venerdì 26 ottobre 2018

Sesso? Un fenomeno troppo sottovalutato e sopravvalutato nello stesso tempo - una breve intervista di don Giacomo Cielo a Roberto Graziotto

Tra Cielo e terra. Il luogo dell'intervista rimane segreto per motivi di sicurezza. 

Don Giacomo (DG): Hai affermato più volte che noi sacerdoti non dovremmo parlare di un tema che non conosciamo. Non metti così in dubbio la nostra autorità sacramentale ed ecclesiale? 

Roberto Graziotto (RG): No, non la metto in dubbio. Ma un'autorità è data per far crescere l'altro e su questo tema vedo che si è scritto troppo, in modo troppo elevato e troppo poco in dialogo con ciò che rimane del popolo fedele (quello che prega il Rosario), insomma con quelle persone che formano con l'autorità ecclesiale il tutto della Chiesa. Oppure se si fanno parlare delle persone di questo popolo fedele sono sempre quelle un po' troppo o unilateralmente "pie". Essere autenticamente religioso ed essere affetto da pruderie non è la stessa cosa. 

DG: Cosa intendi con troppo elevato? 

RG: Sesso è anche ormoni, biologia, istinto e non solo linguaggio espressivo di verità teologiche. Poi nella nostra società siamo stati travolti, e lo siamo sempre di più nella nostra società trasparente e liquida, da immagini "sociali" sul sesso (film, libri, pubblicità, pornografia...) che si sono intrecciate con la base naturale di esso. E qui chi è senza peccato scagli la prima pietra. 

DG: Vuoi dire che una Chiesa vergine non abbia nulla da dire sul sesso, o che non sia capace di andare a prendere ed accogliere le persone dove esse sono e come esse sono? 

RG: Non ho problema con la Chiesa vergine, quando lo è veramente. Ho conosciuto ed ho amici vergini, che sono per me un tesoro prezioso. Ma la Chiesa su questo tema deve ascoltare noi laici di più. 

DG: Va bene! Ritorno su questo punto. Vorrei, però, chiederti se non si può imparare nulla dal magistero dei Papa su questo tema? 

RG: I papi hanno detto delle cose interessanti. In modo profetico, contro la volontà di molti vescovi, Paolo VI, criticando la pillola, ci ha ricordato che il sesso ha a che fare (anche) con i bambini, con la nascita dei bambini. Giovanni Paolo II ci ha ricordato che vi è una dimensione dell'"inizio" (la parola che usa Gesù nel Vangelo): all'inizio Dio ha voluto che la donna e l'uomo fossero "uno". Benedetto XVI ha espresso, magistralmente, che agape ed eros sono un'unità nella diversità, per così dire, e non due cose del tutto diverse. Poi alla scuola di Hans Urs von Balthasar ci ha ricordato che Dio è amore. Da Papa Francesco imparo lo sguardo del discernimento che vuole davvero capire dove si trovano gli uomini oggi. 

DG: Vedo, con piacere, che per uno che dice che la Chiesa deve più ascoltare che parlare, ti sei davvero appropriato del meglio del percorso dei Papi sul tema. 

RG: Ma a parte i papi, c'é stata una donna, un medico, Adrienne von Speyr, che aveva detto già negli anni 40 tutto ciò che i papi hanno detto nel loro magistero, il meglio di ciò che hanno detto nel loro magistero, partendo da un metodo fenomenologico (esperienza, come donna e come medico). 

DG: Allora veniamo a ciò che vuoi dirci tu. 

RG: In primo luogo che su questo tema bisogna ascoltare le donne. La mia frase nel titolo dell'intervista è di una donna: Ursula K. Le Guin. E non solo le donne credenti e pie, ma tutte le donne che hanno qualcosa davvero da dire. Nel suo diario Etty Hillesum parla del suo rapporto con il suo psichiatra. Sono pagina eccezionali, in cui tra l'altro si vede che su questo tema non si può solo parlare. Lei lottava con il suo psichiatra, fisicamente: si rotolavano per terra, ma in quel rotolarsi vedo più verginità che in tanti discorsi "vergini" sul sesso. 

DG: E sul contenuto della frase stessa? 

RG: Se dici per esempio che ogni atto sessuale deve essere aperto alla fecondità, esageri. Dici qualcosa che non aiuta. A volte si ha bisogno di dare solo spazio all'orgasmo dell'altro (e al percorso che porta ad esso), perché in quel orgasmo c'é un intimità di cui gli sposi o chi fa sesso ha bisogno. 

DG Quindi dici che il sesso è anche piacere intimo e non solo fecondità?

RG. Si. Si mette in relazione pedofilia con celibato. Questa è una stupidaggine visto che la pedofilia c'è anche nelle famiglie e chi, tra i sacerdoti, la compie non mantiene il celibato. Ma nelle diocesi tanti preti (che sono appunto uomini) hanno rapporti segreti con le donne, perché hanno bisogno di questa intimità. Le diocesi pagano un fracco di soldi per "coprire" tutti questi casi di sacerdoti che poi hanno bambini, perché il sesso ha a che fare anche con questa possibilità. 

DG E sulla omosessualità? 

RG Per quanto riguarda le persone singole rimango fedele alla frase di Papa Francesco: Chi sono io per giudicare? Poi ci sono le colonizzazioni ideologiche e le Lobby. Francesco stesso ci ha dato i criteri per giudicare. Come insegnante so che ormai i nostri giovani sono del tutto sotto l'influenza di queste colonizzazioni, almeno nella zona, molto secolarizzata, in cui vivo e lavoro. Con grande senso pedagogico bisognerà andarli a prendere dove sono. In una foto in Instagram, in cui si baciano due donne, una delle ragazze che ha tenuto una piccola conferenza in classe sul tema: autodeterminazione della donna in Instagram, vede un atto di libertà. Un po' lo è, anche se questo tema viene usato dalle Lobby. Come insegnante non ho davanti agli occhi dei lobbisti, ma dei ragazzi che mi sono stati affidati. 

DG. Nel cielo, tutti gli uomini saranno vergini. 

RG. Questo è molto bello. Spero di potere vedere con occhi vergini quegli amici vergini, in primo luogo mia moglie, che pur essendo mamma, lo è rimasta nel cuore, che Dio mi ha donato nel suo immenso amore gratuito. Qui sulla terra l'amore gratis non è un programma contro qualcuno, neppure contro masochisti e sadisti, ma un mano tesa che vuole prendersi cura di noi. 

DG. Cosa chiederesti a Maria? 

RG. Di "darmi Gesù", mio Signore, mio fratello, mio amico. Logos persona incarnata, che è salito sulla Croce per me e propter me, che è difeso nell'inferno per un incomprensibile amore gratuito e che sorprendentemente è risorto. Di darmi Gesù come Giuseppe ha messo nelle mani di Maria Gesù, come io ho messo nelle mani di mia moglie, dopo averne cambiato i pannolini, uno dei miei figli. Ci sarebbe ancora molto da dire, ma devo lavorare. 

 


giovedì 25 ottobre 2018

II, Lo sperperare come perversa gratuità dell'amore - Ferdinand Ulrich, Dono e perdono, 512sg.

(Caro don Julián, continuo qui la traduzione cominciata in https://graziotto.blogspot.com/2018/10/lo-sperperare-come-perversa-gratuita.html )

c. Eccedenza e fame. La paura dello spreco al cospetto della propria inutilità. 


