lunedì 8 ottobre 2018

Lo sperperare come perversa gratuità dell'amore - Ferdinand Ulrich, Dono e perdono, 496sg.

Caro don Julián,
così come hai desiderato, ti ho tradotto (sto traducendo, schiacciando il link troverai, quando hai tempo, ogni giorno una pagina nuova, fino a quando ricomincia la scuola) alcune nuove pagine dell'ontologia biblica di Ferdinand Ulrich. Quello che dice mi sembra di vitale importanza per comprendere il dono gratuito dell'essere che è in primo luogo la nostra vita, ma anche il carisma a cui siamo stati affidati. 
Tuo, Roberto, un piccolo amico di Gesù 

3. Lo sperperare come perversa gratuità dell'amore (1)

a. Avarizia e l# "alienazione fatta": la dialettica dell'avarizia e dello sperpero

In forza di questo presupposto il figlio non può, in mezzo ad un appropriarsi ed un aver preso di ciò che è stato dato, aver fiducia che ciò che egli possiede come suo patrimonio, come un oggetto, sia a livello ontologico suo, sia diventata la sua propria sussistenza (2). Non può comprendere che a lui è stato donato gratis (Umsonst) (3), senza condizioni presupposte, insomma a partire dal fondamento. Così non può affidarsi all'essere- stato- portato, generato dall'aver- ricevuto, non può affidarsi a questo dono che gli è stato fatto gratuitamente nello spazio dell'essenza e del durare (der Ge-wesend-heit) (4) della sua libertà. Egli sperimenta l'originalità del suo sé non come continuamente permesso piuttosto come risultato di una colpa saldata dal Padre. La radice originaria della sua libertà non riposa nel terreno dell'amore gratis, della misericordia. 

Per questo non è in grado di cominciare in libertà "da sé", di stare sui suoi piedi e di camminare in forza del suo personale essere se stesso. È incapace di lasciar andare se stesso in semplicità, di lasciar andare  il suo  Βίος, che egli possiede solo come un oggetto (non come la vita), incapace di possederlo nella modalità dell'amore e della vita, nella fiducia del suo essere stato donato in modo irreversibile e fedele, di essere in pace in ciò che è stato donato. Egli viene piuttosto, nel modo con cui prende possesso del suo Βίος , costretto ad accertarsi continuamente dell'"avere del suo patrimonio". Non può lasciare all'amore misericordioso del Padre, in forza del quale e egli vive, la "motivazione di se stesso", ma deve compiere continuamene la performance di "essere il Signore di se stesso". Non è capace di lasciare se stesso così come è, non è capace, dimentico di sé, di dimenticarsi realmente di sé, ma diventa servo della necessità di produrre con le sue forze l'originalità del suo sé. Questo lavoro da schiavi della fondazione di se stesso, nel quale egli gira solo intorno a se stesso, consumerà tutte le sue forze e lo consegnerà alla grande fame, nella quale il Padre misericordioso gli dona la grazia di diventare intimo a quel colui che egli è in se stesso, a partire dall'origine, nel mistero del suo essere, rimasto continuamente - a colui che è attraverso la presenza misericordiosa del Padre, in mezzo alla fame, nel vuoto del non avere: il figlio. 

Ma per ora non siamo ancora a questo punto. Il figlio vuole, attraverso una sua propria performance, vedere permanentemente il fatto dell'originalità del suo sé. Per questo stanca (5) il proprio percorso nella costrizione della dimostrazione che egli è veramente il Signore di se stesso ("il proprio padre"). Per questo non potrà vivere in pace la propria vita, ma sarà piuttosto costretto, per così dire, "dal di sotto di se stesso", dal profondo della propria origine di fondare in primo luogo il dominio di se stesso. Questa forma dell'auto- fondazione, in cui si comporta in modo del tutto regressivo, perché egli continuamente deve essere preoccupato della costituzione del suo proprio inizio, renderà impossibile l'agire dalla profonda pace dell'essere fondato in se stesso, la libertà che giace nel suo passato sostanziale (traduco così: Ge- wesend- heit; RG). La sua apparente partenza libera nel "grande spazio" si capovolge in una fissazione servile sulla legge del suo rapporto con l'origine, dalla quale voleva liberarsi con la sua fuga in avanti. Così come (ai suoi occhi) non non è ancora liberato dall'origine, non è congedato in ciò che gli è proprio - piuttosto il suo patrimonio nell'ousia dell'inizio gli è stato tolto e vietato - così ora non può andare in libertà sulla sua via, ma deve preoccuparsi in se stesso della sicurezza del suo patrimonio, deve insomma accreditarsi in modo vittorioso  la sua propria ousia. Proprio ciò che egli nega gli è imposto come legge del suo percorso.  

Egli non ha avuto fiducia nel sì dell'origine, che gli è stato donato in modo gratuito, in sé e per sé - e così nella sua sussistenza personale che lo sostiene proprio nel sé. Per questo non è capace in modo positivo di "rinunciare a se stesso" nella gioia dell'essere amato. Non vuole porsi nelle mani del padre, che gli ha consegnato la sua vita gratuitamente, per gioia, che lo ama per se stesso: "Il padre mi ha donato a me stesso "per nulla", liberamente e senza intenzioni, e proprio questo mi permette di abitare in me stesso  ("habitare secum", Benedetto da Norcia), mi da la potenza dell'amante "da sé", di compiere la vita a partire dalla mia essenza: anche "per nulla" e senza intenzioni. Posso vivere in modo originario, per amore, senza fondamento, senza perché , gratis, senza aggrapparmi in modo convulso alla mia vita come ad un bottino. 

