giovedì 25 ottobre 2018

II, Lo sperperare come perversa gratuità dell'amore - Ferdinand Ulrich, Dono e perdono, 512sg.

(Caro don Julián, continuo qui la traduzione cominciata in https://graziotto.blogspot.com/2018/10/lo-sperperare-come-perversa-gratuita.html )

c. Eccedenza e fame. La paura dello spreco al cospetto della propria inutilità. 


Lo spreco non cresce dalla profondità essenziale di un essere- se- stesso che si fonda in pace su se stesso ed in forza del quale chi da, già solo per il fatto di esistere, afferma chi riceve nella indisponibilità interiormente calma della sua libertà voluta per se stessa e dotandolo così di libertà. Lo spreco non può concedere all'altro un compiuto essere- se- stesso, poiché ha bisogno di una fame che vuole solo avere, che è il contrario dell'amore povero, ha bisogno del vuoto della brama dell'altro, per lasciarsi andare e per esprimersi. L'infecondo vuoto dell'altro, che non ha ma vuole avere, è il motore del suo altrettanto infecondo perdersi nel o del guadagnarsi attraverso il consumatore. Ha bisogno di venir divorato dall'esterno, ha bisogno di una fame che la produce nella stessa modalità con cui vorrebbe superala. Produce un essere sazio che è un inganno. Come espressione ceca e perversa, apparentemente dimentica di sé, senza un'affermazione di sé oggettiva e senza una comunicazione di sé amorosa, chi riceve non può lasciarsi andare nell'oggettività interiormente tranquilla della sua esistenza. È incapace di aver cura rispettosa dell'altro nella sua singolarità personale. Non può dare così, da presupporre nell'altro in modo personale, ciò che gli fa (1). Cerca solamente consumatori che credono di valere e potere qualcosa solamente se partecipano alla pseudo eccedenza dello spreco, alla forma menzognera dell' abundantia caritatis. Per questo motivo l'altro non può ricevere in modo che corrisponda al suo sé, non come uno che ontologicamente ha ricevuto in e per se stesso e che è stato dotato (cioè affermato ed amato), quindi non può ricevere in modo libero, insomma che corrisponda ai suoi propri, veri e personali bisogni. Lo spreco costringe ad un consumo senza misura, ad un non averne mai abbastanza, ad un continuo nuovo e sempre diverso aver bisogno, utilizzare e consumare. 


25.10.18


Lo spreco non può sacrificarsi, non può morire in un amore creativo che testimonia la vita  e non potendosi in ciò rivelarsi come un amore vivente, fa se stesso un pseudo sacrificio della propria ricchezza, nella modalità della seduzione degli altri, attraverso i quali egli viene preso, in un aver senza limiti ed in un godere senza misura. E tutto questo sotto le sembianze false di un apparente amore senza perché, che darebbe agli altri per loro stessi, perché per mezzo della sua propria ricchezza, apparentemente, non avrebbe bisogno di nulla. Così produce senza sosta bisogni e bisogno: carestia in tutte le dimensioni dell'esistenza, che viene superata solo apparentemente, attraverso il suo auto scialacquamento e che fa crescere nello stesso tempo necessariamente. Sempre laddove esso domina giunge prima o poi la grande fame che esaspera paesi e  uomini: sia a livello esteriore che interiore. 26.10.18


Lo spreco ha una grande paura che ciò che distribuisce arrivi realmente nella sussistenza, nella calma interiore dell'essere- se- steso già affermato ed amato, cioè nella Ge- "wesend" - heit (2) della libertà di chi riceve. Ha paura di diventare ontologicamente più se stesso e così di superare dall'interno l'impotenza del vuoto interiore, nel quale lo spreco lo tiene prigioniero. Ha paura dell'amore povero e ricco in se stesso dell'altro, della differenza dialogica, che si realizza nell'incontro di due libertà.  Ha paura che nell'aprirsi del singolare e non scambiabile essere- se- stesso dell'altro si spezzi il legame unidimensionale che regna tra esso e il consumatore ("tu vivi attraverso di me, la mia ricchezza è la fonte della tua ricchezza"); 28.10.18

(lo spreco) ha paura che l'altro gli diventi presente nel suo volto incomparabilmente proprio ed unico di se stesso e poi che non abbia più "bisogno" o abbia bisogno molto di meno o in modo del tutto diverso da quanto gli viene offerto; ha paura che all'altro, attraverso il coraggio svegliatosi in lui, attraverso questa fiducia nell'aver- già- ricevuto, nella pienezza d'essere della sua sussistenza personale, nell'essere amato da Dio, la pseudo ricchezza dello spreco, che si gonfia da sé come essere, "a cui non è esteriore nulla, se non il non essere"(3), venga rivelata come un'unica grande bugia diabolica; che il povero speri in primo luogo nel dono dell'amore gratuito, nel gratis della libertà come servizio, cioè nella misericordia, che lo spreco non può dare. Può solamente spacciare l'apparenza del "pro nihilo" come frutto della misericordia. 29.10.18

Colui che spreca ha paura che la sua mimetizzazione venga scoperta. Per questo ha paura di "chiudere la mano mentre dona" (Nietzsche). 