Lo spreco non cresce dalla profondità essenziale di un essere- se- stesso che si fonda in pace su se stesso ed in forza del quale chi da, già solo per il fatto di esistere, afferma chi riceve nella indisponibilità interiormente calma della sua libertà voluta per se stessa e dotandolo così di libertà. Lo spreco non può concedere all'altro un compiuto essere- se- stesso, poiché ha bisogno di una fame che vuole solo avere, che è il contrario dell'amore povero, ha bisogno del vuoto della brama dell'altro, per lasciarsi andare e per esprimersi. L'infecondo vuoto dell'altro, che non ha ma vuole avere, è il motore del suo altrettanto infecondo perdersi nel o del guadagnarsi attraverso il consumatore. Ha bisogno di venir divorato dall'esterno, ha bisogno di una fame che la produce nella stessa modalità con cui vorrebbe superala. Produce un essere sazio che è un inganno. Come espressione ceca e perversa, apparentemente dimentica di sé, senza un'affermazione di sé oggettiva e senza una comunicazione di sé amorosa, chi riceve non può lasciarsi andare nell'oggettività interiormente tranquilla della sua esistenza. È incapace di aver cura rispettosa dell'altro nella sua singolarità personale. Non può dare così, da presupporre nell'altro in modo personale, ciò che gli fa (1). Cerca solamente consumatori che credono di valere e potere qualcosa solamente se partecipano alla pseudo eccedenza dello spreco, alla forma menzognera dell' abundantia caritatis. Per questo motivo l'altro non può ricevere in modo che corrisponda al suo sé, non come uno che ontologicamente ha ricevuto in e per se stesso e che è stato dotato (cioè affermato ed amato), quindi non può ricevere in modo libero, insomma che corrisponda ai suoi propri, veri e personali bisogni. Lo spreco costringe ad un consumo senza misura, ad un non averne mai abbastanza, ad un continuo nuovo e sempre diverso aver bisogno, utilizzare e consumare. 


25.10.18


Lo spreco non può sacrificarsi, non può morire in un amore creativo che testimonia la vita  e non potendosi in ciò rivelarsi come un amore vivente, fa se stesso un pseudo sacrificio della propria ricchezza, nella modalità della seduzione degli altri, attraverso i quali egli viene preso, in un aver senza limiti ed in un godere senza misura. E tutto questo sotto le sembianze false di un apparente amore senza perché, che darebbe agli altri per loro stessi, perché per mezzo della sua propria ricchezza, apparentemente, non avrebbe bisogno di nulla. Così produce senza sosta bisogni e bisogno: carestia in tutte le dimensioni dell'esistenza, che viene superata solo apparentemente, attraverso il suo auto scialacquamento e che fa crescere nello stesso tempo necessariamente. Sempre laddove esso domina giunge prima o poi la grande fame che esaspera paesi e  uomini: sia a livello esteriore che interiore. 26.10.18


Lo spreco ha una grande paura che ciò che distribuisce arrivi realmente nella sussistenza, nella calma interiore dell'essere- se- steso già affermato ed amato, cioè nella Ge- "wesend" - heit (2) della libertà di chi riceve. Ha paura di diventare ontologicamente più se stesso e così di superare dall'interno l'impotenza del vuoto interiore, nel quale lo spreco lo tiene prigioniero. Ha paura dell'amore povero e ricco in se stesso dell'altro, della differenza dialogica, che si realizza nell'incontro di due libertà.  Ha paura che nell'aprirsi del singolare e non scambiabile essere- se- stesso dell'altro si spezzi il legame unidimensionale che regna tra esso e il consumatore ("tu vivi attraverso di me, la mia ricchezza è la fonte della tua ricchezza"); 28.10.18

(lo spreco) ha paura che l'altro gli diventi presente nel suo volto incomparabilmente proprio ed unico di se stesso e poi che non abbia più "bisogno" o abbia bisogno molto di meno o in modo del tutto diverso da quanto gli viene offerto; ha paura che all'altro, attraverso il coraggio svegliatosi in lui, attraverso questa fiducia nell'aver- già- ricevuto, nella pienezza d'essere della sua sussistenza personale, nell'essere amato da Dio, la pseudo ricchezza dello spreco, che si gonfia da sé come essere, "a cui non è esteriore nulla, se non il non essere"(3), venga rivelata come un'unica grande bugia diabolica; che il povero speri in primo luogo nel dono dell'amore gratuito, nel gratis della libertà come servizio, cioè nella misericordia, che lo spreco non può dare. Può solamente spacciare l'apparenza del "pro nihilo" come frutto della misericordia. 29.10.18

Colui che spreca ha paura che la sua mimetizzazione venga scoperta. Per questo ha paura di "chiudere la mano mentre dona" (Nietzsche). 

((Nota 282. "Dies nämlich ist das Schwerste, aus Liebe die offne Hand schliessen und als Schenkender die Scham bewahren" (Questo in vero è la cosa più difficile, cioè di chiudere per amore la mano aperta e come donatore conservare il pudore), Also sprach Zarathustra, WW (K. Schlechta), München 1973, 341). ))

Non da il suo assenso al poter ricevere senza ritorno e all'essere donato del dono. Non vuole entrare, nella modalità del servizio, a partire dal fondamento, nella crescita ontologica della libertà dell'altro. Poiché egli non ha fiducia nell'assoluto essere- amato dell'altro attraverso il creatore e non crede che l'altro sia stato affermato in se stesso ed in ciò  fondato in se stesso (sussistente in se stesso), non è in grado di consegnare l'altro, attraverso l'atto di una donazione liberante, a se stesso e così al suo creatore. Chi sperpera non può congedare l'altro, per mezzo di ciò che dona, nella calma interiore di un poter esistere pacifico per se stesso. Deve continuamente dare, per tenere nella propria dipendenza chi riceve. Solamente se nel dare affermasse l'altro per quello che è (cosa questa che significherebbe la sua morte come dissipatore incapace di amare), potrebbe, risorto dai morti, "chiudere la mano donando" e così prendere sul serio l'essere fecondo dell'altro in se stesso, come uno che è stato realmente dotato di un dono, prendere sul serio la sua crescita a partire dal fondamento, dalla profondità della sua sussistenza. Proprio di questo, però, non è capace. In questo modo la sua falsa eccedenza si capovolge nella necessità obbligatoria del produrre, costringendo alla fame il consumatore, con il suo pseudo dare. Ha paura della separazione dell'altro nel suo essere se stesso. In questa condizione il figlio assume il ruolo che egli a casa segretamente proiettava sul padre, pensando che il padre non voleva congedarlo dalla spazio del patrimonio posseduto dal suo potere; e pensando che il padre avesse paura dell'essere se stesso del figlio. 30.10.18

Lo pseudo potere dello spreco permette a tutto di vivere attraverso di "se" e lo sfrutta con la "sazietà". Non può rinunciare al dare, il suo dono non può diventare "l'altro" lasciandolo essere con calma interiore. E questo non solamente per la paura che l'altro, che ha ricevuto il dono, potrebbe essere indipendente, ma in primo luogo anche dal punto di vista che egli stesso, con questa rinuncia alla potenza di espressione della propria ricchezza, non sarebbe più certo (chi comprerà ancora? A chi potrò vendere?). Non ha fiducia nel fatto che ciò che la libertà amorosa dona è presente da sempre, nell'altro, come il mistero divenuto carne del medesimo (non dell'astratto "uguale") unico ed incondizionato amore, in mezzo ai presupposti spazio temporali della sua presenza: perché questo, in se stesso, ha già ricevuto. Egli è in forza di questo incondizionato e gratuito, essere stato amato per grazia, e si è messo in moto dall'interno, del suo rendersi presente nel tempo (Sich- zeitigens), del  suo compimento esistenziale, al cui cospetto colui che dona veramente, a cui interessa l'essere donato del dono nell'altro, nella dimensione della carne e a partire dal fondamento, si comporta sempre come uno che ascolta, che obbedisce, che percepisce, che accoglie, che serve. Il dare creativo è una potenza che serve, che è povera per amore, "vuota" e così impotente, che attraverso la pienezza della propria auto espressione permette all'altro, dotato del dono, di essere e divenire nella realtà sempre più grande della sua propria ed essenziale crescita, e quindi permettendogli di essere fecondo a partire da sé e dal suo fondamento. Un vero dare non si aspetta un rispecchiare simmetrico di sé da parte dell'altro, ma spera nella sua auto apertura libera, nella sua singolarità. Vive nella e per la pazienza della speranza. 31.10.18