La certezza del figlio, della sua auto fondazione, rappresentata e prodotta, nella modalità  dell'avere può consistere solamente  nell' "affermare ostinatamente" e continuamente il suo essere, avuto come un "esso" (il patrimonio), come suo e che sottosta solo a lui e di cui solo lui può disporre e che può sottostare solamente alla sua volontà. Ciò devo essere dimostrato a livello oggettivo e pratico. Perciò tradirà la verità che il dono che gratuitamente fluisce del padre è il centro del suo essere se stesso. La dissocerà, la confonderà, la pervertirà in due direzioni. Una direzione è il come della sua praticata appropriazione di sé, la seconda farà apparire la forma della sua auto originalità messa in scena come io. 

Il volersi sfocia nell'avarizia (avidità), nello stato della brama, che siede sul proprio oggetto: "ciò che ho, questo lo possiedo io". Quello che in segreto ha rimproverato al Padre, proprio in ciò si irrigidisce il suo comportanto: "devo sorvegliare ciò che ho avuto come la mia sussistenza, devo accertarmene, devo astrarlo dalla sua variabilità e trasformarlo nella forma di "ciò che rimane", lo devo sottrarre al divenire e sparire. E questo accade nel migliore dei modi se lo oggettivo e se gli tolgo la qualità di un auto movimento vivo e libero, della comunicazione nella carne e nel sangue. La cosa più sicura sarà se lo de-materializzo e lo rendo un puro contenuto del sapere, che non devo più compiere in modo corporale e che possiedo nella sua intelligibilità "senza tempo". E nello stesso modo de-materializzo il patrimonio percepibile con i sensi e il corpo: astraggo il suo valore e me lo assicuro nella forma del denaro" (( Nota 271: "divinità visibile che affratella in modo stretto cose impossibili, le costringe al bacio! Parli in ogni lingua", Shakespeare, Timon di Atene. Cfr. anche Karl Marx, Economia nazionale e filosofia, in Frühschriften, a cura di S. Landshut, Stoccarda, 1953, 297 sg. )). 

Così la vita del suo sé, il suo  Βίος- patrimonio, diventa un capitale morto, a cui è stato rubato il suo carattere essenziale dell'essere donato e del donarsi. Ora il dono ontologico di sé può essere identificato solamente come perdita di sé, cioè con la la perdita di ciò che aveva. In questa avarizia non può liberarsi come libertà, non può lasciarsi andare e cedere. La forza dell'impegno di se stesso scompare e scompare ciò che originariamente ha inteso e cioè il poter vivere da se stesso.

Egli archivia il suo patrimonio e non ha il coraggio di spenderlo come un talento ricevuto, cioè di fare ciò che può essere e di cui è capace. Seppellisce la vita nella fossa, come il servo nella parabola dei talenti e lo lascia andare via, passare, lo seppellisce come qualcosa guardato in modo passivo, accaduto e in questo modo come un possedimento che rimane uguale nel carcere del suo io = io. Seppellisce la sua libertà e non è più in grado di essere questa libertà come corpo, di godersene nella carne e nel sangue, di affermarla gratis e come amore. Così muore il suo amore di sé e la misericordia nei propri confronti. Egli non si ama nel e con l'amore, nel e con l'amore con cui lo ama il Padre. 
((Nota 272: Non aiuta più se stesso (e gli altri) a giungere a quel bene, nel quale unicamente egli e gli altri possono essere realmente felici. Cfr. Agostino, De civitate Dei 10,6 (= PL 41,283). "Totum bonum meum est: Deo inhaerere gratis" (in Epist. Joan ad Parth. tr. 9,10; PL 35,2053). Amare questo bonum è il vero amore di sé, cioè "avere misericordia con se stesso"; è "il vero sacrificio" (cfr. PL 41, 284). "Qui se propter habendum Deum ( = propter Deo inhaerere gratis) "diligunt, ipsi se diligunt. Ergo ut se diligant, Deum diligunt" (PL 35, 1846) ))
Non può nel suo essere libero donato lasciare se stesso come è. La sua calma amorosa diventa un essere passato, viene pervertita nello stato del morto, dell' esso. Ma da questo stato d'animo non nasce alcuna pace, ma solo la paura dell'aver già vissuto. Così è costretto di tirare fuori dalla tomba continuamente ciò che è stato seppellito, ciò che è affondato nel passato, è costretto a farlo risorgere dai morti e di dimostrare la sua "vivacità creativa". E ciò accade, come vedremo, nello sperpero. 

(9.10.18; 11,30 h)

Sotto il dominio dell'avidità l'io è degradato in una realtà sostanziata ed astratta che si ampia solamente nello spazio interno di se stessa, all'interno dei suoi confini. definiti dall'io = io, senza essere feconda ontologicamente in se stessa e senza crescere, al di là di se stessa, in una libera trascendenza di sé. Avidità è una modalità dell'ampiamente di sé rimandando uguali a sé, perdita del cambiamento essenziale che è intimo al sé amoroso. L'avaro fa guerra al diventare l'altro nella modalità dell'amore. È incapace ad essere Io: Tu in se stesso (egli, lei). Anticipa l'altro, l'altra cosa come momento indifferente nella chiusura del suo io = io e lo proietta o proietta la cosa, per così dire, nel suo muro interiore.