((Nota 282. "Dies nämlich ist das Schwerste, aus Liebe die offne Hand schliessen und als Schenkender die Scham bewahren" (Questo in vero è la cosa più difficile, cioè di chiudere per amore la mano aperta e come donatore conservare il pudore), Also sprach Zarathustra, WW (K. Schlechta), München 1973, 341). ))

Non da il suo assenso al poter ricevere senza ritorno e all'essere donato del dono. Non vuole entrare, nella modalità del servizio, a partire dal fondamento, nella crescita ontologica della libertà dell'altro. Poiché egli non ha fiducia nell'assoluto essere- amato dell'altro attraverso il creatore e non crede che l'altro sia stato affermato in se stesso ed in ciò  fondato in se stesso (sussistente in se stesso), non è in grado di consegnare l'altro, attraverso l'atto di una donazione liberante, a se stesso e così al suo creatore. Chi sperpera non può congedare l'altro, per mezzo di ciò che dona, nella calma interiore di un poter esistere pacifico per se stesso. Deve continuamente dare, per tenere nella propria dipendenza chi riceve. Solamente se nel dare affermasse l'altro per quello che è (cosa questa che significherebbe la sua morte come dissipatore incapace di amare), potrebbe, risorto dai morti, "chiudere la mano donando" e così prendere sul serio l'essere fecondo dell'altro in se stesso, come uno che è stato realmente dotato di un dono, prendere sul serio la sua crescita a partire dal fondamento, dalla profondità della sua sussistenza. Proprio di questo, però, non è capace. In questo modo la sua falsa eccedenza si capovolge nella necessità obbligatoria del produrre, costringendo alla fame il consumatore, con il suo pseudo dare. Ha paura della separazione dell'altro nel suo essere se stesso. In questa condizione il figlio assume il ruolo che egli a casa segretamente proiettava sul padre, pensando che il padre non voleva congedarlo dalla spazio del patrimonio posseduto dal suo potere; e pensando che il padre avesse paura dell'essere se stesso del figlio. 30.10.18

Lo pseudo potere dello spreco permette a tutto di vivere attraverso di "se" e lo sfrutta con la "sazietà". Non può rinunciare al dare, il suo dono non può diventare "l'altro" lasciandolo essere con calma interiore. E questo non solamente per la paura che l'altro, che ha ricevuto il dono, potrebbe essere indipendente, ma in primo luogo anche dal punto di vista che egli stesso, con questa rinuncia alla potenza di espressione della propria ricchezza, non sarebbe più certo (chi comprerà ancora? A chi potrò vendere?). Non ha fiducia nel fatto che ciò che la libertà amorosa dona è presente da sempre, nell'altro, come il mistero divenuto carne del medesimo (non dell'astratto "uguale") unico ed incondizionato amore, in mezzo ai presupposti spazio temporali della sua presenza: perché questo, in se stesso, ha già ricevuto. Egli è in forza di questo incondizionato e gratuito, essere stato amato per grazia, e si è messo in moto dall'interno, del suo rendersi presente nel tempo (Sich- zeitigens), del  suo compimento esistenziale, al cui cospetto colui che dona veramente, a cui interessa l'essere donato del dono nell'altro, nella dimensione della carne e a partire dal fondamento, si comporta sempre come uno che ascolta, che obbedisce, che percepisce, che accoglie, che serve. Il dare creativo è una potenza che serve, che è povera per amore, "vuota" e così impotente, che attraverso la pienezza della propria auto espressione permette all'altro, dotato del dono, di essere e divenire nella realtà sempre più grande della sua propria ed essenziale crescita, e quindi permettendogli di essere fecondo a partire da sé e dal suo fondamento. Un vero dare non si aspetta un rispecchiare simmetrico di sé da parte dell'altro, ma spera nella sua auto apertura libera, nella sua singolarità. Vive nella e per la pazienza della speranza. 31.10.18