Nascosta nella menzogna dell'apparente "sovrabbondanza" (Überfluss) lo spreco ha paura di diventare "superfluo" (überflüssig) (non usabile, inutile). È incapace di gioire che l'altro, per se stesso, a partire da se stesso, dal fondamento, è e vive ciò che fa per lui, è incapace di dire sì all'essere persona dell'altro. Solo l'amore è capace di gioire così. L'amore gioisce della fecondità ontologica dell'altro. Diventa volentieri "superfluo" e dice di cuore: "Si, proprio questo, che tu sei colui (colei) che si sveglia alla vita, che cresce e matura, l'ho da sempre voluto, - non ho voluto che questo. Questo è l'amore- povero, l'amore che è diventato superfluo nella verità, che sa soffrire in modo fecondo il venir gettato via, che lo uccide, ( come alcunché di inutilizzabile, "per nulla", "inutilmente") proprio come il mistero più profondo della sua fecondità nell'altro amato, fino alla morte libera per lui. L'essere la medesima cosa della pienezza che scorre e fluisce e del vuoto sincero ed inutile è il mysterium caritatis create, il mistero dell'essere creato come amore. 

((Nota 283: la "medesima cosa" (das Selbe) espressa nel linguaggio dell'ontologia: ipsum esse creatum "singificat aliquid completum et simplex, sed non subisistens". Su questo tema, cfr. Homo Abyssus. Das Wagnis der Seinsfrage. )) . Cfr. (4) 

Il dissipatore, però, ha paura del gratis (Umsonst)(5) della libertà, del "pro nihilo". Si difende in tutti modi dall'essere un "servo inutile" nel senso del Vangelo, che dopo aver fatto tutto confessa il senso della vita come il gratis dell'amore e che proprio per questo vive nella casa del suo Signore, che non ha "bisogno" di lui, perché è il suo figlio che ama gratuitamente. Il dissipatore, invece, deve dimostrare continuamente di essere "impegnato". Lotta perciò contro tutto ciò che è un non-venire-usato, tutto ciò che è inutile, contro l'amore-povero della libertà e così contro tutti coloro che non sono utilizzabili, contro i poveri, contro chi è senza scopo per il suo sistema, contro chi è inutile - sebbene egli proprio attraverso costoro (il che dovrebbe passare, però, attraverso la morte e risurrezione della sua conversione) potrebbe imparare che la forza creativa del dare e del senso del donatore non consiste primariamente nell'essere utilizzato, ma nell'esistenza interiormente tranquilla di chi sa donare in e per sé e che la vita di chi ama è in se stessa già dono ricevuto e si concretezza nel donarsi e nell' attenzione di chi dona. 

Il dissipatore non può e non vuole aver fiducia nel fatto che al di là del suo fare, nel non-fare (della sua nuda esistenza) è amato dall'Altro senza alcuna intenzione, "senza scopo": "Ti affermo in te e per te stesso. Non hai bisogno di legittimarti con l'esaurimento di tutte le tue energie. Tu sei dono già semplicemente in forza del fatto che sei stato creato. Perché essere creato significa: aver ricevuto l'essere come dono. Puoi donare a tua volta con tanta calma interiore, perché io, colui che riceve, sono stato già abbondantemente, in me stesso, in forza dello stesso dono dell'essere come amore, attraverso il quale anche tu sei. Questo non ti dispensa, per nulla, dal donare, quasi che l'impegno della tuo zelo non conti nulla, come se potessi abbandonare tutto e tutti a loro stessi in una cattiva indifferenza. No, con ciò voglio dire che tu nel mezzo del tuo zelo personale puoi aver fiducia in ciò che la misericordia di Dio, al di là del tuo impegno, ha fatto accadere in me e che con il tuo fare può essere affermato amorosamente, risvegliato in modo più profondo e fecondo. Ciò che tu dai, a partire dall'origine e nel nascondimento del mio essere, è già presente gratuitamente e voglio per questo dirti che tu stesso e il tuo fare mi sono già stati vicini. Non hai bisogno né di forzare né di fare la tua vicinanza nei miei confronti. il tuo lavoro, per quanto faticoso, è già riconciliato e leggero. Non devi importi spasmodicamente in me e non deve interpretare il ruolo di colui che regala l'essere (del buon Dio). Sii felice dell'essere-stato-presente del tuo dono in me (attraverso Colui che permette ad entrambi di esistere)  e mettiti al servizio della sua fecondità con il tuo dare. Quello che fai puoi presupporlo come già presente. Lasciati donare il frutto del tuo del tuo fare da chi con tutto ciò che tu fai per me, dona a te. Vivi nell'impegno, nell'offerta di te creativa, nella ricchezza dell'amore che scorre per l'appunto in modo sovrabbondante e di cui tu dai testimonianza, con l'essere-superfluo, con la povertà creativa del lasciar essere, con la verità che "tutto è grazia"; vivi l'essere la medesima cosa della pienezza e della povertà dell'amore, che è gratis e frustra; vivila nell' inutilità, nel fallimento, nella debolezza della "carne", che "non serve a niente ". Così verrai liberato dalla legge estenuante del "per ottenere ciò", "in modo tale cha accade che". Puoi dare "senza scopo" ed operare in me gratis ed in una libertà salvata. La povertà del tuo essere superfluo è la testimonianza vivente della tua fecondità in me. Non considerarti, per l' "amore che è il peso della tua anima" (Ignazio di Loyola), come troppo importante". Questo è il vero amore di sé e del prossimo in Dio.  3.11.18

Di questo "riposarsi non dopo, ma mentre si dona", che Nietzsche ha desiderato così tanto, il dissipatore ha paura. Per questo motivo cerca e produce intono a sé persone che nel ricevere sono senza sé, in modo tale che consumino la sua ricchezza apparente, ingabbiandosi nella perversione di questa compimento perverso di sé, perdendo così in sostanza ontologica. Brama gente che prendendo, attraverso questa cattiva alienazione di se stessi, attraverso la perdita della loro vita (e della loro esistenza in e per se stessa) diventino "vuoti", per "guadagnarsi"l'apparente si della sovrabbondanza e la perversa mancanza di perché dell'amore. Si aspetta uomini che credano che solamente la ricchezza dello spreco, del lusso, possa concedere loro "un'esistenza gratuita", la "festa del Sabbath, il giorno compiuto della calma interiore essendo proprio capaci di guadagnarsi proprio questo: se "lavorano" per questa ricchezza in interminabili e differenziate forme, diventeranno anche "ricchi", per poi finalmente vivere in modo libero, a partire da se stessi.

Il dissipatore si sacrifica in modo egoistico per la povertà infeconda e mancante dell' "essere-se-stesso" e quest'ultima a sua volta, dipendente da una sovrabbondanza di essere, si sacrifica per lo spreco sfruttatore. Perché questo vuoto, l'altra faccia dello spreco, non brama null'altro che di esistere finalmente come cosiddetto "uomo libero" - e il dissipatore gli racconta la menzogna che ciò sia possibile attraverso di lui e che attraverso di lui lo diventerà realmente. 5.11.18

Lo spreco vive di un anonimo "sudore della fronte" e del sacrificio del sé di chi ne usa, suggerendo ai suoi schiavi: "Tu sei ciò che hai; questo è ciò che guadagni con me: la sovrabbondanza. Una libertà senza perché, il cosiddetto "gratis dell'essere", di cui i credenti chiacchierano solamente, lo si può avere da me in modo oggettivo, in forza della mia ricchezza.  Così come la mia pienezza è senza misura, così lo deve essere l'espressione lavorativa della tua vita. Mi impegno in modo tale che tu viva di sovrabbondanza. Insomma: se già io sono così rinunciante al mio sé, da offrire Ia mia vita per te, la mia vita che è tua, così anche tu, in tutte le dimensioni dell'esistenza devi per me esserci senza riserve. Tutto è per te in forza della mia alienazione (spreco della ricchezza): per questo motivo do "per nulla", gratis. Guadagnatelo essendo tutto per me, insomma non essendo più nulla per te. "Da totum pro toto". Appena tu non presupponi più nulla da parte tua, posso operare assolutamente in te: allora sarai in grado di esistere da te stesso ed in modo assoluto. (Nota 284). Questa è una "pace" falsa, un'apparente "sazietà beata" che lo spreco promette nella figura menzognera dell'amore senza perché e che sembra dare (6). 6.11.18

