sabato 17 novembre 2018

4. Il ritorno fatale della storia dell'origine - Ferdinand Ulrich

Caro don Julián proseguo qui, con un nuovo capitolo la traduzione di Dono e perdono. Un contributo sull'ontologia biblica, Einsiedeln, Freiburg 2006, 523 fg. (Traduzione completa di questo capitolo, finita il 9.3.19)

Cara Susanne  (responsabile dell'editrice in cui è uscito il libro di Ferdinand Ulrich),
grazie che mi ha permesso la traduzione, nel mio blog, per don Julián Carrón,  di alcuni capitoli del libro di Ferdinand Ulrich, Dono e Perdono; mi scusi per la mia telefonata, frutto di un piccolo attacco di panico - sono talmente fuori dal mondo delle editrici, ormai, che la domanda dei diritti di traduzione non mi era per nulla venuta; tanto più che don Julián è stata la prima persona in CL, con mio grande stupore, che trova Ulrich, per la sua vita e per la nostra storia, totalmente interessante. Così in pratica traduco per lui e per comodità sta la traduzione fino ad ora fatta nel mio blog. Nel caso improbabile (per le forze che mi lascia il mio lavoro) che io traduca tutto, allora regalerò alla Johannes Verlag la mia traduzione. 
Saluti, Roberto  

Proseguimento della traduzione. Cfr. https://graziotto.blogspot.com/2018/10/ii-lo-sperperare-come-perversa-gratuita.html

(in fondo al post ho messo tutti i link delle traduzioni fatti fino ad ora) 

a. Carestia: la crisi della povertà 

Ancora una volta è chiaro che il percorso del figlio, separato dall'origine, non rappresenta in fondo null'altro che il suo passato rapporto interiore con il padre. In tutte le condizioni e situazioni dello "spazio vuoto" ha memoria, contro la sua intenzione e allo stesso tempo come suo proprio giudice e condannato, della legge per la quale aveva cominciato questo suo percorso. Ciò che pensa di afferrare, visto dal davanti, come la sua propria possibilità di auto-realizzazione, ripete solamente lo spezzarsi della medesima cosa: la povertà del ricevere e la ricchezza dell'essere-se-stesso, cioè esprime il rifiuto di dire grazie, che invece dovrebbe essere il suo atteggiamento al cospetto del padre amoroso. L'amore-povertà che ha perso ritorna come "fame della brama", l'amore-ricchezza che ha anche perso, come pseudo compimento dello spreco. Dal punto di vista spazio temporale è cambiato il luogo della sua esistenza. Non è più a casa, ma in terra straniera. Ma ciò che incontra gli racconta la stessa storia su se stesso, che egli crede di aver lasciato alle sue spalle. "Ciò che l'uomo ha perso interiormente, gli si presenta come figura o accadimento esteriore. Mutato loco eadem historia tibi (de te) narratur - senso del mondo temporale". 

((Nota 290: Fanz von Bader, Erläuterungen zu sämtlichen Schriften von Louis de Saint- Martin: L'homme de désir (1790), ad p. 228, Z 1-7, WW (Aalen, 1963), XII, 251. Spiegazioni su tutti gli scritti di...))  

A causa della sua mancanza di fede all'amore donato gratuitamente del padre il figlio ha estraniato il suo essere-figlio, che deve alla misericordia del padre, che lo genera per un amore senza debiti, nell'avere oggettivo del patrimonio arraffato.  Così ha negato, che il dono che giunge a lui dall'origine è stato lui stesso come libertà. Ciò che gli è stato dato lo ha incassato come un contenuto "sostanzializzato": come un vuoto interiore affamato, come lo spazio vuoto del suo io = io e attraverso questa modalità di auto-compimento tentato ha perso davvero il si amoroso e grato all'essere-se-stesso: la forza di vivere la propria vita, ricevuta a partire dall'essere amato gratuitamente,  in modo altrettanto gratuito. Ha così negato la dimensione del "gratias agere" (ringraziare). Questo possedimento senza vita, che egli controlla avaramente ("se stesso" nella figura di un esso (Es) morto), voleva "vivificarlo" per così dire con lo spreco, esprimerlo in modo fluido, per dimostrare a se stesso e agli altri l'originalità creativa del proprio sé, nella quale a nessun altro che a se stesso è lecito essere presente ed operare. (19.11.18, santa Elisabetta)

Lo spreco mira apparentemente, senza riserve, ad allontanarsi da sé verso l'esterno. Produce l'apparenza della dimenticanza-di-sé e della mancanza-di-sé di un uomo, non avendo apparentemente bisogno di ponderare e contare il suo "dono": "Una cosa del genere la fa solo chi è determinato nel suo agire da scopi ed intenzioni; che opera secondo la legge dello scopo e del perché; che viene determinato da moventi esterni. Ma chi può dissipare il suo patrimonio agisce senza-motivo e senza-perché. Da per dare, senza perché, semplicemente così. Questa è la vera ricchezza, che non deve avere paura, nell'espressione di se stessa, di diminuire." 

Così lo spreco risveglia l'illusione di una fluida trascendenza di sé, di una ricchezza che-non-si-aggrappa a se stessa, ne ritiene il suo sé "un privilegio" (cfr. Fil 2,6; rg), ma che manifesta la sua ricchezza proprio nel perdersi. La figura menzognera dell'amore; la mendace mancanza di amore "sub specie caritatis" (20.11.18). 

Guardata dal suo interno una tale messa in scena della propria espressione è piegata in se stessa, in modo profondamente regressivo, è ripiegata nell'ambito di una memoria concentrica dell' io = io: una dipendenza monologica del proprio ego che non pensa a null'altro che ad un volersi-vincere in forza del perdersi, una contraffazione dell'essere la medesima cosa di pienezza e povertà, nell'essere creato come amore. Attraverso l'egoistica, forzata e stanca produzione dell'essere-se-stesso e della presenza-del-sé, attraverso la pseudo offerta di sé dello spreco, si consuma il dissipatore stesso. Sfugge a se stesso nella misura in cui egli vuole possedersi con lo spreco, assaporando se stesso in modo egoistico e delizioso. 21.11.18