Nascosta nella menzogna dell'apparente "sovrabbondanza" (Überfluss) lo spreco ha paura di diventare "superfluo" (überflüssig) (non usabile, inutile). È incapace di gioire che l'altro, per se stesso, a partire da se stesso, dal fondamento, è e vive ciò che fa per lui, è incapace di dire sì all'essere persona dell'altro. Solo l'amore è capace di gioire così. L'amore gioisce della fecondità ontologica dell'altro. Diventa volentieri "superfluo" e dice di cuore: "Si, proprio questo, che tu sei colui (colei) che si sveglia alla vita, che cresce e matura, l'ho da sempre voluto, - non ho voluto che questo. Questo è l'amore- povero, l'amore che è diventato superfluo nella verità, che sa soffrire in modo fecondo il venir gettato via, che lo uccide, ( come alcunché di inutilizzabile, "per nulla", "inutilmente") proprio come il mistero più profondo della sua fecondità nell'altro amato, fino alla morte libera per lui. L'essere la medesima cosa della pienezza che scorre e fluisce e del vuoto sincero ed inutile è il mysterium caritatis create, il mistero dell'essere creato come amore. 

((Nota 283: la "medesima cosa" (das Selbe) espressa nel linguaggio dell'ontologia: ipsum esse creatum "singificat aliquid completum et simplex, sed non subisistens". Su questo tema, cfr. Homo Abyssus. Das Wagnis der Seinsfrage. )) . Cfr. (4) 

Il dissipatore, però, ha paura del gratis (Umsonst)(5) della libertà, del "pro nihilo". Si difende in tutti modi dall'essere un "servo inutile" nel senso del Vangelo, che dopo aver fatto tutto confessa il senso della vita come il gratis dell'amore e che proprio per questo vive nella casa del suo Signore, che non ha "bisogno" di lui, perché è il suo figlio che ama gratuitamente. Il dissipatore, invece, deve dimostrare continuamente di essere "impegnato". Lotta perciò contro tutto ciò che è un non-venire-usato, tutto ciò che è inutile, contro l'amore-povero della libertà e così contro tutti coloro che non sono utilizzabili, contro i poveri, contro chi è senza scopo per il suo sistema, contro chi è inutile - sebbene egli proprio attraverso costoro (il che dovrebbe passare, però, attraverso la morte e risurrezione della sua conversione) potrebbe imparare che la forza creativa del dare e del senso del donatore non consiste primariamente nell'essere utilizzato, ma nell'esistenza interiormente tranquilla di chi sa donare in e per sé e che la vita di chi ama è in se stessa già dono ricevuto e si concretezza nel donarsi e nell' attenzione di chi dona. 

Il dissipatore non può e non vuole aver fiducia nel fatto che al di là del suo fare, nel non-fare (della sua nuda esistenza) è amato dall'Altro senza alcuna intenzione, "senza scopo": "Ti affermo in te e per te stesso. Non hai bisogno di legittimarti con l'esaurimento di tutte le tue energie. Tu sei dono già semplicemente in forza del fatto che sei stato creato. Perché essere creato significa: aver ricevuto l'essere come dono. Puoi donare a tua volta con tanta calma interiore, perché io, colui che riceve, sono stato già abbondantemente, in me stesso, in forza dello stesso dono dell'essere come amore, attraverso il quale anche tu sei. Questo non ti dispensa, per nulla, dal donare, quasi che l'impegno della tuo zelo non conti nulla, come se potessi abbandonare tutto e tutti a loro stessi in una cattiva indifferenza. No, con ciò voglio dire che tu nel mezzo del tuo zelo personale puoi aver fiducia in ciò che la misericordia di Dio, al di là del tuo impegno, ha fatto accadere in me e che con il tuo fare può essere affermato amorosamente, risvegliato in modo più profondo e fecondo. Ciò che tu dai, a partire dall'origine e nel nascondimento del mio essere, è già presente gratuitamente e voglio per questo dirti che tu stesso e il tuo fare mi sono già stati vicini. Non hai bisogno né di forzare né di fare la tua vicinanza nei miei confronti. il tuo lavoro, per quanto faticoso, è già riconciliato e leggero. Non devi importi spasmodicamente in me e non deve interpretare il ruolo di colui che regala l'essere (del buon Dio). Sii felice dell'essere-stato-presente del tuo dono in me (attraverso Colui che permette ad entrambi di esistere)  e mettiti al servizio della sua fecondità con il tuo dare. Quello che fai puoi presupporlo come già presente. Lasciati donare il frutto del tuo del tuo fare da chi con tutto ciò che tu fai per me, dona a te. Vivi nell'impegno, nell'offerta di te creativa, nella ricchezza dell'amore che scorre per l'appunto in modo sovrabbondante e di cui tu dai testimonianza, con l'essere-superfluo, con la povertà creativa del lasciar essere, con la verità che "tutto è grazia"; vivi l'essere la medesima cosa della pienezza e della povertà dell'amore, che è gratis e frustra; vivila nell' inutilità, nel fallimento, nella debolezza della "carne", che "non serve a niente ". Così verrai liberato dalla legge estenuante del "per ottenere ciò", "in modo tale cha accade che". Puoi dare "senza scopo" ed operare in me gratis ed in una libertà salvata. La povertà del tuo essere superfluo è la testimonianza vivente della tua fecondità in me. Non considerarti, per l' "amore che è il peso della tua anima" (Ignazio di Loyola), come troppo importante". Questo è il vero amore di sé e del prossimo in Dio.  3.11.18