((Nota 284: "la determinazione della ricchezza pensata solo per il piacere è inattiva e dissipatrice (chi possiede questo tipo di ricchezza gode di se stesso godendo del fatto che altri godono di lui. È inattivo perché non è esprime il Sé, non è padrone di una ricchezza cresciuta dal suo essere. Non da nella modalità del servizio, ma spreca ciecamente non guardando l'altro. Così facendo esprime uno pseudo amore, la figura perversa del "dare senza pagare") attraverso di essa da una parte chi gode si conferma solamente come un individuo effimero (il patrimonio viene semplicemente gettato via), senza sostanza e capace solo di sfogarsi" (nell'unità perversa di vita e morte, in una pseudo espressione di sé che è semplicemente "curvatio in se ispo") " ma nello stesso tempo come uno che compie il lavoro da schiavo estraniante, e vive l'umano "sudore della fronte" come bottino della sua brama" (il sudore della fronte, che rielabora il sempre di più della ricchezza dissipatrice e la rende possibile attraverso il suo sacrificio); parliamo di una ricchezza "che conosce in questo l'uomo stesso e quindi anche se stessa come una sostanza sacrificata e che non vale niente; il disprezzo dell'uomo come sfrenatezza si rivela come un gettare via ciò che basterebbe a sfamare cento vite umane o appare come illusione infame che il suo spreco dissoluto e il suo consumo inconsistente ed improduttivo determini il lavoro e così la sussistenza dell'altro, e conosce la realizzazione delle forze sostanziali dell'uomo solo come realizzazione della sua balordaggine, del suo umore e delle sue trovate arbitrarie e bizzarre. Questa ricchezza che d'altra parte conosce se stessa solo come strumento puro e come distruzione di cose di valore è sia per lo schiavo che per il signore, allo stesso tempo, generosa e vile, lunatica, oscura, arrogante, fine, acculturata e piena di spirito, - questa ricchezza non ha ancora fatto esperienza su di sé di un potere del tutto estraneo; vede in esso solamente il proprio potere", K. Marx, Nationalökonomie und Philosophie, ibidem 266/267)). (7) 

d. L'apparenza dell'assoluto in ciò che è determinato 7.11.18

La libertà vive il suo essere in se stessa come donata: sono comunicato già solamente per il fatto che esisto. Il cuore della mia vita è dono e attraverso di esso sono: io stesso; sono presente in una tranquillità interiore. Questa calma vivente è la fonte feconda del dare creativo, dell'origine di un fluire libero. Qui accade l'espressione (Entäußerung) come svelamento della figura vitale intima dell'essere-se-stesso di colui che si comunica nella modalità nella quella "egli stesso con se stesso" è la medesima persona. Possiamo dire grazie a questa libertà, anche se non "dà". Lei è nel suo essere, in se stessa, nella modalità del donarsi e dell'essere donata, dando e ricevendo. Vive nel essere-medesimo-vivente del "fare e non fare", di movimento e calma. 

Il dissipatore invece produce, imprigionato nel rapporto oggettivo di causa ed effectus,  un'egoistica sovrabbondanza da "palcoscenico". Ha perso l'essere-interiormente-tranquillo  nel "da sé" (egli, lei) "senza fondamento" e sostituito la sua infinità intima (la presenza di Dio in lui: l'uomo supera di un alcunché di infinto l'uomo stesso, Pascal) con la cattiva infinità della crescita tecnico industriale, economica e materiale che secondo la legge, dopo essere stata messa in scena, deve distruggere se stessa. Ciò che è stato fatto senza senso sostituisce la vera mancanza-di-fondamento (= di motivo;rg) della libertà amorosa. Ciò che non serve per vivere, nel quale, però, nella prospettiva dell'avere, si vede un piacere utilizzabile, sostituisce il non essere utilizzabile personale, la "mancanza-di-scopo" dell'essere-se-stesso, la libertà come "scopo-per-se-stessa", cioè finalmente l' "abundantia caritatis". 

((Nota 285: per questo tema vedi Ferdinand Ulrich, Gegenwart der Freiheit (Presenza della libertà), Einsiedeln, 1974, terza parte: Krisis der Fortschrittsideologie des Wachstums (crisi della ideologia del progresso della crescita), 161,sg. ))

In mezzo ai limiti della finitezza irrompe apparentemente un sempre-di-più, cresce la fonte inesauribile di una sovrabbondanza, che sembra superare tutte le misure dei nostri condizionamenti e bisogni concreti. Non è questa l'epifania oggettiva, visibile con i sensi, dell'assoluto nel determinato? Non è il patrimonio del padre: trasformato nell'auto potenza del figlio, che ora, come padre di se stesso, diventa anche signore di sua madre (la mater-ia, la natura), di cui egli, come perversa "homo-natura", dispone e sfrutta arbitrariamente? Non diventa così il patrimonio "materiale" del mondo, che il padre possedeva solo come "uomo" nell'ambito dell'origine, il quale, però, nella prospettiva del figlio non si testimoniava come potenza creativa, non diventa insomma adesso con il figlio (i figli) ciò che può essere: luogo e mezzo di una auto-determinazione libera (dell'io, del tu e del noi) dell'uomo globalmente socializzato? "Non sono io la misericordia che tu hai sempre cercato? La grande pace, il grande perdono, per mezzo del quale tu finalmente sei scusato e diventato libero una volta per tutte? 12.11.18

Cosa ci dice ancora la figura-menzogna dell'assoluto nel determinato? "Non ti do solo il necessario, in modo tale che tu non debba vivere miseramente la tua esistenza. Distribuisco anche ciò che non è necessario, ciò che non è dovuto (Nota 286), un sempre-di-più che sorpassa tutti i tuoi bisogni e tutte le possibilità che potresti immaginarti. Sono fonte dell'im-possibile, di tutto ciò che va oltre l'essenza e che non si lascia derivare da tutto ciò che tu fino ad ora hai riconosciuto come "misura del tuo essere" (Wesensmaßen) e determinazione della tua esistenza. Tuo è ciò che non può essere pensato antecedentemente. Ti si apriranno gli occhi! E se tu finora hai creduto che la tua vita consistesse nell'adempiere al "dover-essere" della legge e corrispondere alle sue esigenze, nel dover pagare i tuoi debiti, ora sei una volta per tutte scusato (entschuldigt - privato di colpe) perché con me tutto ciò che è richiesto è e viene compiuto come un fiume in piena e in questo modo come fonte della tua colpa fatto sparire. Dono sempre-di-più. Non dono senza alcuna intenzione? Non puoi finalmente festeggiare la festa della sovrabbondanza e godere della tua vita?" 

((Nota 286: la figura-menzogna della misericordia dell'amore, che rappacifica, sazia e soddisfa tutto ("succhiate fino alla sazietà alla vostra ricchezza materna") e che non può essere pensata antecedentemente ed è indisponibile, nella sua mancanza-di-perché che continuamente fa saltare in aria tutti i legami causali, in modo sorprendente, sensazionale in segni e miracoli che non ci si sarebbe mai aspettato.)) 