Chi spreca getta la sua vita "oggettivata" al di fuori di se stesso e con l'intenzione in questo modo, per così esprimersi, di de-sostanzializzarla e renderla pubblica, in modo perverso, "nel linguaggio dell'amore". Egli deve continuamente "esprimersi", agire e nelle diverse modalità dell'alienazione (Entäußerung): "lasciarsi andare". Non può stare più in silenzio, non può più parlare "solamente attraverso il suo mero esistere", "in mere existence" (K.G. Chesterton). Stare in silenzio significa per lui: ammutolirsi nella mancanza di vita del suo patrimonio posseduto e così l'ammissione della sua impotenza ed infecondità. Così fugge continuamente con espressioni (Entäußerungen) prodotte nell'utero sociale del noi, operando a livello "mediale" (in piccole e cose grandi), la rappresentazione pubblica e "altruistica" del suo io, che è in fondo chiuso e non amante, senza potersi e volersi davvero comunicare, a partire dal proprio intimo. Poiché la sua vita come un "esso" (Es), a partire dalle sue agitazioni, è coinvolta solo in modo "oggettivo" e così tagliuzzata e dispersa conquista solamente l'apparenza di una pienezza di vita personale comunicata, che non è più alcunché di esteriore all'io, ma a lui intima. 22.11.18 Gettando il patrimonio di qua e di là (in modo dissipativ) si vorrebbe produrre identità e capacità-di-fare da sé. Perché chi da così, sembra non essere più solamente uno-che-ha un possedimento a lui estraneo ed esteriore, non è solo un momento della sua ousia, ma sembra essere diventato questa stessa,  in una disposizione libera del sé come soggetto. Finalmente l'ousia come sostanza è lei stessa soggetto! Ciò che egli è in se stesso, proprio questo è allo stesso tempo proprio per lui: esiste in e per se stesso; si comprende come "libertà concreta nell'io = noi, noi = io. Non è difficile riconoscere che qui accade solamente una conciliazione perversa di natura (ousia) e persona (hyper-ousion). 23.11.18

Poiché lo spreco (in ogni atto del suo caratteristico prendere ed attingere da se stesso) presuppone il contenuto afferrato della sua espressione come alcunché di morto, che deve essere messo in cammino e portato a vita (nota 291), così si esaurisce nell'apparenza di una falsa offerta di sé e distrugge continuamente se stesso in modo regressivo ed interiore. 

((Nota 291. Lo spreco non da il suo assenso all'essere-donato della libertà in se stessa, in forza dell'accolto essere come dono, invece lo produce posteriormente. L'io vuole auto salvarsi esprimendo se stesso))

Al suo agitato essere-fuori-di-se-stesso corrisponde interiormente un pigro essere-uguale-a-se-stesso, la paralisi, un affondare depressivo in un neutrale (eshaft) essere-in-sé, che provoca sempre nuove alienazioni (Entäußerungen), che dovrebbero mobilitare una cupa intimità. La periferia è febbrilmente operosa, divisa in azioni agitate, inquieta e distratta. Il centro o lo profondità rimangono invece pesanti, come il piombo. Il dissipatore non può comprendere il linguaggio del suo corpo ("e della sua grande ragione"). Pur dicendogli nella forma del dolore, che una discesa trasformata nelle radici portanti dell'essere-se-stesso; che la calma interiore deve essere imparata nell'essere-amato; che né l'alienazione senza pausa giunge ad una reale calma, attraverso una paralisi interiore, né può essere reso vitale il centro morto dell'esistenza con un salto nell'attivismo. Solo nel crollo di questa costellazione nella sua interezza potrebbe aprirsi, con la misericordia del padre, un percorso che conduce ad un essere-libero autentico, che come dono gratuito, non producibile con i mezzi del disfacimento, deve pur essere stato presente in mezzo alla via sbagliata. In questo modo  la perversa figura dell'essere come amore può morire e il peccatore morto, in forza dell'amore gratuito, risorgere come libero ed amante, cioè risorto dai morti come uomo vivo nella verità. 24.11.12 

Il dissipatore, però, ha paura proprio di ciò, perché è il suo morire nella reale e vera vita. Non può dare "da sé", a partire dall'intimità tranquilla del "habitare secum", a partire dal suo personale essere-fondato-in-sé, che gli è stato donato. Lo potrebbe solamente nella partecipazione alla  "super-abundantia-caritatis", che egli, però, contraffà (1) nella menzogna.  Perché egli vuole produrre da solo la vitalità del suo essere "come amore" con un gettarsi-via-da-sé. Si fa "povero", per potersi affermare e rappresentare come "ricco". Questo è il vuoto terribile della sua vita. Ciò che gli capiterà e lo colpirà nel "paese lontano" (Lc 15,13) scoprirà in modo sempre più radicale questo vuoto. La "grande carestia" sarà un dono dell'amore, che è "umsonst" (gratis), "per niente", è che da all'affamato, per grazia (gratia: gratis data), la capacità di ricevere l'essere come amore, nella medesima modalità di pienezza e vuoto e di affermarlo come alcunché che gli è stato donato gratis, così da potersi rialzare, grato, in forza di questo gratis-aver-ricevuto ("per niente" - in mezzo alla carestia). Un aver ricevuto che accade nel vero stato del proprio sé come libertà liberata, in forza della libertas immaculata, della mater misericordia

Seguendo il percorso narrativo (della parabole del figliol prodigo; rg) ne possiamo differenziare due dimensioni che scorrono l'una all'interno dell'altra. Da una parte la perdita effettiva di ciò che il figlio aveva, la rivelazione purificante del vuoto del suo presunto essere "signore di se stesso" che fallisce nel tentativo di fondare la sussistenza della sua libertà con la propria potenza. Non può compiere se stesso con il suo spreco, non può far arrivare sotto i suoi piedi il terreno portante della sua esistenza, non può produrlo da sé. D'altra parte possiamo, nel bel mezzo della carestia, percepire un senso profondo del "perdere" che in forza della presenza della misericordia del padre, il cui amore, che nel figlio unico va con il figliol prodigo nel paese lontano, è conservato nel mistero dell'amore-povero: un diventare-vuoti ed un essere-vuoti che per grazia è già colmo  del "pro nihilo" della misericordia , dell'amore che è umsonst (gratis) - così come anche nella creazione, come donazione dell'essere: "salvatur quodammodo ratio misericordiae, inquantum res de non esse in esse mutatur".

((Nota 292. Tommaso d'Aquino, S. Th. I,21, 4 ad 4. )) 27.11.18

La misericordia chiama ciò che non è: come un ente (Seiende) (2), donando nella modalità del perdono il dono dell'essere come amore. In ogni opera di Dio la prima e più profonda radice, che la rende esistente, è la misericordia, l'amore umsonst (gratuito). La forza di questa radice domina su tutto ciò che cresce e accade a partire da lei e opera in esso, con più potenza-di-essere di quanto origina dalla radice intesa nella sua superficialità (come la causa prima ha un influenza più grande che la causa seconda). Il vuoto della carestia è (in forza della grazia) un segno di quella vera "povertà a partire dall'amore", nella quale viene rivelato che al figlio è stata donata una giustizia compiuta, finalmente, non in forza di un mero diritto, ma solo per compassione. In questo comprendiamo che è figlio dell'amore eterno. 28.11.18