Di questo "riposarsi non dopo, ma mentre si dona", che Nietzsche ha desiderato così tanto, il dissipatore ha paura. Per questo motivo cerca e produce intono a sé persone che nel ricevere sono senza sé, in modo tale che consumino la sua ricchezza apparente, ingabbiandosi nella perversione di questa compimento perverso di sé, perdendo così in sostanza ontologica. Brama gente che prendendo, attraverso questa cattiva alienazione di se stessi, attraverso la perdita della loro vita (e della loro esistenza in e per se stessa) diventino "vuoti", per "guadagnarsi"l'apparente si della sovrabbondanza e la perversa mancanza di perché dell'amore. Si aspetta uomini che credano che solamente la ricchezza dello spreco, del lusso, possa concedere loro "un'esistenza gratuita", la "festa del Sabbath, il giorno compiuto della calma interiore essendo proprio capaci di guadagnarsi proprio questo: se "lavorano" per questa ricchezza in interminabili e differenziate forme, diventeranno anche "ricchi", per poi finalmente vivere in modo libero, a partire da se stessi.

Il dissipatore si sacrifica in modo egoistico per la povertà infeconda e mancante dell' "essere-se-stesso" e quest'ultima a sua volta, dipendente da una sovrabbondanza di essere, si sacrifica per lo spreco sfruttatore. Perché questo vuoto, l'altra faccia dello spreco, non brama null'altro che di esistere finalmente come cosiddetto "uomo libero" - e il dissipatore gli racconta la menzogna che ciò sia possibile attraverso di lui e che attraverso di lui lo diventerà realmente. 5.11.18

Lo spreco vive di un anonimo "sudore della fronte" e del sacrificio del sé di chi ne usa, suggerendo ai suoi schiavi: "Tu sei ciò che hai; questo è ciò che guadagni con me: la sovrabbondanza. Una libertà senza perché, il cosiddetto "gratis dell'essere", di cui i credenti chiacchierano solamente, lo si può avere da me in modo oggettivo, in forza della mia ricchezza.  Così come la mia pienezza è senza misura, così lo deve essere l'espressione lavorativa della tua vita. Mi impegno in modo tale che tu viva di sovrabbondanza. Insomma: se già io sono così rinunciante al mio sé, da offrire Ia mia vita per te, la mia vita che è tua, così anche tu, in tutte le dimensioni dell'esistenza devi per me esserci senza riserve. Tutto è per te in forza della mia alienazione (spreco della ricchezza): per questo motivo do "per nulla", gratis. Guadagnatelo essendo tutto per me, insomma non essendo più nulla per te. "Da totum pro toto". Appena tu non presupponi più nulla da parte tua, posso operare assolutamente in te: allora sarai in grado di esistere da te stesso ed in modo assoluto. (Nota 284). Questa è una "pace" falsa, un'apparente "sazietà beata" che lo spreco promette nella figura menzognera dell'amore senza perché e che sembra dare (6). 6.11.18