L'avaro risparmia, nell'impegno del suo essere, di esprimersi a livello dei sensi e del corpo delle sue forze essenziali.
((Nota 273: In questo contesto l'etimologia della parola "sparen" (risparmiare) è molto istruttiva e conferma il pensiero che stiamo sviluppando. Cfr. l'inglese spare: "aver riguardo di, conservare illeso". L'avido risparmiatore rifiuta la vulnerabilità della libertà che si gioca nell'offerta e nell'essere colpito. Tutte le ferite si rimarginano subito, l'io si chiude in e con se stesso. Non è d'accordo con un cambiamento intimo e si punisce "conservandosi puro di fronte alla devastazione" (nel senso dell'"anima bella" come l'ha descritta Hegel in modo preciso nella "Fenomenologia dello Spirito") devastandosi: diventa "scarso, misero, scarno". La radice indogermanica di "sparen" è: spe, spi: "ampliarsi". In questo senso "lo spazio vuoto" di cui abbiamo parlato corrisponde, nel suo disinteressamento ed omogeneità vuota, all'avido nella sua pseudo pienezza, cioè al patrimonio a cui sembra tutto possibile, ma che in forza di una mancanza di impegno, non diventa reale". ))
Per paura di perdersi non ha il coraggio di crescere come una persona che è stata donata per amare nella pienezza del suo sé e di maturare.
(( Nota 274: Ha i sensi (gli occhi, le orecchie, il tatto, etc.), ma non li vive (non vede, non sente, non tocca). Ha delle immagini, ma non le forma né verso l'interno né verso l'esterno. Ha informazioni, ha sapere, ma non riconosce; non giunge in modo riconoscente al sapere, non giunge attraverso il guardare all' avere guardato ( = saputo). ))
Così la sua vita diventa un patrimonio reso cosa, che egli crede di potere chiudere in se stesso senza cucitura, ma che proprio in questo modo perde continuamente in valore. Il patrimonio gli sfugge e perde per l'appunto di valore. E proprio questa esperienza lo seduce a mostrare nuovamente che si tratta della sua proprietà, che egli ha nelle mani, che egli è il Signore di questo patrimonio. Compie ciò attraverso lo sperpero.

K. Marx, nel suo modo, ha compreso precisamente questo tipo di legami: "L'offerta di sé, l'offerta della vita e di tutti i bisogni umani: quanto meno tu mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, a ballare, all'osteria, pensi, ami, teorizzi, canti, fai, senti, etc. tanto più risparmi, tanto più diventa più grande il tuo tesoro, che non viene ingoiato dalle tarme e dalla polvere, il tuo capitale" (6). Questo "tesoro" è solo la manifestazione percepibile con i sensi dell'essere eterno dell'io = io, che è contro la propria espressione e la propria povertà, contro il suo diventare tempo (Sichzeitigen) (7) come atto elementare della sua libertà incarnata. Egli è espressione, contro la sua morte (il perdersi per amore), dell'astratto io = io che vuole stabilizzarsi e non perdere tempo. Quindi: si tratta di una ricchezza dell'esistenza che astrae dal proprio amore- povertà ontologico sostituendo la perdita del fecondo vuoto dell'amore (perdita del sé), che accade contro la sua volontà, con la miseria senza vita del suo "stato di deserto". (8) Poiché l'avido non vuole rinunciare a se stesso (all'avere se stesso), attraverso un esprimersi fecondo, così deve compiere in modo perverso ciò che appartiene alla struttura essenziale della libertà: rinuncia in modo negativo a se stesso. Si difende dall'essere come dono in tutte le maniere: "non ne ho per nulla bisogno. Posso rinunciare anche a questo" per dimostrare che non ha bisogni, che è ricco, che autarchico. "Quanto più posso soffrire la fame, tanto più posso dimostrare che sono sufficiente a me stesso, che sono un "ens a me" (9).

(9.10.18, 13, 40 h)

Un tale sacrificio non accade (come nella storia dell'intagliatore del legno, che abbiamo considerato prima) nella sempre più grande libera volontà del creare "da sé", la cui pienezza d'amore  in se stessa è così povera, che proprio nel più intenso "essere medesima con se stesso" si esprime (10), si compie proprio nella donazione all'altro, invece che nella rinuncia perversa, dove l'io =io irrigidisce il vivente essere se stesso, lo iberna nella sua avidità per non doversi donarsi (anche inutilmente) nella sua carne e nel suo sangue amorosi. Poiché l'avaro vuole salvare la sua vita pervertendola contro la morte, poiché non vuole morire la morte della donazione amorosa di sé sostituisce la "morte nella vita" (11) con una morte cattiva dell'auto irrigidimento, nella quale muore davvero e si perde nella infecondità del suo "cuore di pietra". 