(Nota 293:  "Opus autem divinae iustitiae semper presupponit opus misericoridiae et in eo fundatur" (cf. S.Th. I, 25,3,3). La giustizia e il diritto ("Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta" e "Egli divise tra loro le sue sostanze") presuppongono la misericordia e si fondano in essa. "Creaturae enim non debetur aliquid, nisi propter aliquid in eo praeexistens vel praeconsideratum: et rursus, si illud creaturae debetur, hoc erit propter aliquid prius. Et cum non sit procedere in infinitum, oportet devenire ad aliquid quod ex sola bonitate divinae voluntatis dependeat", (la quale è "similitudo" dell' "ipsum esse"; cf. De meritate, 22,2), quae est ultimus finis"." L'amore-povertà, che dipende solamente dalla divina misericordia, non per un'"intenzione", "con uno scopo", ma umsonst (gratis): "Bonum autem mihi est: adhaerere Deo gratis" - questa povertà è davvero aperta per l'ultima meta. È un puro "fiat" - un puro fiat della misericordia divina che risveglia la vita. - "Utpote si dicamus quod habere manus debitum est homini propter animam rationalem; animam vero rationalem habere, ad hoc quod sit homo; hominem vero esse: propter divinam bonitatem." La risposta all'ultimo "Perché?" (Warum?) non è il "perché" Weil) (3) di una causa, ma il "Weil"(perché come risposta; rg) dell'essere come amore: EGLI è amore. "Et sic in quolibet opere Dei apparet misericordia, quantum ad primam radicem eius. Cuius virtus salvatur in omnibus consequentibus; et etiam vehementius in eis operatur, sicut causa primaria vehementius influit quam causa secunda. Et propter hoc etiam ea, quae alicui creaturae debentur: Deus ex abundantia suae bonitatis largius dispensat quam exigat proportio rei." La risposta del padre al "dammi" del figlio era più ricca di ciò che il figlio in forza del diritto ha arraffato come suo patrimonio. "Minus enim est quod sufficeret ad conservandum ordinem iustitiae, quam quod divina bonitas confert, quae omnem proportionem creaturae excedit"( Tommaso d'Aquino, S. Th. I, 21,4). La misura dell'amore è l'amore senza misura. Cfr. M. Eckhart: "opus misericordiae proprie relaxantis delicta superius est et praesentius omni opere creationis et totius universi" (Serio 18, n. 180). "Misericordia proprium est deo eadem ratione, qua et ipsum esse (!) et bonum" (Serio 18, n. 181). (30.11.18. Sant'Andrea)

Per questo la perdita del suo patrimonio nel "paese lontano" non è solamente l'esecuzione della legge mortale del suo avere, non è solamente la conseguenza eseguita della sua proprio auto punizione (a causa del suo comportamento nei confronti del padre e di se stesso), ma linguaggio vivo della misericordia del padre ed un primo segno della conversione del figlio, che si sta preparando nel segreto, attraverso di essa. Nel mezzo della mancanza-di-perché perversa che si gioca nella dimensione spazio temporale è all'opera (non divisibile da questa, ma neppure mischiata ad essa), per grazia, la mancanza-di-perché dell'amore misericordioso. 

((Nota 294: Il rapporto reciproco di entrambe le dimensioni non è pensabile nello schema: "categoria" e "trascendentale"(4), ma come presenza non dovuta dell'amore in mezzo alla colpa, al di là di ogni dialettica. (5). La carestia in sé non è ancora la povertà dell'amore creato, che unicamente è in grado di accogliere la misericordia divina (nel testo tedesco, in latino; rg). Solamente quando il vuoto della carestia viene letto, vissuto e sofferto come segno del vuoto dell'amore creato, può aiutare il figlio alla conversione e così divenire fecondo esistenzialmente. )) 

La pura perdita del patrimonio, questa forma dell'essere-povero nel senso del non-avere-più non è per nulla identico con la povertà creaturale dell'essere-figlio. Essa raggiunge, nella prima fase della conversione crescente, solo il vuoto mortale della ricchezza-che-si-getta-via. Questa tenterà tuttavia continuamente di riprodursi con un voler-avere. Con il non-avere, con il mero aver-fame, con l'essere vuoto come fatto, la sua brama non è ancora per nulla morta. Per fare il salto verso la povertà dell'essere, verso l'essere-vuoti per amore, cioè nella pienezza della libertà, è necessaria una trasformazione: passando per la morte e la resurrezione dell'amore incarnato. 

b. Il bisogno come giudizio e grazia 1.12.18 

Quando il figlio ha consumato "vanamente" (Nota 295) tutto il suo avere, quando ha sprecato tutto nella vanità (nell'Umsonst come "frustra"), scoppia in quell paese lontano una grande carestia ed incomincia a soffrire di un bisogno acuto. Forse la causa del bisogno è stata un rincaro, un cattivo raccolto, una guerra combattuta fuori dal paese, che ha bloccato così i percorsi usuali di rifornimento dei generi alimentari. 

((Nota 295. Ha gettato via tutto (ver-geben) ma non nella misericordia; non in modo tale da risvegliare la vita, non amando l'altro, non lasciandolo-essere, non lasciandolo-libero nel suo essere-se-stesso; non operando nell'altro in modo fecondo; non nell'Umsonst dell'amore (gratis), ma nell'Umsonst come frustra, nella vanità della carne (in senso biblico). )) (4.12.18 Santa Barbara)

Prendiamo tutto quanto detto ora come un leggero e tranquillo rimando alla necessità di leggere la parabola in modo più profondo. La miseria, che osservata esteriormente ci riporta a fatti che sono chiari, registrabili, storici, che erano probabilmente conosciuti dalle persone d'allora, non accade per caso. In essa compare lo "stato d'animo" del figlio, il suo vuoto interiore. Con la sua vita dissipata la carestia sotto sotto era già venuta in quel paese lontano. Non si cercherà qui troppo velocemente un legame causale tra comportamento e circostanze  (semplificando il perché) pensando che sia lecito affermare: egli stesso ha la colpa di questo bisogno, in cui si trova. E tuttavia ciò che accade esteriormente corrisponde  allo stato della sua intimità. Nel "destino" del figlio non è in gioco solamente il cammino di un io particolare sotto e tra molti altri io, ma piuttosto la vera condizione di molti, senza che si possa ricostruire da ciò un'"esemplarità" modello. Nel paese lontano vive uno il cui cammino forma il destino di molti. Nessuno conosce il perché se non l'amore senza perché e disposta a perdonare del Padre misericordioso. "In mezzo a voi c'è uno che voi non conoscete". 5.12.18

Ora soffre il figlio stesso nel suo corpo quel bisogno che egli dapprima, per il modo del suo dare, ha prodotto intorno a lui, anche se forse molti credevano di essere diventati ricchi in forza della sua "sovrabbondanza". Il suo dare, nella modalità dello spreco, ha reso poveri. Ed ora il patrimonio è stato consumato. Non può permettersi più nulla. Il "potere" del suo patrimonio, a cui dapprima dapprima sembrava accessibile tutto il resto senza riserve, come avere immediatamente disponibile, si svela come un'impotente incapacità. Tutto diventa, a lui straniero, estraneo. Rigettato su se stesso deve soffrire involontariamente la fame e gli altri la devono subire altrettanto. Non può più soddisfare i suoi bisogni e con questa sofferenza pian piano viene introdotto nella profondità dell'aver-ricevuto umsonst, sul quale fonda la vera ricchezza di se stesso: solo per il fatto che egli si trova nudo, spogliato, dovrà imparare ad accogliere l'essere-amato misericordioso ed umsonst: "pro nihilo", per il suo misero niente e lasciarsi andare in piena fiducia nel sì donato dal Padre, che è presente corporalmente nell'unico Figlio. La fame, nella modalità giusta, cioè in forza della povertà dell'amore sofferto, risveglierà la fame dell'essere come amore; per questo tipo d'amore la sua povertà è già da sempre soddisfatta: il sì del padre è presente in lui con una fedeltà definitiva. (6.12.18 san Nicola).  