((Nota 284: "la determinazione della ricchezza pensata solo per il piacere è inattiva e dissipatrice (chi possiede questo tipo di ricchezza gode di se stesso godendo del fatto che altri godono di lui. È inattivo perché non è esprime il Sé, non è padrone di una ricchezza cresciuta dal suo essere. Non da nella modalità del servizio, ma spreca ciecamente non guardando l'altro. Così facendo esprime uno pseudo amore, la figura perversa del "dare senza pagare") attraverso di essa da una parte chi gode si conferma solamente come un individuo effimero (il patrimonio viene semplicemente gettato via), senza sostanza e capace solo di sfogarsi" (nell'unità perversa di vita e morte, in una pseudo espressione di sé che è semplicemente "curvatio in se ispo") " ma nello stesso tempo come uno che compie il lavoro da schiavo estraniante, e vive l'umano "sudore della fronte" come bottino della sua brama" (il sudore della fronte, che rielabora il sempre di più della ricchezza dissipatrice e la rende possibile attraverso il suo sacrificio); parliamo di una ricchezza "che conosce in questo l'uomo stesso e quindi anche se stessa come una sostanza sacrificata e che non vale niente; il disprezzo dell'uomo come sfrenatezza si rivela come un gettare via ciò che basterebbe a sfamare cento vite umane o appare come illusione infame che il suo spreco dissoluto e il suo consumo inconsistente ed improduttivo determini il lavoro e così la sussistenza dell'altro, e conosce la realizzazione delle forze sostanziali dell'uomo solo come realizzazione della sua balordaggine, del suo umore e delle sue trovate arbitrarie e bizzarre. Questa ricchezza che d'altra parte conosce se stessa solo come strumento puro e come distruzione di cose di valore è sia per lo schiavo che per il signore, allo stesso tempo, generosa e vile, lunatica, oscura, arrogante, fine, acculturata e piena di spirito, - questa ricchezza non ha ancora fatto esperienza su di sé di un potere del tutto estraneo; vede in esso solamente il proprio potere", K. Marx, Nationalökonomie und Philosophie, ibidem 266/267)). (7) 

d. L'apparenza dell'assoluto in ciò che è determinato 7.11.18

La libertà vive il suo essere in se stessa come donata: sono comunicato già solamente per il fatto che esisto. Il cuore della mia vita è dono e attraverso di esso sono: io stesso; sono presente in una tranquillità interiore. Questa calma vivente è la fonte feconda del dare creativo, dell'origine di un fluire libero. Qui accade l'espressione (Entäußerung) come svelamento della figura vitale intima dell'essere-se-stesso di colui che si comunica nella modalità nella quella "egli stesso con se stesso" è la medesima persona. Possiamo dire grazie a questa libertà, anche se non "dà". Lei è nel suo essere, in se stessa, nella modalità del donarsi e dell'essere donata, dando e ricevendo. Vive nel essere-medesimo-vivente del "fare e non fare", di movimento e calma. 

Il dissipatore invece produce, imprigionato nel rapporto oggettivo di causa ed effectus,  un'egoistica sovrabbondanza da "palcoscenico". Ha perso l'essere-interiormente-tranquillo  nel "da sé" (egli, lei) "senza fondamento" e sostituito la sua infinità intima (la presenza di Dio in lui: l'uomo supera di un alcunché di infinto l'uomo stesso, Pascal) con la cattiva infinità della crescita tecnico industriale, economica e materiale che secondo la legge, dopo essere stata messa in scena, deve distruggere se stessa. Ciò che è stato fatto senza senso sostituisce la vera mancanza-di-fondamento (= di motivo;rg) della libertà amorosa. Ciò che non serve per vivere, nel quale, però, nella prospettiva dell'avere, si vede un piacere utilizzabile, sostituisce il non essere utilizzabile personale, la "mancanza-di-scopo" dell'essere-se-stesso, la libertà come "scopo-per-se-stessa", cioè finalmente l' "abundantia caritatis". 

((Nota 285: per questo tema vedi Ferdinand Ulrich, Gegenwart der Freiheit (Presenza della libertà), Einsiedeln, 1974, terza parte: Krisis der Fortschrittsideologie des Wachstums (crisi della ideologia del progresso della crescita), 161,sg. ))

In mezzo ai limiti della finitezza irrompe apparentemente un sempre-di-più, cresce la fonte inesauribile di una sovrabbondanza, che sembra superare tutte le misure dei nostri condizionamenti e bisogni concreti. Non è questa l'epifania oggettiva, visibile con i sensi, dell'assoluto nel determinato? Non è il patrimonio del padre: trasformato nell'auto potenza del figlio, che ora, come padre di se stesso, diventa anche signore di sua madre (la mater-ia, la natura), di cui egli, come perversa "homo-natura", dispone e sfrutta arbitrariamente? Non diventa così il patrimonio "materiale" del mondo, che il padre possedeva solo come "uomo" nell'ambito dell'origine, il quale, però, nella prospettiva del figlio non si testimoniava come potenza creativa, non diventa insomma adesso con il figlio (i figli) ciò che può essere: luogo e mezzo di una auto-determinazione libera (dell'io, del tu e del noi) dell'uomo globalmente socializzato? "Non sono io la misericordia che tu hai sempre cercato? La grande pace, il grande perdono, per mezzo del quale tu finalmente sei scusato e diventato libero una volta per tutte? 12.11.18