"Tanto meno tu sei, tanto meno esprimi la tua vita, tanto più hai e tanto più grande è la tua vita espressa, tanto più immagazzini nella tua essenza alienata." - "è tutto ciò che tu non puoi, lo può il tuo denaro"." (12). Se la vita non viene vissuta, non viene espressa, non viene donata in modo amoroso, allora essa si affossa nella forma del "esso", cosicché colui che si ha in questo modo nella modalità dell'avere dell'io = io, che si sente a casa nel suo capitale morto, si spezza per così dire all'esterno. Questo crollo, questa espressione e comunicazione di sé impotente e perversa è essa stessa una funzione dell'avarizia che tenta di vivificare da sé la sua mancanza di vita (con i mezzi della morte); di rendere liquido il suo irrigidimento (13), di produrre da sé la fluente "mancanza di perché" (Warumlosigkeit = gratuità; RG) della donazione amorosa. Così si rivela lo sperpero, il dare senza forza  per un capriccio della pervertita mancanza di perché dell' amore, come l'altra faccia dell'avarizia. Non è altro che una pseudo espressione di una vita non vissuta, che non è potente in forza della libera donazione di sé. Quindi: "Sperperare e risparmiare, Lusso e miseria, ricchezza e povertà sono uguali."
(( Nota 277: All'interno di questa dialettica di ricchezza e povertà, nella quale si manifesta la dimensione rotta e medesima di pienezza e vuoto della libertà amorosa, ci si deve da una parte continuamente oggettivarsi nella forma del lavoro fatto, nella quale il lavoratore  in se stesso però non si esprime nel suo essere uomo e dall'altra deve risparmiare con l'esistenza feconda in se stessa, cioè con la actio immanens dell'essere libero che vibra in se stesso ( = la fonte del lavoro umano), in modo da acquistarsi, attraverso il guadagno (il denaro), il lusso di una ricchezza sostanziale, che non potrà comunque mai sostituire il " da se" della libertà. Il frutto dell'essere libero viene fatto, prodotto come cosa, sviluppato nel processo del lavoro, ma non vissuto in se stesso. Ciò comunque che in verità qui conta è l'impegno del sé concreto a partire dall'essere frutto, cioè della povertà della libertà ricca in se stessa. "Se il seme (frutto) non cade per terra e muore...". ))

17 h



Il rovescio dell'avarizia è lo sperpero. In forza del fatto che l'avaro fa mancare al suo patrimonio un'espressione (Entäußerung) viva, lo getta alienato (entäußert) verso l'esterno, così da "esprimersi" in modo perverso, tradendo l'espressione feconda e amorosa. In questo senso lo sperpero è solamente la testimonianza della sua impotenza a donarsi da sé "senza motivo" (grund- los: senza fondamento, gratuitamente; rg). Perché ciò che esprime deve, per la costituzione propria all'avarizia, essere riportato nello spazio interno dell' io = io. Non può essere donato senza rimorso, non può diventare l'altro che riceve. In questo modo nello sperpero si trasforma, ciò che è stato espresso, nuovamente nell'oggetto della brama, che lo inghiotte - e il circolo vizioso e diabolico ricomincia di nuovo.

L'avarizia è necessariamente aggrappata allo sperpero. Lo usa come negazione del negativo ( = il suo possedimento morto), sfogandosi e gettando via se stesso. Per mezzo di questa cattiva partecipazione e decomposizione (negazione) di se stesso come avere, in cui la capacità originaria di amare è stata oggettivata e nella quale era morta (: il negativo), l'io è indaffarato in una vivificazione perversa del suo essere- uguale- a- se- stesso e tenta di salvarsi da sé dall'irrigidimento mortale del monologo.

Lo sperpero è la sostituzione impotente di quell'eccedenza, pervertita e persa, dell'auto comunicazione amorosa, che il figlio non vuole né ricevere né vivere. Inscena così l'espressione di sé, di cui come avaro e monade in sé chiusa non è ontologicamente capace, sprecando e dissipando ciò che ha avuto. Essendo l'"amore gratis" qualcosa di cui non è capace, produce l'"eccellenza" delle cose (14) per auto godere interiormente del proprio patrimonio, della propria ricchezza e per far vivere altri generosamente attraverso di sé: "sono la fonte della sussistenza dell'altro; sono l'origine". In questo modo ripete in forma perversa il mistero andato perduto dell'amore originario che si dona senza perché, che antecedentemente ha negato come fonte di nutrimento e liberazione della sua propria esistenza: "Io sono io stesso, sono il signore del mio essere, perché lo posso dissipare (al di là di ogni "se...allora", e di tutti "perché e perciò") completamente senza motivo, sporgendomi fino all'abisso (la perversione sub specie boni come "diffusivum sui ipsius"). La mia realtà non è limitata attraverso misure esteriori, presupposti, condizioni; posso agire in modo assoluto, libero da ogni condizione a partire da me stesso. Sono la mia propria origine".

10.10.18, h 10

Ma, e in questo il figlio punisce se stesso, egli non può donare il suo sé all'altro come dono della libertà perché non vive la sua propria "vita" come consegnatagli dal Padre, come capacita di essere libero e non la compie come amore che gli è stato donato. La dimostrazione della falsa originalità del suo sé gli rimane del tutto esteriore, si muove per così dire accanto a lui, al di fuori del suo nocciolo essenziale. È l'operosità vuota e non feconda del suo ceco orgoglio con cui si distrugge dissipando il suo patrimonio (15). Dando nella modalità dell'aver ricevuto, ringraziando ed amando potrebbe crescere in se stesso nell'offerta del suo patrimonio , nella profondità della sua libertà. Farebbe diventare fecondo il suo essere- donato- a- se- stesso, la pienezza della vita a lui donata. Il suo dare sarebbe reale ( Όντως) e fluirebbe nella verità e in questo senso radicalmente positivo sarebbe una "prodiga" auto comunicazione, nella quale colui che dona diventa di "più" ontologicamente (non solo quantitativamente), e può partire in un essere- sempre- di- più che cresce e in questo modo testimoniare l'inesauribilità dell'essere che ha ricevuto, accolto e vissuto. Dando vivrebbe a partire dall'aver ricevuto il dono, cioè compiendo nello stesso tempo il prendere (o l'aver preso) di ciò che è stato donato, affermando nel prendere l'essere- stato- donato- del- dono, la cui vita egli vive donando a sua volta. Dando prenderebbe, aumentando il proprio sé, crescendo perché dare e prendere nell'amore (al di là di ogni simmetria (16) e fissazione del "do ut des") possono essere usati in modo medesimo (17).