Il bisogno gli può insegnare con una dura ed inesorabile scuola dell'amore che egli non può appropriarsi dall'esterno la pienezza di vita, il patrimonio dell'essere donato, nella forma di un Es (esso) (sia che questo esso siano cose o dei pensieri), ma che invece egli è affermato  e portato umsonst, a partire dal suo fondamento, dalla capacità d'amore del Padre. Egli esiste (ek-sistiert), in forza del "lasciar-andare" ontologico, in Colui che gli dona la sussistenza (Sub-sistenz). Egli non è figlio per quello che ha oggettivamente, ma perché egli è un chi a partire dall'aver-ricevuto-sé nella generazione del Padre in se stesso. Così è un egli! La libertà vive dell'Umsonst dell'auto comunicazione paterna, che accade senza pausa. Non la si può ridurre a sostanza-possedimento da usare. Si può essere in un'unità vitale con essa solamente attraverso la fiducia nell'aver ricevuto e lasciarsela donare ed arrivare a sé umsonst continuamente, in modo nuovo ed indisponibile e senza averne un diritto: la si vive in obbedienza a Colui che la dona. (7.12.18 Sant'Ambrogio) 

A questo punto si apre per il figliol prodigo una crisi profonda. Rimarrà fermo al mero non-avere del suo patrimonio, alla sua povertà di fatto, nata dal bisogno dovuto a cause esterne, come la carestia e il consumo di ciò che aveva? Ripeterà, con menefreghismo, ancora una volta il suo vecchio comportamento con il padre? Cercherà la ricchezza del suo patrimonio (come alcunché di cui lo si priva) nuovamente al di fuori di sé e di incorporarsela  bramandola? Si fisserà nella dialettica mortale della spaccatura tra povertà e ricchezza dell'essere? O supererà la dialettica mortale nella sua interezza, la costellazione "avarizia/spreco" nella sua interezza, la sua caducità nella sua interezza? Ma come? Con quali "mezzi", con quale mediazione, se sarà chiaro che ciò non è possibile con i mezzi della decadenza, della dialettica mortale? C'è, nel mezzo del suo bisogno, della miseria della sua mancanza di amore, un luogo (personale), un essere-libero, con il quale gli venga donato un nuovo, giusto e amoroso inizio, nel quale, in mezzo all'impotenza della sua colpa, possa esistere e vivere in un puro e sincero "sì, padre"? 

A causa delle condizioni esteriori non sembra essere più possibile che egli ripeta semplicemente il suo vecchio comportamento. L'intero paese nel quale si trova viene oppresso dalla carestia. Vive in una regione mancante di ogni possibilità. Da nessuna parte appare anche solo una traccia di un patrimonio, che gli sia dovuto e che gli appartenga. Tutto ciò che è suo è stato consumato. Nessuna ricchezza "per ora mancante" è sperabile, una ricchezza che la fame della brama possa far sua. L'ambito, dove prima era possibile aver tutto e regnava la sovrabbondanza, è del tutto svuotato. Lo spazio della sua presenza non offre più nulla, né interiormente né esteriormente. Lo "spazio vuoto" dalla passata "grande libertà" è in realtà uno spazio-miseria pieno di bisogno. (8.12.18 Immacolata Concezione)

Non sovviene in questo stato in cui si trova, al figlio, l'immagine dell'origine così come l'aveva lasciata? Non parla ciò che gli viene incontro lo stesso linguaggio del passato che si trova alle sue spalle? Là il padre aveva distribuito il suo intero patrimonio. E poiché il figlio aveva ricevuto ciò che gli spettava, così, l'origine, ai suoi occhi, non poteva che essere un nulla senza alcun valore patrimoniale e dal quale non ci si poteva aspettare, per l'appunto, più nulla. Il padre aveva fatto il suo dovere. 

Con questo retroscena accade allora lo svolgimento-verso-l'avanti nello spazio vuoto delle apparenti possibilità infinite, che sembravano permettere tutto. Ora diviene chiaro il vuoto insignificante di questo spazio . La propria immagine dell'origine (che aveva lasciato come "vuota") gli viene incontro dall'esterno e si deve con essa confrontarsi, a causa della carestia. Ciò che gli sta davanti è altrettanto vuoto come ciò che sta alle sue spalle: "ma nessuno gli dava nulla". 

Ma sia dal di dietro che dal davanti questo doppio ed unico vuoto è superato con la presenza del padre ed interiormente perdonato (begnadet). Perché, come abbiamo già compreso, la povertà del suo padre (senza patrimonio), che sembra non dire nulla al figlio, è il creativo amore-vuoto del potere del padre, che lo lascia essere e lo rende libero, il grembo (rachem) della sua misericordia (rachamim) (6). (10.12.18)

In forza di questo amore-povertà il figlio viene, se l'accoglie in modo affermativo, consegnato ed affidato a se stesso. Se il padre ha fiducia nell'amore libero e gratuito del figlio, ha fiducia nella libertà, nell'amore "da sé" di suo figlio. In forza del silenzio-vivo di questo amore-vuoto (nota 296) il figlio è se stesso, a lui viene fatto spazio nel grembo del padre, come luogo del suo poter-esistere in e per se stesso. In esso fluisce la pienezza di vita del padre che nutre il figlio, la volontà del padre, che è il suo cibo, di cui egli vive. Questo cibo implica la vita che gli è stata donata, il suo sostentamento (Unter-halt) (7), la sua sussistenza. L'amore-povertà del padre è una pienezza che fluisce. E proprio questo può imparare il figlio ora, attraverso questo vuoto della fame che gli fa male: discernere il vuoto sterile della mera mancanza, del non-avere, della "mancanza di qualcosa" nel senso del non-essere dal vuoto fecondo dell'amore, della povertà, che non è "nulla" per amore, che dona come una fonte che sgorga e fluisce, "rende ricchi" e in silenzio gli fa dire: "Mi leverò e andrò da mio padre!" (8)

((Nota 296: Il Padre che parlando genera la parola non è la parola parlata che parla da sé del Padre  del Pneuma dell'amore e che si esprime.)) (11.12.18, compleanno di mia moglie)

Nella fame, che il figlio soffre, si nasconde e rivela, attraverso la presenza del padre che lo ama di un amore misericordioso e gratuito nel paese lontano, la vera povertà dell'amore, la fonte straboccante della ricchezza del potere paterno: nel Figlio unico, che ci racconta questa parabola e nell'amore-povertà del quale siamo diventati in tutto ricchi. 