Cosa ci dice ancora la figura-menzogna dell'assoluto nel determinato? "Non ti do solo il necessario, in modo tale che tu non debba vivere miseramente la tua esistenza. Distribuisco anche ciò che non è necessario, ciò che non è dovuto (Nota 286), un sempre-di-più che sorpassa tutti i tuoi bisogni e tutte le possibilità che potresti immaginarti. Sono fonte dell'im-possibile, di tutto ciò che va oltre l'essenza e che non si lascia derivare da tutto ciò che tu fino ad ora hai riconosciuto come "misura del tuo essere" (Wesensmaßen) e determinazione della tua esistenza. Tuo è ciò che non può essere pensato antecedentemente. Ti si apriranno gli occhi! E se tu finora hai creduto che la tua vita consistesse nell'adempiere al "dover-essere" della legge e corrispondere alle sue esigenze, nel dover pagare i tuoi debiti, ora sei una volta per tutte scusato (entschuldigt - privato di colpe) perché con me tutto ciò che è richiesto è e viene compiuto come un fiume in piena e in questo modo come fonte della tua colpa fatto sparire. Dono sempre-di-più. Non dono senza alcuna intenzione? Non puoi finalmente festeggiare la festa della sovrabbondanza e godere della tua vita?" 

((Nota 286: la figura-menzogna della misericordia dell'amore, che rappacifica, sazia e soddisfa tutto ("succhiate fino alla sazietà alla vostra ricchezza materna") e che non può essere pensata antecedentemente ed è indisponibile, nella sua mancanza-di-perché che continuamente fa saltare in aria tutti i legami causali, in modo sorprendente, sensazionale in segni e miracoli che non ci si sarebbe mai aspettato.)) 

Il fratello rimasto a casa non domanda anche a sua volta proprio di questa festa? "Tu non mi hai dato un capretto per far festa con i miei amici - anche se io ti servo da anni con il mio lavoro". 14.11.18

Udiamo (8) che il fratello più giovane ha disperso il suo patrimonio: Ξων ασωτως: "vivendo in modo dissoluto". L'avverbio ασωτως (dissoluto) è la negazione di Σώτος. La radice indogermanica di questa parola: teu, tuu (9) significa qualcosa come "ingrossarsi" nel senso della crescita salutare di una vita compiuta, che è in cammino per portare frutti abbondanti.

((Nota 287: Da qui teutā: moltitudine, Popolo; t(e)uko: ricco; tūbha: aumento; tumo: grasso; indiano antico tavati: è forte, ha potere; persiano antico: tav: capace, ricco; attico: σώξω: salva, conserva; σωτήρ: Salvatore, Redentore; σώμα: corpo (pieno di corpo: sano); σωματόω: fissare, condensare. ))

Il figlio non vive dalla pienezza di un essere-libero in-carne-ed-ossa, della ricchezza di un creativo superamento-di-sé, di una crescita ontologica del "io sono" (sono da φυω, φύσις). Ciò che mette in mostra in modo dissoluto come il suo potere è apparenza, senza essere e senza forza, del suo io "ampolloso", gonfiato nella mancanza di amore: di una debolezza dissoluta, incostante, instabile, il "tumore" del suo vuoto esistenziale, della sazietà gonfia della sua pseudo ricchezza. Lo spreco non sgorga da una vita densa, stabile e unita in se stessa. Non vive concretamente, a partire dalla "vis concretiva et unitiva" dell'amore. Il dissipatore non è stabile in se stesso, perché non sta nella verità. La sua sussistenza è vuota. Spreca il suo patrimonio in forza della sua impotenza, manca di una presenza-del-sé tranquilla, centrata in se stessa, decisa. La sua forza non ha un rapporto concreto verso se stesso. Questo svela tutta la vanità della sua impresa. La pienezza del "compimento a priori" (Nota 288) non corrisponde al patrimonio da lui posseduto. 15.11.18