Il fratello rimasto a casa non domanda anche a sua volta proprio di questa festa? "Tu non mi hai dato un capretto per far festa con i miei amici - anche se io ti servo da anni con il mio lavoro". 14.11.18

Udiamo (8) che il fratello più giovane ha disperso il suo patrimonio: Ξων ασωτως: "vivendo in modo dissoluto". L'avverbio ασωτως (dissoluto) è la negazione di Σώτος. La radice indogermanica di questa parola: teu, tuu (9) significa qualcosa come "ingrossarsi" nel senso della crescita salutare di una vita compiuta, che è in cammino per portare frutti abbondanti.

((Nota 287: Da qui teutā: moltitudine, Popolo; t(e)uko: ricco; tūbha: aumento; tumo: grasso; indiano antico tavati: è forte, ha potere; persiano antico: tav: capace, ricco; attico: σώξω: salva, conserva; σωτήρ: Salvatore, Redentore; σώμα: corpo (pieno di corpo: sano); σωματόω: fissare, condensare. ))

Il figlio non vive dalla pienezza di un essere-libero in-carne-ed-ossa, della ricchezza di un creativo superamento-di-sé, di una crescita ontologica del "io sono" (sono da φυω, φύσις). Ciò che mette in mostra in modo dissoluto come il suo potere è apparenza, senza essere e senza forza, del suo io "ampolloso", gonfiato nella mancanza di amore: di una debolezza dissoluta, incostante, instabile, il "tumore" del suo vuoto esistenziale, della sazietà gonfia della sua pseudo ricchezza. Lo spreco non sgorga da una vita densa, stabile e unita in se stessa. Non vive concretamente, a partire dalla "vis concretiva et unitiva" dell'amore. Il dissipatore non è stabile in se stesso, perché non sta nella verità. La sua sussistenza è vuota. Spreca il suo patrimonio in forza della sua impotenza, manca di una presenza-del-sé tranquilla, centrata in se stessa, decisa. La sua forza non ha un rapporto concreto verso se stesso. Questo svela tutta la vanità della sua impresa. La pienezza del "compimento a priori" (Nota 288) non corrisponde al patrimonio da lui posseduto. 15.11.18

((Nota 288: I suoi occhi non stanno vedendo come occhi reali, ha occhi ma non vede; i suoi orecchi (il suo udito (Ge-hör)) non stanno ascoltando come orecchi reali - in loro stessi; ha orecchi ma non ascolta (anche se in verità non gli occhi vedono e gli orecchi ascoltano, ma l'uomo in questi e con questi suoi sensi). Per questo motivo nella sua cecità ed incapacità di ascolto sovviene e appare l'irrealtà oscura, che si vuole fare da se stessa. Cfr. su questo tema dell'autore: Der Mensch als Anfang. Zur philosophischen Anthropologie der Kindheit, Einsiedeln 1970, 47 sg. (L'uomo come bambino. Per un'antropologia filosofica dell'infanzia, Roma 2013, non riesco a trovare la pagina, forse pagina 49). ))

In un'immagine che chiarisca la mancanza di senso dello spreco si potrebbe dire: chi spreca non vede la luce per la luce dei suoi occhi, perché l' "occhio solare" (Plotino, Goethe) vede sempre a priori, ma egli vorrebbe, attraverso il "vedere" (un atto che non cresce dal suo essere), per così dire, fondare in modo regressivo da subito la luce in lui stesso o detto altrimenti: "deve" guardare in continuazione per dimostrare che la luce è apparsa. Non da in forza del suo essere come dono, per il quale egli è stato, ma cerca attraverso il suo dare dissoluto, in modo regressivo, di accertarsi da subito della presenza della sovrabbondanza nella sua vita, di appropriarsi della sua ricchezza, ancora meglio di produrla in se stesso. Il suo fare non segue l'essere; piuttosto il suo fare vuole "produrre" l'essere. Nel divenire non si compiono le metamorfosi del seme (essere come frutto), che cade nella terra nella modalità del dono, muore e trasformato come germoglio fa le radici e germoglia ed erigendosi prende forma, si sviluppa, cresce, fiorisce e porta frutto. Nel dissipare invece il "movimento del divenire" vuole da subito porre e fondare in modo regressivo l'essere fecondo dell'inizio, la ricchezza essenziale del suo patrimonio originario. Il "divenire" diventa fonte dell'essere, il "grande movimento", il produttore della verità. In questo sfogarsi esuberante del suo spreco la "vita" si occupa solo di se stessa e imputridisce: mors vitalis. 16.11.18

Il figlio non da a partire dalla sovrabbondanza dell'essere-libero, ma dalla fame di se stesso, secondo il piacere della sua alienata (entäußerte) potenza vitale; guidato dalla brama del perdersi. La sua sovrabbondanza è in vero solo avido vuoto , che cattura l'altro, lo rende impotente e lo divora. Si distrae per sfuggire "le fauci sbadiglianti della noia" (Nietzsche).

((Nota 289: WW (edit. K. Schlechte) I, 410, 72. Con la radice tu- en, vi è una parentela anche con Ταύρος: toro, il simbolo della fecondità. Cfr. anche gr. σαθη: pene ( πός-θη: πέος): φαλλος. - Il vitello d'oro e l'immagine del toro - per l'incredulità che rinnega il padre balla lodando la fecondità mondana (= produttività, efficienza, etc.))

Così si genera apparentemente da sé, senza poter dare una testimonianza reale della sua libertà . L'io che vuole essere il suo proprio padre è fino al fondo di se stesso impotente.

La traduzione continua in questo nuovo link: https://graziotto.blogspot.com/2018/11/4-il-ritorno-fatale-della-storia.html



Continua



(1) Un grande tema di Ferdinand Ulrich: l'amore agisce così che presuppone nell'amato ciò che fa. RG


(2)  In questa parola vi è il passato (gewesen) e la sostanza (Wesen) del dono passato. (RG) Ferdinand Ulrich nella nota 281 rimanda alla note 194 e 270. Traduco qui la nota 194: "La dimensione dell'egli (lei) dice l' in- se- steso o il luogo ontologico , la presenza della libertà nella sua "Ge- wesend- heit" , nella ousia della sua esistenza. Usiamo la forma del participio "gewesend" per esprimere lo stato del rimanere, mantenere, abitare per esprimere meglio "Wesens" (compreso nel senso di un sostantivo verbale). RG 

(3) Secondo me Ferdinand Ulrich, in un dialogo intimo con Tommaso d'Aquino, fa un passo ulteriore nel cammino della comprensione di cosa siano l'essere e il nulla, di quanto espresso in questa frase: "all'essere non è esteriore nulla se non il non essere". In primo luogo credo sia necessario chiarire che Ulrich non sta parlando dell'Essere come ipse esse subistens, che è Dio. Parla dell'essere, come atto di donazione dell'essere. Quest'ultimo è, sempre per parlare con Tommaso: simplex et completum, sed non subsistens. Con il suo "medesimo uso delle parole essere e nulla" Ulrich ci apre la strada ad un comprensione nuova dell'essere, non come "contrapposizione", neppure come "contrapposizione" al nulla, ma come una critica interna del nulla che ci rivela che il nulla non è solo "nichilismo" (questo è esteriore all'essere come dono d'amore), ma il "nulla" come gratuità dell'amore stesso, quello che ci rivela il linguaggio quando rispondiamo ad una persona che ci dice grazie con un "non fa nulla", "non c'è di che". Quando i teologi parlano di "Essere" intendono sempre Dio ma saltano, normalmente, questa dimensione dell'essere semplice e completo, ma non non sussistente, di cui parla Ulrich in dialogo non con i tomisti, ma con Tommaso. Questo salto (come omissione di una cosa decisiva), a livello di linguaggio filosofico usato, lo fa anche don Giussani, che dipende in questo da una filosofia neotomista. Con l'insistenza sull'esperienza, però, don Giussani supera la difficoltà insita nel suo linguaggio filosofico neotomista. Dove possiamo incontrare la gratuità del dono gratuito dell'essere? Nell'esperienza, non ridotta ad ideologia. Solo quest'esperienza dell'essere gratuito ci permette di superare, con una critica interna, per così dire, il nulla del nichilismo. L'essere non è sussistente perché è appunto "dono puro" che non è "causato" e non causa nulla. La creazione stessa, probabilmente, non è "causare" o "produrre" o "fare"; questo è, però, compito dei teologi spiegarlo. Dio genera il Figlio, senza del quale non vi sarebbe nulla di ciò che c'è. E il Figlio, nella sua incarnazione, getta una luce sulla creazione del Padre e ci fa comprendere che cosa sia l'amore. Il Padre ha tanto amato il mondo da dare il Figlio per la salvezza dell'uomo e della creazione tutta. Ha dato il Figlio nella modalità della "discesa" che non considera un tesoro geloso la propria divinità, semplice e completa. Prende la "forma di schiavo" e si mette al servizio degli uomini, vivendo a Nazareth, parlando, facendo miracoli, lavando i piedi ai suoi, salendo sulla croce e discendendo in fine nell'inferno. La donazione dell'essere, "similitudo divinae bonitatis" è appunto solo comprensibile come "similitudo" di questa "discesa" che presuppone in chi riceve il dono d'amore il dono stesso: l'amore nella sua sussistenza (anche se relativa o relazionale). Sussistente è il Bartimeo ceco, non il dono che gli viene fatto dal Signore. Questo dono è amore puro e gratuito, non sussistente, non fissabile in una "ousia". La nostra esperienza di fraternità deve essere un esercizio di questa gratuità del "nulla" dell'amore che sola può sconfiggere il nulla nichilistico della perdita delle evidenze in cui siamo tutti (!!!) sommersi. RG  