Dapprima il figlio fa esperienza del bisogno solamente come mancanza. Esso non è stato ancora accolto in modo amoroso e non è stato ancora ascoltato e letto come il linguaggio dell'amore-povertà paterno. Il figlio non si è ancora arreso alla povertà del padre. Imparerà, facendo esperienza di questa mancanza ("nella carne")  il mistero del vuoto creativo della povertà paterna ("nello spirito d'amore"), che lo lascia essere, che lascia essere proprio lui?  Percepirà nel fatto amaro, che nessuno da a lui ciò di cui ha bisogno, il silenzio amoroso del padre, nel cui grembo ha accolto eternamente se stesso come generato e da cui nasce eternamente? Oserà di fronte al suo bisogno a non cercare, a partire dal suo proprio vuoto, al di là di esso, la ricchezza che lo soddisfa, imparerà a "girarsi" nella sua intimità, (nota 297), cioè ad occuparsi proprio di questo vuoto, a confrontarsi con esso, a rimanere in esso (dando fiducia al padre): nel vuoto del deserto, nel quale ora non può aspettare per sé proprio nulla?

((Nota 297. Questa sarebbe la con-versione, la Meta-noia, nella quale comprende, nella sua intimità, la misericordia che gli è stata donata (nelle viscere: σπλάγχνον  ) avendo misericordia, nell'amore per il padre, di se stesso, della sua povera anima (σπάλαγχνιζομαι )) 12.12.18

NB: 
Cara Susanne  (responsabile dell'editrice in cui è uscito il libro di Ferdinand Ulrich),
grazie che mi ha permesso la traduzione, nel mio blog, per don Julián Carrón,  di alcuni capitoli del libro di Ferdinand Ulrich, Dono e Perdono; mi scusi per la mia telefonata, frutto di un piccolo attacco di panico - sono talmente fuori dal mondo delle editrici, ormai, che la domanda dei diritti di traduzione non mi era per nulla venuta; tanto più che don Julián è stata la prima persona in CL, con mio grande stupore, che trova Ulrich, per la sua vita e per la nostra storia, totalmente interessante. Così in pratica traduco per lui e per comodità sta la traduzione fino ad ora fatta nel mio blog. Nel caso improbabile (per le forze che mi lascia il mio lavoro) che io traduca tutto, allora regalerò alla Johannes Verlag la mia traduzione. 

Saluti, Roberto

Continuazione della traduzione: 

Rinuncerà all'auto compimento arbitrario, che presuppone sempre la spaccatura tra vuoto e pienezza dell'essere, semplicemente perché costretto dall'esterno? O troverà il coraggio dell'amore, di entrare-in-se-stesso, nel deserto, nella siccità senza una goccia d'acqua della sua incapacità, nella scarsezza pietrificata del suo non-potere, così che, a lui (al di là di ogni fare e di ogni dialettica) si presenti questo vuoto della fame come l'amore-povertà della libertà da lui ricevuta e per la quale il dono del padre non è esteriore, ma del tutto intimo perché del tutto donato? Avrà fiducia, nel suo bisogno, del si del padre che dona la vita? Spezzerà la dialettica mortale tra vuoto affamato e ricchezza estranea? Sarà capace di superare se stesso come la povertà-che-vuole-avere insieme al "capitale"  del solo-uomo  (come immaginava essere suo padre) che tiene-fermo-a-se-stesso nella sua ricchezza e a partire dall'amore-povero del suo essere-libero, a partire dalla pienezza del vuoto, cioè a partire dall'essere creato come amore incominciare ad essere ed agire (cosa che con i mezzi della dialettica non è più possibile)? Nello stesso momento in cui cominciasse ad essere ed agire così si troverebbe, nel paese lontano, al cospetto del padre, sarebbe a casa (liberamente, in forza dell'amore), sarebbe egli stesso. Così la legge costringente del suo passato rapporto con il padre morirebbe; il suo passato sarebbe così non cancellato (gelöscht), ma redento (erlöst). (13.12.18, santa Lucia) 

Oppure: continua il figliol prodigo ad essere totalmente deciso nel rimanere fedele a se stesso e al proprio atteggiamento nei confronti del padre, di allungarlo insomma anche nel futuro e di gettarsi perciò, in un desiderio passivo, nelle braccia di una nuova fonte di soddisfacimento per conquistare così ciò che ha perso con le vecchie condizioni? Questo sarebbe una riproduzione del "dammi la parte del patrimonio che mi spetta!", un fissarsi ad uno che ha un patrimonio (ousia) e che la carestia non ha reso ancora del tutto povero. 

c. La fame di unirsi: voler-conquistarsi con "l'appiccicarsi-all'altro"  

Con la fissazione sulla mancanza, sul vuoto del non-avere, non ci si riesce a sfamare. Uno che senta una tale fame farà di tutto per conquistare l'altro per sé, in modo che soddisfi i suoi bisogni. Ma proprio attraverso la modalità del bramare, con la quale si rivolge all'altro, presupporrà costui (che gli sta davanti) come una ricchezza che gli sfugge e in questo modo (all'opposto) si getterà ancora una volta nella fatalità di un vuoto incompiuto. In qualche modo il figlio, nel paese lontano, lo ha percepito: "Mi devo cercare qualcuno, in modo da appoggiarmi così al suo patrimonio, con il quale essere talmente aggrappato, che non possa più allontanarmi dalla nuova fonte di soddisfacimento e cadere nella mia fame. Devo rimanere da lui in modo tale da non venir più separato da lui. Devo trovare qualcuno con il quale sono così in unità che egli riempia, con il suo patrimonio, il mio vuoto; devo trovare qualcuno che come "egli" (l'altro) sia la mia vita." A questo punto è giunto il produttore della sua auto-originalità. Non voleva vivere del e attraverso il padre, ma appropriarsi della parte che gli aspettava del'ousia, come suo Βίος.
 Adesso è agganciato ad un uomo, proprio lui che aveva rifiutato l' "adhaerere  Deo gratis", e permette che l'altro viva la sua vita. Il "signore di se stesso" regredisce in un parassita infantile del cuore di una creatura. Il suo peccato contro il padre, nel paese lontano, diventa per lui giudizio. (14.12.18, san Giovanni della Croce)  

Il figliol prodigo che è ormai solo comincia in modo perverso a cercare proprio ciò che, nel distacco dall'origine, aveva negato: l'unione che rimane con l'altro (9). Ma non la cerca per amore, ma per la paura mortale dell'andare in rovina, del perire. Nel paese lontano il figlio più giovane assume, a suo modo, il ruolo del figlio più anziano rimasto a casa, che non ha osato vivere, per amore del padre, il si al suo essere-se-stesso che gli era stato donato. Per questo motivo al cospetto del padre, come figlio da lui amato,  ha tradito la propria libertà, in modo da poter rimanere unito all'origine, in modo da poter essere "appiccicato" all'ousia. Di questa mancanza di libertà, di cui egli stesso è responsabile, ha incolpato il padre.  