((Nota 288: I suoi occhi non stanno vedendo come occhi reali, ha occhi ma non vede; i suoi orecchi (il suo udito (Ge-hör)) non stanno ascoltando come orecchi reali - in loro stessi; ha orecchi ma non ascolta (anche se in verità non gli occhi vedono e gli orecchi ascoltano, ma l'uomo in questi e con questi suoi sensi). Per questo motivo nella sua cecità ed incapacità di ascolto sovviene e appare l'irrealtà oscura, che si vuole fare da se stessa. Cfr. su questo tema dell'autore: Der Mensch als Anfang. Zur philosophischen Anthropologie der Kindheit, Einsiedeln 1970, 47 sg. (L'uomo come bambino. Per un'antropologia filosofica dell'infanzia, Roma 2013, non riesco a trovare la pagina, forse pagina 49). ))

In un'immagine che chiarisca la mancanza di senso dello spreco si potrebbe dire: chi spreca non vede la luce per la luce dei suoi occhi, perché l' "occhio solare" (Plotino, Goethe) vede sempre a priori, ma egli vorrebbe, attraverso il "vedere" (un atto che non cresce dal suo essere), per così dire, fondare in modo regressivo da subito la luce in lui stesso o detto altrimenti: "deve" guardare in continuazione per dimostrare che la luce è apparsa. Non da in forza del suo essere come dono, per il quale egli è stato, ma cerca attraverso il suo dare dissoluto, in modo regressivo, di accertarsi da subito della presenza della sovrabbondanza nella sua vita, di appropriarsi della sua ricchezza, ancora meglio di produrla in se stesso. Il suo fare non segue l'essere; piuttosto il suo fare vuole "produrre" l'essere. Nel divenire non si compiono le metamorfosi del seme (essere come frutto), che cade nella terra nella modalità del dono, muore e trasformato come germoglio fa le radici e germoglia ed erigendosi prende forma, si sviluppa, cresce, fiorisce e porta frutto. Nel dissipare invece il "movimento del divenire" vuole da subito porre e fondare in modo regressivo l'essere fecondo dell'inizio, la ricchezza essenziale del suo patrimonio originario. Il "divenire" diventa fonte dell'essere, il "grande movimento", il produttore della verità. In questo sfogarsi esuberante del suo spreco la "vita" si occupa solo di se stessa e imputridisce: mors vitalis. 16.11.18

Il figlio non da a partire dalla sovrabbondanza dell'essere-libero, ma dalla fame di se stesso, secondo il piacere della sua alienata (entäußerte) potenza vitale; guidato dalla brama del perdersi. La sua sovrabbondanza è in vero solo avido vuoto , che cattura l'altro, lo rende impotente e lo divora. Si distrae per sfuggire "le fauci sbadiglianti della noia" (Nietzsche).

((Nota 289: WW (edit. K. Schlechte) I, 410, 72. Con la radice tu- en, vi è una parentela anche con Ταύρος: toro, il simbolo della fecondità. Cfr. anche gr. σαθη: pene ( πός-θη: πέος): φαλλος. - Il vitello d'oro e l'immagine del toro - per l'incredulità che rinnega il padre balla lodando la fecondità mondana (= produttività, efficienza, etc.))

Così si genera apparentemente da sé, senza poter dare una testimonianza reale della sua libertà . L'io che vuole essere il suo proprio padre è fino al fondo di se stesso impotente.

La traduzione continua in questo nuovo link: https://graziotto.blogspot.com/2018/11/4-il-ritorno-fatale-della-storia.html



Continua



(1) Un grande tema di Ferdinand Ulrich: l'amore agisce così che presuppone nell'amato ciò che fa. RG


(2)  In questa parola vi è il passato (gewesen) e la sostanza (Wesen) del dono passato. (RG) Ferdinand Ulrich nella nota 281 rimanda alla note 194 e 270. Traduco qui la nota 194: "La dimensione dell'egli (lei) dice l' in- se- steso o il luogo ontologico , la presenza della libertà nella sua "Ge- wesend- heit" , nella ousia della sua esistenza. Usiamo la forma del participio "gewesend" per esprimere lo stato del rimanere, mantenere, abitare per esprimere meglio "Wesens" (compreso nel senso di un sostantivo verbale). RG 