(4) Cfr. per questo la mia nota numero 3. La filosofia postmoderna (Gianni Vattimo, per l'Italia) ha avuto un sensorio per la seconda parte della verità espressa dalla definizione citata nella nota 283: ipsum esse creatum "singificat aliquid completum et simplex, sed non subisistens" . C'è davvero bisogno di un "essere debole" per esprimere l'amore. Forse manca nella filosofia postmoderna, però, un sensorio per la prima parte della frase: l'essere è "semplice e completo" e non deve e ne può essere costruito da alcuna attività umana, tanto meno dalla filosofia. Senza questa completezza del "primerear" sarebbe del tutto incomprensibile e irrazionale il mistero della "pazienza della speranza" di cui parla Ulrich nel suo testo. RG  

(5) Ricordo che la parola Umsonst in tedesco significa sia gratis che frustra. RG 

(6) Il grande lavoro filosofico di Ulrich, similmente al grande lavoro di discernimento compiuto nell'Apocalisse, consiste proprio nel distinguere ciò che appare essere simile ma non lo è. Nell'Apocalisse: forme perverse trinitarie dalla Trinità. In Ulrich forme di gratuità che sono solo apparenti, da quel vero amore gratis che è il cuore della sua filosofa. RG 

(7) Non sono sicuro di avere capito bene la frase di Marx, bisognerebbe trovare la citazione nella traduzione fatta da esperti di marxismo, ma non la possiedo. RG

(8) Siamo "uditori della Parola". RG

(9) Non posso ricostruire qui precisamente né gli accenti delle parole greche né di quelle indogermaniche. RG

domenica 21 ottobre 2018

Incontro con Claudel - per comprendere l’amore gratuito come „descensus“. Roberto Graziotto


( Questo scritto mio sulla "Scarpina di raso" di Paul Claudel, a cui ha collaborato anche Nicola Felice Pomponio, nasce per una richiesta di Massimo Borghesi che non si realizzerà, perché forse non né ho neppure la capacità. Lo pubblico nel mio blog, perché spero che possa essere di ispirazione a chi vuole approfondire un tema, anche confrontandosi con chi non è un accademico, ma un insegnante di scuola, per lavoro e per grazia). 

Caro Roberto,

finalmente leggo il tuo pezzo, appassionato, lirico, riflessivo,
balthasariano. E' perfetto ed originale per il blog. Temo solo che non
sia adatto per la rivista "Studium" la quale segue, nel pubblicare, la
vecchia scuola: stile impersonale, ermeneutico-descrittivo, un pò
accademico, accompagnato da note. Il tuo passare dalla terza alla
prima persona con il tuo racconto, per altro molto bello,
dell'esperienza con i tuoi ragazzi, non sarebbe compreso. Mi dispiace
perchè i tuoi affondi sull'opera sono davvero colpi di sonda,
illuminanti se solo tu avessi il tempo di dar loro uno sviluppo
conseguente. Questo solo per dirti che se hai voglia potresti
riprenderli in una nuova stesura focalizzata sulla tensione tra amore
carnale e amore celeste ne "La scarpina di raso". 4/5 pagine. Vedi tu.
Non voglio spingerti. Non sempre si ha desiderio di dare forma a ciò
che, nella sua intuizione, appare fresco e sorgivo.

Un abbraccio.
Massimo


Incontro con Claudel - per comprendere l’amore gratuito come „descensus“. 
Roberto Graziotto 

Introduzione - „il cammino  attraverso l’inferno e il cammino attraverso le profondità sono un solo cammino, e alla fine giungono tutti e due alla stessa meta“. 

In un breve, ma intenso articolo, nell’ „Osservatore Romano“, del 17/18 agosto di quest’anno (2018), Padre Jacques Servais SJ ci invita alla lettura dell’opera di Paul Claudel: „La scarpina di raso“. Il poeta francese viene presentato con ragione „come poeta cosmico e cattolico che abbraccia il mondo e l’al di là“ (Servais) e messo in relazione con la teologia „cosmica e cattolica“, estetica e drammatica di Hans Urs von Balthasar, che „nel 1939 farà uscire in tedesco Le cinque grandi odi e La scarpina di raso (…). Un anno dopo la sua rappresentazione alla Comédie Française, con la sceneggiatura di Jean Luis Barrault, il 10 giugno del 1944 il teatro di Zurigo presenta l’opera nella sua versione dovuta alle cure del „gesuita eminentissimo“ che diventerà, dixit l’autore, il traduttore autorizzato delle sue opere“. La rappresentazione a Zurigo ebbe un notevole successo, dovuto certamente anche alla genialità della traduzione di von Balthasar. 

L’articolo di Padre Servais ci permette di fare uno schizzo delle persone principali del dramma (ci limitiamo ad esse, anche se le persone non principali sono del tutto importanti, a loro modo, e non selezionabili per scopi di riduzione teatrale)  che canta l’amore irrealizzato qui sulla terra tra Prouhèze e Rodrigo. Il fuoco dell’amore di Prouhèze incendia il cuore di Rodrigo. Prouhèze è sposata e per questo motivo non può corrispondere, anche se all’inizio vuole, all’amore di Rodrigo, che diventerà vice Ré nelle appena scoperte „terre d’America“. Alla morte del marito, don Pelayo, Prouhèze scriverà una lettera che girerà per tutto il mondo (Cina, Giappone, America Latina) per dieci anni prima di arrivare nelle mani di don Rodrigo. Nel frattempo doña Prouhèze è sposata nuovamente con don Camillo, il rinnegato, per salvare la sua anima. La fine di Prouhèze è tragica: „si farà saltare in aria insieme alla fortezza di Mogador“ in Africa, la cui cura le era stata data come compito politico dal re di Spagna. Così „ Prouhèze arde e si trasforma in modo sublime in una stella: la sua crocifissione è la salita di un’alta fiamma“ (Claudel). Rodrigo, dopo il trionfale compito ricevuto dal re di Spagna come suo sostituto in America (farà costruire quel varco da un oceano all’altro, il canale di Panama, che in realtà sarà progettato verso la fine del XIX secolo e costruito all’inizio del XX secolo), dovrà vivere una vera e propria „discesa“ ed assaporare nel suo corpo „un’ignominiosa decomposizione (…). La sua fine nella profonda umiliazione di una totale indigenza, sarà fonte di grazia“ (Servais). Come Charles de Jesus che diventerà portiere in Nazareth in un convento femminile, Rodrigo lo diventerà del convento carmelitano di Teresa d’Avila. Claudel, che ci educa a prendere sul serio „anche il peccato“, dice che questi due cammini, di Prouhèze e Rodrigo, „che conducono alla morte sono terribili l’uno e l’altro, felici l’uno e l’altro, necessari l’uno e l’altro“. L’essere nella sua completezza viene accolto come dono gratuito, nella valenza doppia della parola tedesca „Umsonst“ (gratis et frustra): una gigantesca visione cattolica, universale che sa però, siamo durante lo svolgimento del dramma all’inizio della riforma luterana, che „Lutero è necessario“ (Claudel), mentre molti santi non lo sono. 
Da ricordare è anche la figura del fratello di don Rodrigo, il gesuita morente della prima scena: nel suo discernimento personale sa che Rodrigo „è uno di quelli che non possono salvarsi se non salvando tutto questa massa che prende la propria forma dietro di loro“ (Claudel). Sarà in fine il suo traduttore nel cielo di ciò che farà il fratello sulla terra. 