Dissipando il patrimonio "da" ciò che non è. Così non rivela un patrimonio essenziale, ma solo uno apparente. Inganna se stesso e gli altri. Nel suo Βίος sprecato non arriva al linguaggio partendo dalla profondità del suo essere. Rimane come io morto, dietro l'apparenza del suo esprimersi invadente, produttivo, fluente lo schiavo sterile e meschino della sua impotenza. Il suo rimprovero segreto nei confronti del padre: "tu hai semplicemente una ousia, che contiene anche il mio patrimonio, ma non la puoi testimoniare da te in una auto comunicazione personale e per questo la mia parte di ousia, che mi appartiene, fino ad ora non è ancora diventata mia proprietà" - questo rimprovero cade ora sulle sue spalle e lo giudica. Rimane dietro dietro tutte le sue espressioni, incapace di generare. Non può essere presente all'altro corporalmente e in libertà, non può entrare in rapporto con lui nella modalità del dono, né esteriormente né intimamente. Senza forza ed incapace di generare oltre a se stesso, ricade continuamente in se stesso. Perché le possibilità proiettate nello spazio vuoto della sua auto conferma sono loro stesse incapaci di ricevere. Non accolgono nulla, ma rispecchiano solamente l'apparenza della espressione di sé da parte di chi è capace solamente a sperperare e sono infeconde. Nel "tra" del dare e prendere, aperto dallo spazio vuoto, non può, né colui che da, esprimersi, attraverso il dono al di là di se stesso in colui che riceve, né quest'ultimo accogliere la comunicazione dell'altro ed appropriarsene. Lo spreco crea una povertà ed un bisogno sempre più grandi. Ciò produce un'eccedenza superabile solo apparentemente. Perché lo sperpero non è in grado di donare all'altro nel suo sé e di guarire il suo bisogno a partire dal fondamento.

Il patrimonio che il figlio dissipa non è stato ricevuto realmente e di esso non ha reso grazie. Insomma non da in forza dell'aver ricevuto. Il suo donare non porta il sigillo dell'essere stato ricevuto e non "vuole" perciò per nulla essere ricevuto dall'altro. Il dissipatore non può donare per colui che lo riceve. Non da per rendere capace l'altro, per aiutarlo, per servirlo e per liberarlo, ma gira, nella sua espressione piena di godimento, intorno a a se stesso. La sua kenosi apparente è piegata su di sé. Non serve l'altro, ma solamente l'auto accertamento dell'io = io nella sua ricchezza. Il dissipatore non consegna, ma getta via. In questo modo perverte il gratis, il "pro nihilo" dell'amore: è per lui lo stesso dove egli getta la sua ricchezza. La getta anche ai porci di cui presto sarà il guardiano. Così sembra che egli faccia tutto "per nulla", gratis, senza essere fecondo nell'altro. Ma "getta le perle ai porci".

17 h

b. Lo sperpero nel giudizio della povertà liberante

Chi sperpera non è e non vive ciò che da. Per questo motivo non può intendere colui a cui si da per quello che è, non può colpirlo nel cuore della sua libertà, non può generarlo. Non ha compiuto il prendere ricevuto del dono dal padre come l'atto elementare e personale del suo proprio essere- fondato- in- se- stesso. Non ha imparato, attraverso l'obbediente accoglienza ed accettazione del patrimonio- libertà donato, ad essere se stesso. Il prendere per lui era solo una temporanea condizione, che doveva essere compiuta per lo scopo dell'avere, ma non è, nel compimento della propria esistenza, qualcosa di intimo. Con il suo prendere non cede obbediente alla volontà di colui che lo ha ricolmato di doni. Ciò che a sua volta dona non ha la proprietà dell'essere stato ricevuto e preso così che non è capace di compiere nel dare il prendere e nel dono il suo potere essere ricevuto. Senz'altro egli da, ma senza la forza di risvegliare nell'altro il prendere di ciò che è stato dato. Il suo "dono" non vuole trasformarsi nella vita di chi prende, ma solamente sprecarsi(18); vuole essere dissipato e non far nutrire, crescere, promuovere, ma vuole "far piccolo" l'altro e nel senso negativo della parola: "umiliare". Non ha una potenza che fa crescere (augure: aumentare, auctoritas). Il suo donare è senza padre - anche se chi sperpera vuole scimiottare la originalità senza origine del donare paterno.

Così il suo sperperare gli diventa fatale. In tutto ciò che egli da non viene accolto dall'altro come egli stesso. Egli si dona, ma rimane infecondo. E come nella consegna del patrimonio non ha permesso all'amore del padre di entrare in lui, così non gli sarà permesso di entrare nello spazio vuoto. Dappertutto deve rimanere "fuori", perché lo spazio intimo della libertà che lo accoglie in modo amoroso non si può comprare. Egli si disperde mentre cerca di essere gentile con gli ospiti e concede all'ospite la presenza della libertà.

In forza della modalità non libera ed alienata della sua "auto comunicazione" si farà esperienza di un altro e non di lui stesso, non lo si accoglierà e non lo si comprenderà. Egli non viene preso sul serio, ma si sfrutterà il suo corpo, la sua potenza sessuale, la sua apparenza, il suo aver soldi, la sua capacità retorica, etc. - e tutto questo isolato per sé, separato dal cuore vivente del suo sé; il tutto non accade nella trasparenza della sua persona, che a sua volta non si prende tempo realmente e non si esprime realmente.