(3) Secondo me Ferdinand Ulrich, in un dialogo intimo con Tommaso d'Aquino, fa un passo ulteriore nel cammino della comprensione di cosa siano l'essere e il nulla, di quanto espresso in questa frase: "all'essere non è esteriore nulla se non il non essere". In primo luogo credo sia necessario chiarire che Ulrich non sta parlando dell'Essere come ipse esse subistens, che è Dio. Parla dell'essere, come atto di donazione dell'essere. Quest'ultimo è, sempre per parlare con Tommaso: simplex et completum, sed non subsistens. Con il suo "medesimo uso delle parole essere e nulla" Ulrich ci apre la strada ad un comprensione nuova dell'essere, non come "contrapposizione", neppure come "contrapposizione" al nulla, ma come una critica interna del nulla che ci rivela che il nulla non è solo "nichilismo" (questo è esteriore all'essere come dono d'amore), ma il "nulla" come gratuità dell'amore stesso, quello che ci rivela il linguaggio quando rispondiamo ad una persona che ci dice grazie con un "non fa nulla", "non c'è di che". Quando i teologi parlano di "Essere" intendono sempre Dio ma saltano, normalmente, questa dimensione dell'essere semplice e completo, ma non non sussistente, di cui parla Ulrich in dialogo non con i tomisti, ma con Tommaso. Questo salto (come omissione di una cosa decisiva), a livello di linguaggio filosofico usato, lo fa anche don Giussani, che dipende in questo da una filosofia neotomista. Con l'insistenza sull'esperienza, però, don Giussani supera la difficoltà insita nel suo linguaggio filosofico neotomista. Dove possiamo incontrare la gratuità del dono gratuito dell'essere? Nell'esperienza, non ridotta ad ideologia. Solo quest'esperienza dell'essere gratuito ci permette di superare, con una critica interna, per così dire, il nulla del nichilismo. L'essere non è sussistente perché è appunto "dono puro" che non è "causato" e non causa nulla. La creazione stessa, probabilmente, non è "causare" o "produrre" o "fare"; questo è, però, compito dei teologi spiegarlo. Dio genera il Figlio, senza del quale non vi sarebbe nulla di ciò che c'è. E il Figlio, nella sua incarnazione, getta una luce sulla creazione del Padre e ci fa comprendere che cosa sia l'amore. Il Padre ha tanto amato il mondo da dare il Figlio per la salvezza dell'uomo e della creazione tutta. Ha dato il Figlio nella modalità della "discesa" che non considera un tesoro geloso la propria divinità, semplice e completa. Prende la "forma di schiavo" e si mette al servizio degli uomini, vivendo a Nazareth, parlando, facendo miracoli, lavando i piedi ai suoi, salendo sulla croce e discendendo in fine nell'inferno. La donazione dell'essere, "similitudo divinae bonitatis" è appunto solo comprensibile come "similitudo" di questa "discesa" che presuppone in chi riceve il dono d'amore il dono stesso: l'amore nella sua sussistenza (anche se relativa o relazionale). Sussistente è il Bartimeo ceco, non il dono che gli viene fatto dal Signore. Questo dono è amore puro e gratuito, non sussistente, non fissabile in una "ousia". La nostra esperienza di fraternità deve essere un esercizio di questa gratuità del "nulla" dell'amore che sola può sconfiggere il nulla nichilistico della perdita delle evidenze in cui siamo tutti (!!!) sommersi. RG  

(4) Cfr. per questo la mia nota numero 3. La filosofia postmoderna (Gianni Vattimo, per l'Italia) ha avuto un sensorio per la seconda parte della verità espressa dalla definizione citata nella nota 283: ipsum esse creatum "singificat aliquid completum et simplex, sed non subisistens" . C'è davvero bisogno di un "essere debole" per esprimere l'amore. Forse manca nella filosofia postmoderna, però, un sensorio per la prima parte della frase: l'essere è "semplice e completo" e non deve e ne può essere costruito da alcuna attività umana, tanto meno dalla filosofia. Senza questa completezza del "primerear" sarebbe del tutto incomprensibile e irrazionale il mistero della "pazienza della speranza" di cui parla Ulrich nel suo testo. RG  

(5) Ricordo che la parola Umsonst in tedesco significa sia gratis che frustra. RG 

(6) Il grande lavoro filosofico di Ulrich, similmente al grande lavoro di discernimento compiuto nell'Apocalisse, consiste proprio nel distinguere ciò che appare essere simile ma non lo è. Nell'Apocalisse: forme perverse trinitarie dalla Trinità. In Ulrich forme di gratuità che sono solo apparenti, da quel vero amore gratis che è il cuore della sua filosofa. RG 

(7) Non sono sicuro di avere capito bene la frase di Marx, bisognerebbe trovare la citazione nella traduzione fatta da esperti di marxismo, ma non la possiedo. RG

(8) Siamo "uditori della Parola". RG

(9) Non posso ricostruire qui precisamente né gli accenti delle parole greche né di quelle indogermaniche. RG

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