Nel suo bisogno il figlio più giovane perde ora ogni resto di rispetto di sé. Per ciò che gli permette di vivere (il cibo) e per una presenza che rimanga dell'altro, si getta via da sé e sembra poterlo, giacché identifica il suo essere con ciò che concretamente possedeva e attraverso il quale, come abbiamo già visto, si è perso. La fame del voler-avere lo rende schiavo dell'altro. La mancanza di fedeltà e fiducia in se stesso (nel figlio del padre) lo consegna ai "signori" auto-originali, il cui potere in fondo non è altro che quello di essere schiavo di un nuovo signore, attraverso il quale, per lo meno nel senso di una sazietà fisica, vuole vivere: "Dammi una parte del tuo patrimonio, dei tuoi generi alimentari. Dammi un lavoro!". Non più, però: "in modo da essere me stesso e condurre la mia vita", ma nel senso del: "dammi così che non possa più venire separato da te, sii tu la mia fonte originaria che rimane." Dove è rimasto quel "da sé" che si era arrogato? Dove è il patrimonio di colui che voleva essere suo padre? Cerca, nel paese lontano, uno pseudo padre, con il quale possa essere unito in modo perverso. (15.12.18)

Così cerca disperatamente un cittadino di quel paese lontano e si mette a sua disposizione. Il modo con cui si consegna a lui viene espresso im modo del tutto chiaro: έκολλήθη è aoristo passivo di κολλάω: incollare. Si aggancia, si incolla. "Vi appiccicate al prossimo ed avete delle belle parole per questo. Io, però, vi dico il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi. Cercate il prossimo per fuggire da voi stessi e volete che ciò sia virtuoso, ma io ho compreso la vostra "mancanza di sé"".

(( Nota 298: F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra): Von der nächsten Liebe (Sull'amore del prossimo), WW (K. Schlechte) II, 324. Cfr. per questo tema: Ferdinand Ulrich, Gegenwart der Freiheit (Presenza della libertà), Einsiedeln 1974, 2. parte: "Wir-Gestalt der Freiheit". Der Nächste und Fernste - oder: Er in dir und mir, 75, sg. ("Noi-figura della libertà". Il prossimo e chi è lontano - oppure: egli in te e me). )) (10)

Non solamente per questa forma perversa d'amore del prossimo si appiccica allo straniero. Non vuole neppure essere virtuoso. Il suo movente è la fame. E tuttavia questo legame che vuole contrarre nasce da un cattivo amore-di-sé o ancor meglio dall'incapacità di un tale amore, perché l'aveva tradito per un mero aversi: concreto ed egoistico! Aveva cancellato, nella presa in possesso del patrimonio che gli spettava da parte del padre, il suo personale amore-sì che si manifestava anche nel dono. Non aveva preso il suo patrimonio come colui che è amato dal padre; non aveva né assentito a se stesso in modo amoroso né aveva detto grazie al donatore. La profondità del suo sé rimaneva incompiuto, vuoto. Il suo "essere-incollato all'altro" è il risultato della sua incapacità di amare-sé, cioè del suo fallito amor-proprio (Eigenliebe), che è il contrario dell' amore-di-sé (Selbstliebe). In forza del suo cattivo amore-di-sé vuole vivere attraverso un altro e in vista di ciò rinuncia anche alla possibilità di separarsi da lui appena gli da o gli ha dato ciò che gli serve. "Non voglio più separarmi da lui. Per sopravvivere mi rassegno ad accettare che l'altro è la "mia vita", che egli è "tutto" per me". Colui che voleva essere il padre di sé rende un altro uomo un idolo e lo trasforma nella fonte della sua sussistenza. L'apparente signore diventa schiavo di un altro signore. (17.12.18)

La "grande" libertà dello spazio vuoto, l'apertura sconfinata delle possibilità non esiste più. Appare il cittadino (πολίτης), che si muove nei limiti di determinati doveri e diritti, che è responsabile della vita comune della πόλις e che riconosce le sue leggi come proprie. Si sottopone a questo modo di esistere e alle esigenze che nascono da esso, lui, che non voleva rimanere nell'ordine vivo dell' ousia comunicata dal padre. Lo spazio vuoto passato del paese lontano viene sostituto da un nuovo stato d'animo: una modalità d'esistere definita e determinata che si caratterizza come un essere-nel-mondo, una specie di struttura sociale (anche se all'inizio essa è ancora del tutto astratta) e "legge essenziale" (Wesens-gesetzlichkeit), da cui era fuggito. Dipendendo da un cittadino di quel paese si rende dipendente dalla legge di questa πόλις; un'ombra fosca e non chiara del legame perduto all'ousia, la legge della casa paterna. Un primo crepuscolo dell' "obbedienza"? Fosse questa dapprima anche solo compassione con un preciso scopo.

E il πολίτης? In lui diventa concreto ciò di cui il figlio ha fame. La "pienezza straripante" - ma ancora nella forma della sussistenza, intesa come cosa e materia.

(( Nota 299: πόλις (πολίτης) dalla radice indogermanica per-, ple: versare, scorrere, riempire, imbottigliare; ple-ro: pieno; in greco πλήθω: sono pieno, mi riempio; nell'antico alto tedesco popolare: mucchio, popolo. In latino pleo: pienezza, plebs: moltitudine; in greco Πολύς: molto (dall'indogermanico, pleu-es: sovrabbondanza). ))

La meta del suo cercare è il negativo della sua immagine del padre, della sua prima rappresentazione della sua origine, alla quale non voleva essere incollato, da cui non voleva dipendere (ad-haerere), del cui patrimonio non voleva vivere. Non può avere più nulla dal padre: dal cittadino del paese lontano spera di avere invece un nuovo sostentamento. A tale riguardo è quest'ultimo, considerato nella prospettiva del modo di comportarsi del figlio, un immagine del padre, al quale è ancora legato in modo negativo, nonostante la separazione. Poiché il modo con cui si è separato dall'origine, contro l'unione con essa, cioè la sua mancanza di fede nell'essere donato-in-libertà dal padre, o detto altrimenti la verità, di non essere partito autonomamente in forza dell'unione con il padre, diventa l'unione perversa con l'altro come suo destino. (19.12.18)

Separandosi da casa sua aveva arraffato il patrimonio che il padre gli aveva consegnato e lo aveva messo da parte contro di lui, contro la sua presenza nel dono, che egli aveva ricevuto. Non ha permesso che la volontà del donatore operasse in lui. Nel suo patrimonio non aveva dato il suo assenso amoroso alla volontà del donatore. Ora, nel paese lontano, vuole fondere in una entità non separabile: donatore, dono e se stesso.