11.10.18 8,30 h

Perché l'altro può, al cospetto di un dare che non è capace di prendere (e che non è in grado di svegliarlo e renderlo capace di accogliere ed interiorizzare quello che è stato donato), afferrare solamente ciò che è esteriore e superficiale - a parte nel caso che egli sia uno che prende nell'amore. L'amore non vuole avere avidamente, per esso il prendere è a sua volta è un dare, un donare a chi spreca, un'offrire con cui se quest'ultimo è d'accordo (questo presuppone una profonda conversione e trasformazione) lo apre alla possibilità di un dare fecondo. Colui che prende con amore dona, attraverso il dono del suo prendere, a chi spreca, la forza, nella cura di ciò che è stato donato, di dare nella modalità del servizio. Accetterà colui che spreca questa offerta e si convertirà in forza del dono per l'appunto offertogli da chi sa anche prendere? 

(( Nota 279: Il prendere accade essendo d'accordo e con un'affermazione attiva dell'essere- stato- dato del dono ricevuto e compie così nell'appropriazione di ciò che è stato dato sia l'atto del dare sia l' affermazione implicita della sua origine, la quale si rivela per quello che essa stessa nella comunicazione del dare è. Così il prendere ha una struttura in due direzioni: l'accettazione del dono non accade mai in una direzione unidimensionale, da chi da a chi ha ricevuto. Piuttosto quest'ultimo verrà posto, proprio perché prendendo è reso capace di portare la genesi (= il genitivo fecondo: il dono del padre) di ciò per cui è stato dotato, all'interno dell'origine, che nel dare compie ed afferma se stessa. Questo percorso con una struttura in due direzioni (trasformazione intima del dono di colui che prende come sua trasformazione in chi dona) non intende nessuna figura dialettica, in cui i due poli che si muovono l'uno nella direzione dell'altro spingendosi a vicenda. Tanto meno viene qui proposta una costellazione di simmetrica indifferenza. Questa è piuttosto superata nel primo passo (19) della libertà di chi dona. D'altra parte non è lecito interpretare l'iniziativa di colui che da in modo unilaterale e per così dire oggettivo, al di là del prendere e presupporla come isolata, perché la sua potenza si rivela nell'atto senza intenzioni e senza perché del prendere che è a sua volta ricevere, che prende ciò che viene donato gratis in modo gratuito. Si tratta di un'originalità duplice e semplice di dare e prendere. Poiché la profonda obbedienza di colui che riceve si rivela nel fatto che "chi è stato dotato" lascia accadere tutto nella modalità della ricezione e lascia operare la volontà (la vita, la libertà, il Sì) di chi dona nella carne e nel sangue della sua esistenza concreta e lo sa generare così, allo stesso tempo, creativamente nella fecondità della propria libertà grata (il mistero della theo- tokos).
In questo contesto dobbiamo rimandare ad un aspetto molto importante. La forza del dare non si rivela nella modalità di un gettare via il dono, o esprimerlo solo in modo esteriore e tanto meno come ripugnanza, ma invece nel fatto che è capace di testimoniare, proprio attraverso l'atto del donare e la pienezza del dono, la sua espressione povera, cioè il suo essere stato ricevuto e dato. Insomma chi da è in grado: di dare e venir accolto; di risvegliare attraverso il futuro  del suo dono nell'altro la capacità dell'appropriazione del dono stesso (di seminare attraverso il dono il ricevere, attraverso la parola donata l'ascolto) e attraverso il dono l'altro è capace di "passato". Di questo è capace solamente uno che possiede ed ha ciò che dona (il dono come comunicazione della sua vita) in libertà, insomma colui che ha ricevuto e accolto  il dono come vita sua propria essendo così nella sua essenza uno che prende. Solo il dono si esprime senza limiti nell'essere- stato- donato, che anche nel "risultare da" è formato da chi dona attraverso l'atto del dare e la "passione" del ricevere; nelle loro modalità differenti questi due processi possono essere usati ed intesi come medesimi. Questo modo di comprendere apre alla comprensione, pur nel suo essere ancora "ombra", di alcune tracce del mistero luminoso dell'amore trinitario. L'atto del dare creativo non è differenziabile da un positivo prendere ed avere, che, però, non può essere confuso con l'avere della brama che si vuole impadronire di tutto. In questo senso "essere ed avere" non sono un'alternativa)). 

12.10.18 9 h 


C'è una povertà accogliente che dona la forza del dare a colui che non può dare, ma solo sprecare, che gli concede insomma la possibilità di essere auto comunicazione libera. Se costui l'accoglie, se l'accetta allora si è già girato ed ha fatto i primi passi nel vero donare. Ma colui che spreca non vuole incontrare questi uomini perché si difende al cospetto di un ricevere ontologico e non vuole essere scoperto nella sua impotenza, nel vuoto della sua sussistenza. Non vuole incontrare uomini che ricevono così, perché sente: qui è in gioco qualcosa di più e di diverso di uno "spazio vuoto", povertà negativa, possibilità astratta, nel la cui sfera posso sfogarmi. Qui è in gioco un ricevere , la cui povertà mi pone sotto il giudizio  di un dono vero, che mi purifica fino alla fonte dell'originario dare gratuitamente, che mi riporta all'inizio dell' "Amore gratis" e che  richiama il ricevere amoroso, che dimentico, rimuovo e rifiuto dalle mani del padre e che non voglio ritenere per vero. Colui che spreca ritiene di non dovere nulla al dono di questa povertà per il suo dare. 