Breve presentazione della ricezione del dramma di Claudel (Nicola F. Pomponio) 

All’apparire de “La scarpina di raso” fu chiaro agli spiriti più avvertiti che ci si trovava davanti ad una svolta nella storia del teatro del ‘900. Fu, inoltre, altrettanto chiaro che i temi e le forme utilizzate rappresentavano una visione assolutamente originale e, al contempo, ancorata a una precisa tradizione biblica del Cristianesimo. Sul primo aspetto è da sottolinearsi quanto Malraux nel 1960 nei “Cahiers Paul Claudel” sosteneva, ovvero che quest’opera era da annoverare all’interno del teatro simbolista di cui realizzava tutte le speranze. Su questa linea qualche anno dopo il grande critico Henri Guillemin rimarcava come essa fosse “il simbolismo risuscitato per compiersi in una tardiva apoteosi” (“Le <Converti> Paul Claudel”, Gallimard, 1968, pag. 103). Un’opera quindi che si impone per la sua eccentricità rispetto alla storia del teatro e all’attualità e, proprio per questo, di estremo interesse. Interesse che coinvolse, per via delle tematiche trattate e non solo per il metodo usato, intellettuali francesi di varia estrazione. Nel 1948 con un paragone contenutistico di rilevante importanza, Simone de Beauvoir scriveva che “<I fratelli Karamazov> e <La scarpina di raso> si sviluppano  all’interno della cornice di una metafisica cristiana. E’ il dramma cristiano del bene e del male che si gioca e si dipana…..Il mondo di Dostoevskij  come quello di Claudel sono mondi carnali, concreti: ovvero il bene e il male non sono nozioni astratte….e l’amore di Donna Prouhèze per Rodrigo non è meno sensuale, meno umano e meno sconvolgente poiché lei mette in gioco, attraverso lui, la salvezza della sua anima” (“L’existentialisme et la saggesse de nations”, Nagel, 1963). A questa “metafisica cristiana” della Beauvoir, carnalmente determinata, viene dato un contenuto reale , simbolico e teologico, visti gli echi biblici che vi risuonano, da Xavier Tillette per il quale “la magnificenza barocca del teatro, la sua ricchezza, la sua diversità, il mostruoso prodigio del linguaggio” mirano ad “aprire la via all’intelligenza del tutto, è una continua, sorprendente meditazione sul corpo a corpo tra Dio e l’uomo e quindi, a dire il vero, un’esplorazione in un certo senso tentacolare del proprio destino” (“Theatre de Claudel” Bulletin de la societe Paul Claudel, 108, 1987). E con questa immagine che evoca la lotta tra Giacobbe e l’Angelo o la disputa tra Giobbe e Jahvè, Tillette concretizza la scolorita immagine della “metafisica cristiana” dando senso compiuto a quell’aggettivo “simbolista”, incontrato all’inizio di questa nota, nella classificazione dei generi teatrali.
E’ anche da registrarsi il notevole, appassionato tentativo di Manoel de Oliveira di realizzare nel 1985 un film tratto da quest’opera. Non a caso è proprio de Oliveira a tentare ciò che sembra impossibile. Convinto che il cinema non esiste, ma esiste solo il teatro a cui il linguaggio cinematografico si adegua, il cineasta portoghese ha prodotto un’interpretazione di Claudel che sottolinea la teatralità del testo con accuratissimi costumi d’epoca ma fondali e ambienti platealmente irreali. Il film, che dura sette ore, si segnala comunque come un’interessante tentativo di trasposizione premiato a Venezia con il Leone d’oro.  “La scarpina di raso” era stata citata nel 1978 nelle scene iniziali di “Violette Noziere” di Claude Chabrol.
Un’esperienza di lettura, oggi e lode della molteplicità del linguaggio teatrale

All’inizio delle ferie autunnali ho letto (ed un po’ anche commentato) con un piccolo gruppo di giovani studenti universitari e con mia moglie, il dramma, composto in quattro giorni, "la scarpina di raso" di Paul Claudel. Eravamo in sei ed abbiamo più letto e riso (credo nel cuore anche pianto) che "pensato". Una studentessa di "Germanistik" e storia, uno studente di "Germanistik" e storia, una dottoressa di giurisprudenza che fra poco sarà giudice (sapendo lei il francese potevamo leggere anche alcuni passaggi nell’originale di Claudel), una studentessa di psicologia, mia moglie ed io. Coscientemente non ho voluto usare il testo del poeta francese, solo per scopi di interpretazione teologica e filosofica sull’amore.  Se Claudel avesse voluto scrivere un saggio sull'amore erotico lo avrebbe fatto, ma ha scritto un dramma, che secondo me, come ho accennato, non può essere ridotto, se non si vuole correre il rischio di rendere la "Scarpina di raso" un testo di noiosissima pesantezza. Noi abbiamo letto l'"opus mirandum" scritto a Parigi (dal maggio del 1919) e a Tokio (fino al dicembre del 1924) nella sua interezza, con tutte le indicazioni per il regista, nella traduzione tedesca di Herbert Meier del 2003. Abbiamo scelto questa traduzione, perché come dice il traduttore in una postfazione alla nuova traduzione: „Anche la lingua sottostà alla legge del muori e diventa. Parole invecchiano e muoiono e ne nascono delle nuove“ (Herbert Meier). Così anche la geniale traduzione di von Balthasar è invecchiata e può essere certamente goduta, anche oggi, da un pubblico di studiosi del teologo svizzero, ma meno utilizzabile per una lettura a più voci con dei giovani, che sorprendentemente hanno accettato l’avventura di leggere Claudel. 


I dialoghi del cinese con don Rodrigo, tanto per citare anche qualcuno dei  personaggi „minori“,  nel primo giorno, che prende in giro don Rodrigo per la sua ossessione a battezzare il cinese (ma anche quelli con il giapponese nel quarto giorno), oppure quelli tra i pescatori sul mare all'inizio del quarto giorno non sono "meno importanti" del dialogo dei santi tra di loro con le preghiere di doña Musica all'inizio del terzo giorno o dei dialoghi tra l'angelo custode e doña Proëza (trascrizione tedesca del nome), tra quest'ultima e don Rodrigo alla fine del terzo giorno. E poi le tante figure della compassione come la luna alla fine del secondo giorno, etc. Tutti questi dialoghi sono un'orchestra cattolica, universale! Bisogna mettersi all’ascolto di tutta questa pienezza e profondità cattolica per assaporarne la bellezza irriducibile dell’amore gratuito. 