((Nota 300. In una specie di secolarizzata "Onto-theo-logia", in cui l'" essere reso logica" (11), come mezzo tra l'ente ("onto") e Dio ("theo"), è la colla, che tiene entrambi uniti. ))

Poiché la separazione non è compiuta come sì al padre e a se stesso, ma invece come no all'origine, così il padre dimenticato era presente sempre, nel segreto, come istanza da negare. Lo spreco come manifestazione dell'auto-originalità avrebbe dovuto farlo sparire definitivamente. Questa impresa, però, è fallita.

Ora il cittadino straniero ha assunto, in modo nascosto, i tratti dell'origine, come il figlio (ancora) la vede; però, non vuole né può più separarsi da lui, perché se no dovrebbe morire di fame. Viene fatto vedere a lui nuovamente e da un'altra prospettiva che è rimasto incollato all'origine, in modo regressivo, con il suo inscenato addio da casa, volendosi appropriare del suo dono per mezzo di un cattivo vuoto, di una brama di essere-se-stesso. La parte intima della sua esistenza dipende, senza alcuna libertà, dal luogo che ha lasciato. La sofferenza sfoglia questa pagina verso l'esterno e la rende pubblica. Tutto ciò che accade in questo bisogno gli presenta davanti agli occhi se stesso e la sua condizione e lo "costringe" al passaggio attraverso se stesso: se si arrende alla misericordia del padre che è presente nel bisogno. (20.12.18)

Come a partire dall'incredulità di essere-amato, dall'incapacità di abitare in se stesso e di essere con tranquillità interiore se stesso, dicendo al padre "dammi la parte del patrimonio che mi spetta", si piega su di sé, così ora si dedica al cittadino, nel paese lontano, in modo che egli viva per mezzo di lui. Si decide di fare ciò che aveva rifiutato al padre. La volontà di un altro, a cui si consegna, deve sostituire il suo cattivo amore per se stesso. Cerca ancora una volta, ora spinto dal bisogno, la sua sussistenza a partire dall'esterno di sé, senza aver ricevuto e senza percepire l'- ed assentire all'essere-amato con fiducia. Si impoverirà radicalmente in questa sua ultima mossa. Per l'uomo che si è fatto da sé come dio l'altro uomo, che per lui non era "nulla", diventa un dio, degradandosi così a sua volta ad essere un nulla, perché (!) questo dio sia in lui il suo tutto. - 

L'essere invadenti, l'essere-incollati-all'altro è un fenomeno complesso. Nasce dalla paura di non essere percepito dall'altro in ciò che si è. "L'altro non mi vede nella logica del "da sé" e così non vede il mio bisogno. Per lui sono anonimo e senza significato. Quindi devo, in un certo senso, "aggressivamente" far si che mi riconosca , fargli vedere che esisto e e che cosa mi capita. Devo esprimere chi sono ed informare ed impressionare l'altro continuamente con la mia vicinanza, per così dire, come un materiale coniabile. Se smetto di farlo, sparirà senz'altro la mia immagine dalla sua mente. Non si ricorderà di me. Chi è perso no può farsi donare pazientemente l'essere percepito dal-, l'attenzione dell'altro,  perché non è capace di essere interiormente tranquillo in e per se stesso. (22.12.18) 

Il solo-vuoto della fame e della brama non conosce l'arrivare libero, il futuro gratuito e la presenza dell'altro. Non può crede che l'altro veda, ascolti, aspetti ed inizi 'da sé', umsonst.  Poiché non accoglie ed assente all'essere compiutamente amato, all'essere liberato nel sì del padre, non si sente come degno-d'amore e si fa perciò da se stesso prezioso, volendo essere così oggetto di riconoscenza e legando l'altro a sé. Ma tutti i presupposti per l'essere amato, che produce con le proprie forze e di cui si attornia, manifestano solamente il suo vuoto interiore, la sua impotenza ad essere ontologicamente fecondo. Per questo motivo il suo agire si esaurisce a nascondere Ia sua mancanza, ad assicurarsi contro un possibile smascheramento. Ha allontanato il suo sguardo dall'altro e lo  ha rivolto a sé e percepisce l'altro solamente come colui che lo minaccia nel suo nascondiglio. E si rende così del tutto incapace di riconoscere un possibile sì dell'amore dell'altro. Al contrario! Non vuole per nulla ricevere il sì dell'altro, perché in questo modo dovrebbe confrontarsi con se stesso, dovrebbe guardare la sua miseria e sarebbe chiamato a lasciarsi-andare come solo-vuoto, dovrebbe rinunciare alla sua perversa povertà, dovrebbe cedere all'aver-ricevuto. Per questo non accetta il sì dell'altro come intimo dono liberante, ma solamente come accusa: "Non sono come dovrei essere. Non sono degno del sì. È meglio che tu te ne vada, quando non ti vedo più. La tua presenza mi rende colpevole." Interpreta questo sì come un rimprovero ed un'accusa, chiudendosi così anche rispetto al venir-riconosciuto. Accogliere umilmente il sì significherebbe: morire nel proprio vuoto orgoglio che tiene fermo a se stesso e discendere, per amore, nella dimensione dell'essere-sotto, cedere all'essere-amato compiutamente, essere in esso interiormente tranquillo. Ma proprio questo non vogliono il solo-vuoto e la sola-brama, perché ciò significherebbe la loro morte. (24.12. Vigilia di Natale). 

Non è in grado di donare all'altro un anticipo di fiducia, perché non è capace di aprirsi all'altro, a partire da una fiducia verso se stesso che nasce dal sì ricevuto dal padre, per l'appunto in anticipo. Non può presupporre l'altro come libertà che agisce da sé e viene a lui liberamente. Il tu mi si avvicina solamente se mi sottometto a lui, se divento totalmente trasparente alla sua volontà: insomma pagando il prezzo dello svuotamento-del-mio-sé. Da una parte mi svuoto al suo confronto come un passivo Es (esso), dall'altra mi immagino che egli stesso sia un io (=Es) immobile, che posso tirare-fuori-da-sé, solo con il mio totale essergli-appiccicato, portandolo così alla "consegna" del suo patrimonio e costringendolo alla "misericordia"con il mio bisogno. Chi non è se stesso non può permettere all'altro di essere-se-stesso, non può ricevere da lui umsonst (gratis).  Con un tale comportamento l'altro si sentirà assorbito ed abusato e cercherà di rigettare (nota 301) il "parassita" che gli succhia forza vitale come fa un verme con la carne viva e cercherà di separarsi da lui come lui si era separato dal padre arraffando la sua vita nella figura del Es (Πάντα) e incurvandosi nel suo io. Ora lo colpisce la separazione con cui si era allontanato dalla sua origine: una separazione senza amore è sempre un concreto essere rigettato, un essere espulso come una cosa. (27.12.18; san Giovanni evangelista).