Incapace di compiere ciò che riceve rimane in tutto ciò che fa distratto, frantumato, fissato in se stesso e senza amore. Poiché di fronte a colui che riceve si presuppone come uno spazio vuoto in cui dissipa la sostanza morta del suo io = io, in cui getta via l'espressione solo apparente (disperdendola), per godere di sé nella sua falsa originalità del sé, così abbisognando solamente e producendo intorno a sé miseria e fame che vivono di lui, della sua pseudo espressione. Miseria e fame come un aver bisogno vuoto, passivo e che vuole solo possedere e che attraverso questo suo prendere di questa ricchezza non sarà mai in sé compiuto e liberato in un essere per l'appunto autenticamente libero. Perché ciò significherebbe per lo sperperare perdere l'altro come un semplice consumente, "possibilità vuota", come spazio vuoto ed impotente per il dissipamento di ciò ha in  modo eccedente. 

21.10.18, 15 h

Per questo il dissipatore deruba colui che vuol lasciar "vivere" attraverso se stesso, senza permettergli in ciò quel profondo rispetto per la libertà del "da- sé", la ricchezza del suo personale essere- fondato- in- se- stesso: la dignità che gli è stata donata dal creatore, i suoi valori, la sua tradizione, la pienezza della cultura, i tesori della sua sapienza, la forma matura della sua esperienza, del suo pensiero, le strutture sociali cresciute autenticamente, etc. Tutto questo viene annullato, in modo che si apra "lo spazio grande e vuoto": allo scopo di un perverso dare e prendere della ricchezza, attraverso il quale, il cosiddetto "sottosviluppato" si sviluppi dapprima e così possa diventare se stesso. Egli non deve comparire come l'altro nella sua singolarità a partire dalla ricchezza della sua essenza, invece gli viene rubato il sé, il nocciolo e viene ridotto ad una possibilità passiva per la "ricchezza", che solamente attraverso l'atto dello spreco di colui che da diventerebbe "reale". 

(( Nota 280: il nostro cosiddetto  "aiuto ai paesi di sviluppo" si trova spesso sotto il falso diktat di questo schema atto- potenza che riduce tutto in cose e che per questo deve rimanere del tutto infecondo perché chi da non vuole comprendere che egli può donare in modo creativo e liberante solamente nel si all'irriducibile essere se stesso dell'altro, del povero come colui che a sua volta da (che in primo luogo dovrebbe ascoltare dando spazio al futuro e servendolo a partire da lui stesso)). 

Chi dissipa non può (vuole) incontrare il povero nell'amore, che è gratis, insomma non lo vuole affermare nell'atto elementare della misericordia (ed egli odia e combatte tutti quelli che fanno così - sotto la falsa apparenza che gli vietano di "fare del bene al povero". Se il dissipatore affermasse i poveri nell'atto elementare della misericordia (ciò che significherebbe la sua morte, cioè la conversione al donare amoroso), così non avrebbe più alcun "spazio vuoto", nel quale egli possa sfogarsi economicamente, nessuno che gli prenda i suoi prodotti come affamato (cliente). Ai suoi occhi solo attraverso il possesso chi riceve è davvero prezioso (wert - voll: pieno di valore;rg); mentre con una vera conversione non avrebbe più uno semplicemente stupido ed ignorante davanti a sé, che deve essere in primo luogo formato - e precisamente nella forma di un sapere, nel quale ed attraverso il quale veda ed interpreti se stesso e il mondo come lo vede e lo interpreta il dissipatore. Per questo motivo il dissipatore rifiuta continuamente la conversione e lotta contra tutti coloro che  con il loro amore trasmettano ai poveri il mistero dell'amore- povero, e che presentano loro dall'interno la ricchezza del loro essere uomini come dono del Padre (20). 

22.10.18 19 h 

Il "dare" del dissipatore viene guidato dall'intenzione di far lavorare per sé chi riceve, sotto l'apparenza di un aiuto che lo affermi: in mezzo alle illusioni propagate d'emancipazione. Non si vuole accogliere il povero e servirlo per la sua propria persona attraverso l'atto elementare dell'amore misericordioso, che è gratis, nel luogo essenziale del suo essere libero. Lo sperpero non osa lasciar l'altro, nel senso positivo del termine, come alcunché di "inutilizzabile", come scopo a se stesso. Non è in grado di accogliere con gratitudine l'altro nel luogo del suo incondizionato essere amato ed affermato da Dio. Non ha forza per una semplice e pura solidarietà amorosa degli altri "con- uomini". Piuttosto è menzognero con il povero (che in fondo non desidera altro che l'eccedenza ontologica dell'"amore da sé"): conquisterà l'eccedenza di sempre più merci, se si sottometterà alla legge dello spreco, alle sue forme produttive e alla sua economia. E proprio in questo modo si rende impossibile la sua vera liberazione. 

23.10.18 5,30 pm h 

Lo spreco diffonde intorno a sé il vuoto per il quale esso può "essere tutto". La sua esistenza per l'altro si esaurisce nello svuotare la sua personale capacità di essere e di sostituirla con una vita apparente: "senza di me non puoi essere; ciò che faccio per te non lo hai atteso, non hai supposto una tale eccedenza. Ciò che ti offro è molto di più di ciò di cui tu hai bisogno per una pura sopravvivenza. Ti porto un'eccedenza di beni, ciò che non sottostà ai miseri scopi della tua esistenza. Non è questo motivo sufficiente per essermi grato?" Ma il dono del dissipatore non può venire realmente donata all'altro, non può diventare la fonte della sua libertà. L'io, che in essa può solamente sfogarsi e perdersi, senza poter esprimere in modo fecondo se stesso, brama solamente la crescita del proprio potere, la dimostrazione della propria autarchia. Il proprio donarsi è semplicemente godimento di sé: "infatti posso vivere da me stesso senza fondamento e senza perché, visto che posso dare di più di ciò che devo? Non è questa la ricchezza della libertà che vive della propria essenza, che è autonoma, cioè che è diventata padre di se stessa?"