Nella lista dei libri del sacerdote italiano Luigi Giussani, fondatore del Movimento di Comunione e Liberazione, sebbene non volesse fondare nulla, si trovano, due libri che portano il titolo: si può vivere così? Si può (veramente) vivere così? Confrontandosi con il tema forte della „Scarpina di raso“, l’amore erotico e non solo, ci si potrebbe chiedere: si può davvero amare così? La domanda dal sacerdote brianzolo viene posta a livello dell'amore vergine ed anche se, come ha spiegato bene Papa Benedetto XVI, nella sua enciclica "Deus caritas est",non si può distinguere del tutto tra la sfera erotica e quella dell'agape, la risposta a livello erotico, alla domanda posta, è molto semplice: no, non si può!

Proprio nella „Scarpina di raso“  viene rappresentata in modo drammatico questa risposta: no, non si può vivere così! Lo si può ad un livello diciamo più alla "Papageno/Papagena", ma a livello di "Tamino/Pamina", per prendere un esempio dal "Flauto magico", non è possibile. Nel momento in cui l'amore erotico intende ciò che deve intendere se vuole essere "puro", puro amore gratis, non può che "esigere troppo dal corpo" - la carne non serve a niente, dice il Logos incarnato! Questa mia precisazione non ha come tema l’amore vergine. A questo livello la domanda di don Giussani può e deve essere risposata  in modo affermativo. Negare la verginità come valore nella Chiesa è eresia. Ma bisogna dire chiaramente che verginità è “sola gratia”.

Se doña Proëza si è donata a don Camillo, si può donare anche a me - dice don Rodrigo tradendo la purezza dell'amore gratis! Doña Mirabilis (il nome sublime di Prouhèze (versione originale francese)) si può donare appunto a quella figura del tutto contraria all'amore gratuito che è don Camillo, dopo la morte del marito don Pelayo, ma non può farlo con don Rodrigo, in cui "compito" e "eros" sono un tutt'uno. Un tutt'uno che congiunge terra e cielo, terra ed universo.

Il grande teatro dell'amore della "Scarpina di Raso", pur con alcuni elementi "tradizionalisti" (polemica con l'islam), è ricolmo di quel grande tema della compassione e della misericordia, che in questi cinque anni Papa Francesco, un gesuita!, sta presentando nel grande palcoscenico del mondo: il fratello gesuita nella prima scena del dramma, insomma all'inizio della "scarpina di raso“, come abbiamo accennato, si offre come traduttore in cielo del cammino del fratello Rodrigo sulla terra, l'angelo custode, un’altra delle figuri „minori“ del dramma parte con doña Mirabilis, con cui sente una parentela interiore, quando lei decide di scappare da don Balthasar, a cui il vecchio marito don Pelayo l'ha affidata durante un suo viaggio. lo stesso don Pelayo non è un fanatico difensore del suo matrimonio, semplicemente non può negare l'oggettiva promessa accaduta. Poi la luna che guarda gli amanti dall'alto del cielo! Tutte queste sono figure della misericordia e della compassione! 

Tutto nella "scarpina di raso", nella molteplicità delle figure drammatiche, grida una sola parola: misericordia! O per usare le parole di una grande scrittrice americana: Senza la compassione l‘amore non è temprato, non è completo e non può durare (Ursula K. Le Guin).

L’amore come descensus

Nella tradizione di Romano Guardini e Hans Urs von Balthasar, che hanno saputo presentare una „teologia delle letteratura“ in dialogo con i classici greci, russi, tedeschi, etc., è legittimo riflettere per l’appunto anche in modo teologico e filosofico con i grandi della letteratura mondiale, ma bisogna stare attenti a non perdere la molteplicità delle voci che solo un pezzo teatrale o un romanzo e non la filosofia stessa sono capaci di esprimere. Alla fine tutto deve confessarsi in Cristo! Nello specifico dell'opus mirandum bisogna stare attenti a non farne un testo per "cristianisti" (uso il termine nel senso di R. Brague: i cristianisti amano il cristianesimo, i cristiani Cristo). Alla fine dell'opus mirandum vi è un chiaro rinvio alla santità e non semplicemente alla battaglia di Lepanto o alla battaglia che vuole compiere doña Settespade, la figlia di doña Proëza e don Camillo, kata sarka (secondo la carne), ma in vero la figlia di doña Proëza e don Rodrigo, secondo lo "spirito"(un tema questo affrontato anche nelle "affinità elettive" di Goethe), per liberare i prigionieri nella cittadella Mogador in Africa. Come abbiamo già detto similmente a Charles de Foucauld,  don Rodrigo, che è già stato il vice re dell'America, vuole diventare il portiere nel convento di Teresa d'Avila. E questo "descensus" è la figura ultima della "scarpina di raso“  - la scarpina consegnata alla Madonna e che è già di per sé un titolo sorprendentemente umile per un’opera cosmica. Doña Proëza e don Rodrigo hanno caricato troppo di significato l'amore erotico e facendo sul serio in questo non possono che rinunciarvi. Che la lettera scritta da doña Proëza a don Rodrigo, non arrivi, se non dopo dieci anni, nelle mani del destinatario è un simbolo di vitale importanza per comprendere la "scarpina di raso" . Vi sono anche figure che "riescono" di questo amore erotico, quello tra doña Musica e il re di Napoli, forse tra doña Settespade e Giovanni d'Austria, ma non è in gioco in loro il pathos che è in gioco tra doña Proëza e don Rodrigo. Nel primo amore, quello di doña Musica, sta in primo piano il bambino e nel secondo, quello di doña Settespade, la missione di liberazione di Mogador dalla mano dei mussulmani.

La gigantesca scena del quarto giorno, tutta sul mare, è tra le critiche più radicali del "cristiansimo" che abbia mai letto. Tutto il potere del re di Spagna, figura eccezionale di cristianista, traballa sul mare e non è per nulla chiaro che sia lui a prendersi gioco di don Rodrigo nella questione se quest'ultimo debba essere o meno il futuro re di Inghilterra, chiaro è invece che l'invincibile Armanda ha perso e non vinto come si è dapprima pensato (per questo era necessario trovare un futuro re d’Inghilterra).
Il carisma di Ignazio da il tono di fondo all'opus mirandum ed è un carisma di misericordia, come lo vediamo agire oggi nel palcoscenico del mondo, nella figura del Papa gesuita ignaziano e francescano allo stesso tempo: un carisma che "traduce" nel cielo tutto ciò che viene scritto nella terra, "anche il peccato". 

I fraintendimenti sulla teologia dei sessi

 Come dice con ragione Ursula K. Le Guin, il sesso (che è il momento carnale dell'amore erotico) è il fenomeno più sottovalutato e più sopravvalutato della storia. Più sottovalutato perché l'attrazione di quei cinquanta chili di carne di cui parla il Cinese nell'opus mirandum non può essere negata, anche se essi dopo qualche decennio sono irriconoscibili e non offriranno alcun spunto di attrazione. Allo stesso tempo non bisogna dimenticare ciò che il Logos incarnato dice: "la carne non serve a niente", tanto meno ad esprimere l'unica cosa necessaria, l'amore gratis, che alla fine viene rivelato solamente nel "descensus" di cui parlavo prima, qui sulla terra. E forse dopo i tanti scandali di pedofilia che vengono rivelati ora, farebbe bene la Chiesa ad ascoltare di più anche i figli di questo mondo (per esempio anche nella modalità che sacerdoti e religiosi che hanno compiuto questi atti di pedofilia esprimano davanti ad un giudice civile il perché lo hanno fatto) e predicare di meno, far parlare di più e senza censure i laici (donne ed uomini) e non solo quelli di stampo cristianista.


La „Scarpina di raso“, per il nostro piccolo gruppo, è stata un’occasione per discendere nel cuore delle ferite del mondo e per trovare in questa discesa anche l’unica speranza: „il cammino  attraverso l’inferno e il cammino attraverso le profondità sono un solo cammino, e alla fine giungono tutti e due alla stessa meta“, che è rivelazione del bisogno del cuore dell’uomo: l’incontro gratuito con l’amore gratuito del Logos incarnato!