioni sostanza e persona, Oster propone un percorso inverso, ma non arbitrario, per cercare di superare la dicotomia tra sostanza e persona, tra pensiero sostanziale e quello trascendentale e poi fenomenologico. Alla luce della fede e non solo in uno spirito di sperimentazione - visto che non funziona la contraddizione tra sostanza e persona, cerchiamo di vedere se funziona la tesi dell'identità di esse - vuole cercare un camino che prenda sul serio l'asserto di Hegel, il vero non è in primo luogo sostanza, ma soggetto, senza cadere in un "soggettivismo" dimentico del pensiero classico capace di stupore nei confronti di ciò che sta fuori dal soggetto.

(21.12.19) La dottrina della transustanziazione, con cui nel periodo anglicano Newman ha avuto difficoltà di comprensione, anche perché essa non è, secondo il santo inglese, molto presente nei Padri della Chiesa, non mi ha mai, come "teoria" molto interessato, anche se ritengo il mio tempo settimanale davanti al Santissimo, un tempo molto importante nella mia vita spirituale - essa, come dottrina, è presente in modo più generale nel XII secolo e come "terminus tecnicus" è in uso a partire dal Concilio di Trento. Il mio interesse per il tema, nasce da un'attenzione che ho rivolto negli ultimi tempi a Stefan Oster, vescovo di Passau ed allievo di Ferdinand Ulrich. I temi della persona e dell'eucarestia sono per me, come per tutti i cattolici, molto importanti ed è certamente sensato, a partire da essi, entrare in dialogo con i nostri contemporanei. Oster è un vescovo filosofo, che riconosce una "legittimità critica del moderno", per usare il linguaggio di Massimo Borghesi. Un vescovo che riconosce, però, anche l'autorità della Chiesa e che quindi non ritiene si possa far filosofia contro questa autorità. Il magistero della Chiesa, in modo particolare le due encicliche sul tema dell' Eucarestia, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II (Mysterium fidei del 1965 ed Ecclesia de eucarestia del 2003) ci danno un'indicazione chiara: pane e vino sono sostanze che indipendentemente dal nostro pensiero vengono trasformate nel corpo e nel sangue di Cristo. Il dibattito su cosa sia "sostanza" non è semplice: Oster ci guida su una strada che trovo molto interessante, ponendosi la domanda: "se si possa comprendere la persona come essenza del rapporto e se sia proprio in quando tale  il concetto fondamentale della sostanza, che si fonda in sé" (Person und Transsubstantiation, Friburgo, Basilea, Vienna, 2014, 20). Si tratterebbe quindi di un concetto di sostanza personale! 

A partire da Kant fino ad Husserl ed oltre i filosofi hanno creduto di dover sostenere l'idea che una "cosa in sé" non sia conoscibile: noi conosceremmo solo la struttura trascendentale della soggettività (Kant) e l'intenzionalità del soggetto (Husserl); se ciò fosse univocamente vero allora la trasformazione della sostanza di cui parliamo nell'eucarestia non sarebbe alcunché di comprensibile; potremmo tenere conto solo di una trasformazione per me e non in sé. Che la dimensione della soggettività trascendentale e dell'internazionalità, come anche la dimensione di una filosofia dell'incontro tra le persone, sia indispensabile per comprendere la realtà nell'insieme di tutti i suoi fattori è cosa del tutto evidente per Oster e per questo affermavo che è un filosofo che ritiene legittima questa idea moderna, ma che allo stesso tempo la ritiene solo criticamente legittima, perché non vuole perdere quella dimensione "ontologica", senza la quale il pensiero diventa solo un sentimento personale. Ma la Chiesa non si può fondare su un sentimento personale, tanto meno la sua autorità. 

Se infine si vuole parlare di una priorità della realtà sull'idea come fa Papa Francesco sarà necessario pensare in qualche modo il tradizionale concetto della sostanza, che per Ulrich è frutto di un movimento dell'essere che come dono d'amore diventa per l'appunto una sostanza finita. Per quanto riguarda l'Eucarestia abbiamo ovviamente una difficolta di comprendere come sostanze finite (pane e vino) diventino la sostanza infinita di Cristo! Non a caso vi è tutta una linea da Tommaso d'Aquino fino agli ultimi Papi che vede in ciò un "Mistero della fede". 

Parlando di questi temi Oster cerca di comprendere anche il valore dell'esperienza per la teologia e per la filosofia: mi ha molto incuriosito il fatto che egli affermi che vi sia una "inquietudine" provocata dal "concetto dell'esperienza nella sua dimensione molteplice per me non ancora chiarita". La "grande narrazione" cristiana per non scadere in una ideologia, che giustamente viene criticata dai filosofi post moderni, non potrà che sottoporsi ad un inquieto incontro con la molteplicità dell'esperienza. Vogliamo seguire Oster nel suo cammino nella convinzione che Aristotele, che egli cita all'inizio del libro, abbia del tutto ragione: "noi non filosofiamo per sperimentare cosa siano i valori etici, ma per diventare un uomo di valore" (Etica nicomachea 1103, b)