c. Eccedenza e fame. La paura dello spreco al cospetto della propria inutilità 

24.10.18  18 h (non so come mai il testo ridiventa blu sebbene dopo la nota (( )) è un normale testo)


Continua: https://graziotto.blogspot.com/2018/10/ii-lo-sperperare-come-perversa-gratuita.html


(1) Ferdinand Ulrich, Dono e perdono. Un contributo sull'ontologia biblica, edizione tedesca 496- 506

(2) Questo non vale solamente per il patrimonio di cui si parla nella parabola, ma anche, per esempio, analogicamente per l'appropriarsi di un carisma, dato dal cielo al fondatore, da parte dei "seguaci" prima o dopo la morte del fondatore stesso (RG). 

(3) Umsonst significa in tedesco gratis et frustra. (RG)

(4) In questa parola vi è il passato (gewesen) e la sostanza (Wesen) del dono passato. (RG)

(5) Nel senso di "lavorare stanca" (Pavese). RG

(6) Economia nazionale e filosofia, ibidem 258. FU

(7) Per usare il principio di papa Francesco che il "tempo ha priorità sullo spazio": l'avaro vuole occupare spazi di potere, invece che prendersi tempo per processi amorosi. (RG)

(8) Non bisogna dimenticare che per Ulrich l'essere come amore è sempre reale povertà. Per quanto tutto ciò che percepiamo sia (!) l'essere stesso non è sussistente. Ulrich segue Tommaso nella definizione dell'essere finito come "simplex et completum, sed non subisistens". Relativamente sussistenti sono le cose, gli animali e le persone non l'essere. La filosofia postmoderna ipotizzando un' "ontologia debole" vede in parte la verità. L'essere in se stesso è "nulla", ma non il nulla del nichilismo, piuttosto quello dell'amore gratuito che il linguaggio rivela quando ad un grazie rispondiamo che "non fa nulla". Questa reale povertà- ricchezza viene sostituta dall'avaro con la desertificazione della sua miseria pensando che sia u n tesoro. (RG)

(9) In questo contesto si capisce filosoficamente anche l'intento di Massimo Recalcati nel suo "Contro il sacrificio" (Milano 2017), in cui egli distinte tra un "sacrifico simbolico" positivo ed uno "fantastico" negativo. Quello "fantastico" del "fantasma sacrificale" non corrisponde alla struttura ontologica dell'essere amore povero, ma alla miseria di una pseudo autarchica auto sufficienza che ha una sola conseguenza: la devastazione di sé. La differenza tra le due idee di sacrificio ha quindi non solo una rilevanza psicologica, ma anche una dimensione ontologica, come vediamo nel testo di Ulrich. RG

(10) Ho rinunciato a tradurre letteralmente "sich entäußern" (si aliena). RG

(11) Ulrich ha approfondito questo tema nel suo "Vivere nell'unità del vivere e del morire". Mentre altre volte Ulrich sorrideva quando gli dicevo che leggevo i suoi libri - anche se una volta mi fece forse il più grande complimento che mi abbia mai fatto qualcuno e cioè che la mia esistenza si muoveva a pari passo con lettura del suo grande "Homo Abyssus. Das Wagnis der Seinsfrage" - , dicevo sebbene a volte sorrideva quando gli raccontavo di leggere le sue opere, quasi non avessi altro e meglio da fare, mi consiglio personalmente la lettura del suo "Vivere nell'unità della vita e della morte". RG

(12) K. Marx, ibidem. FU

(13) Qui viene spiegato il motivo ontologico della "società liquida" (Zygmunt Bauman).  RG

(14) Vale anche per le "iniziative". RG

(15) "Badate che il movimento non si fa crescere con le iniziative: si fa crescere il movimento se crescono persone mature nella fede. Le iniziative sono uno strumento per questa maturazione : se le iniziative non sono strumento per maturare nella fede il movimento non cresce. Saranno cose che fanno piacere e soddisfano l'amor proprio di chi le fa, ma non fanno crescere il movimento, tanto è vero che sempre, quando sono impostate in un certo modo, sono chiuse in se stesse e generano divisione, o meglio, estraneità. Invece le iniziative, tutte, dal volantinaggio alla cooperativa che si crea, devono essere concepite e affrontate come strumenti per interessare di più le singole persone che vi partecipano sia gli estranei che ne sono spettatori a questa cosa grande che è la presenza di Cristo, cui la vita nostra e del mondo appartiene; che, se Cristo fosse più riconosciuto, staremmo meglio tutti, cento volte meglio, su questa terra."

(da Luigi Giussani, " Una strana compagnia", Appartenenza e moralità", pag. 177)



(17) Questo medesimo uso delle parole "dare" e "prendere" si fonda nel motivo principale dell'Homo Abyssus (1961), che parla del "medesimo uso di essere e niente". L'essere come amore si fonda sul nulla dell'amore gratuito. 

(18) Egli dissipa: διεσκόρπισεν (aor.) da διασκορπίζω: dissipare, sprecare; far piccolo, umiliare. FG

(19) Sia Ulrich che Papa Francesco sorgono dal carisma di Ignazio ed è chiaro che si incontrano proprio nel sottolineare l'importanza del "primerear". RG

(20) Qui Ulrich ci fa capire indirettamente perché i sostenitori di una teologia della prosperità odiano Papa Francesco e lo combattono in tutti i modi. RG

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