((Nota 301: Espresso in modo ontologico: la perversa e prototipica "Identità" con l'altro si punisce da sé con una separazione mancante di vita tra colui che dà e colui che riceve. Chi riceve non può prendere il dono nella sua origine, ma è costretto a cercarla al di fuori di colui a cui si appiccica: nei maiali )). 

Il cittadino del paese lontano lo manda fuori sui campi, in modo che possa sorvegliare i maiali. Insomma gli dice: "Tu devi ricevere proprio ciò che vedi in me e ciò per cui tu mi vuoi usare: un Es (esso) che tu credi di potere disporre per la tua fame; "me" come oggetto della soddisfazione dei tuoi bisogni. Vai a cercare questo che cerchi la dove lo puoi trovare: dai maiali, che per quanto riguarda il cibo non sono schizzinosi. Sorveglia ciò che possiedo (il mio Es), ma lasciami in pace." Appare di nuovo la vecchia scissione tra persona e "cosa", padre e ousia pensata come cosa. Il figlio soffre ora la modalità del suo comportante con il padre.  (3.1.19)

Appiccicandosi all'altro tenta ora di risucchiarlo nel suo vuoto. Non trova pace in se stesso.  Non può ancora essere-in-se-stesso, non può ancora fare un autentico esame di coscienza, non può ancora rimanere nel suo nudo e disarmato essere-figlio, non può "rimanere" nell'amore. Mancando del proprio essere-se-stesso, non può lasciare andare l'altro nel suo proprio se-stesso, non lo può lasciare andare nella sua libertà. Non è in grado di rivolgersi, pregando, con il fiducioso impegno di se stesso, al tu e alla sua libera volontà. Non crede in una tale "causalità della libertà" (Franz von Baader). Il luogo di un tranquillo affidarsi no è ancora raggiunto. Per "mezzo" del suo bisogno e della sua impotenza costringe l'altro, seguendo le aspettative della sua brama, ad "incontrare" il suo sé e anticipa la forma della sua possibile cura. Non è ancora rinato nel sì dell'amore-gratis. Per questo l'altro si sbarazza di lui e cade nello stesso vuoto, da cui nasce l'accollarsi-all'altro. 

Forse pensa in segreto: "Cosa questo estraneo faccia con me, mi è indifferente. Anche se mi manda via, - ciò che conta è che mi dia qualcosa. Se egli intenda veramente me, - che importa? Importante è che io abbia qualcosa da lui". Nello stesso modo si è comportato nel suo rapporto con il padre, nella sua vita come figlio, con il dono dell'amore dell'origine: "L'importante è che io riceva qualcosa da lui. L'importante è la parte di ousia che mi spetta, decisivo è il compiersi del mio diritto, se in ciò accada o no l'auto-comunicazione del padre, il mio essere amato da lui, il mistero dell'Umsonst, ciò non ha nessun valore". Questo significa: "Non voglio essere amato e a partire da ciò amare, come il padre mi ama" o "io non voglio amare". In questo modo viene negata la presenza di chi dona nel dono e viene rubato il carattere di dono al dono. Quest'ultimo viene pervertito così in un anonimo Es. E proprio questo suo atteggiamento interiore gli verrà incontro dall'esterno: nessuno gli da qualcosa! Nemmeno nel cibo dei maiali troverà anche solo una traccia di presenza umana, nemmeno questo gli viene dato!
(4.1.19)

A questo punto si spezza il legame dialettico, che per ora è ancora in lui dominante, di brama-povertà ed eccedenza, di fame e spreco, di vuoto e pienezza. Non si può sperare nulla né da una né dall'altra dimensione. Al bisogno è tolta ogni prospettiva di uscirne. La fame non può aspettarsi di essere sodisfatta. La povertà della sua miseria viene confrontata con se stessa: ma non come in uno specchio. Perché in questo modo il figlio prodigo rimarrebbe prigioniero ancora della vecchia figura dialettica di vuoto e pienezza. Guardando in faccia la sua povertà, che non può trovare più il suo compimento al di fuori, comincia a morire il cattivo vuoto della brama. Attraverso la grazia del dolore entra in sé fecondamente. Ma la profondità, che appare in questo ritorno a se stesso, è qualcosa di totalmente altro dal "Se", che dapprima "aveva" solamente. Comincia ora a riconoscersi nell'essere-figlio. Si muove verso l'obbediente amore-povertà dell'essere amato in se stesso. È la nascita del ritorno al padre. 

d.   Il lavoratore a giornata dell'Es dai maiali 

5.1.19

Separato da colui a cui sarebbe stato lecito di fare con lui tutto, se gli fosse stato possibile ridursi a cosa, va fuori nei campi, in un nuovo "spazio vuoto", dove ritrova la qualità propria delle sue prime possibilità, cioè l'Es avuto del suo patrimonio, la verità svelata del potere che si era arrogato: nella forma dei maiali. Nel bisogno gli si è presentato, aspramente, ancora una volta il destino della sua drammatica separazione dal padre, in una forma dapprima disperata; deve (gli è lecito) soffrire tutto ciò, "ripetendolo in avanti" (Kierkegaard).  

Mandato in disparte, nell'ambito estremo dei confini del paese lontano, gli viene indicato in modo doloroso ciò di cui era veramente signore, nel trionfo apparente di essere il padre di se stesso: era signore di se stesso nella forma dell'Es, con il quale apparentemente poteva fare ciò che voleva - in vero questo "esso" non è mai stato intimo al suo se stesso come libertà donata, ma sempre era caduto al di fuori di sé  come l'altro estraneo. Era il signore di un altra cosa (di un altro), non di se stesso. In questo modo, lui che era il "signore" si era umiliato ad essere uno schiavo, si era degradato ad essere un oggetto ed aveva pagato il potere raggiunto con la morte. La vetta del suo potere era identica con la sua impotenza e il cosiddetto trionfo della libertà identico con la sua totale schiavitù. Egli che si sentiva il disilluso padre di se stesso è diventato ora il pastore ("padre") dei maiali. 

((Nota 302: "Padre" (Vater) deriva dalla parola indogermanica pō(r): proteggere; pō(i), pi: pascere il bestiame, custodire; pō-tro: contenitore; cfr. in greco ποίμνη: gregge; ποίμήν: pastore. Questi legami linguistici sono molto significativi, anche se la parola pa-ter dovesse derivare dalla balbettio infantile "pa" )).

È il custode dell'Es ed ne è diventato il suo contenitore vuoto, arraffando ed immagazzinando il suo patrimonio nella cavità, nel vuoto dell'io = io. (12) Come "padre di se stesso" si alimenta ("figlio di se stesso") attraverso una comunicazione perversa del proprio sé, attraverso l'apparenza dell'amore senza perché, dissipando il proprio patrimonio. È diventato custode di "sé". Ciò viene rivelato nella sua reale "mancanza di casa" e "mancanza di patria": "Tu non sei il tuo signore"; tu non "sotto stai" (hypo-stasis) a te stesso; non sei il rappresentante di te stesso; rappresenti maiali; il tuo io "sotto sta" l'Es (io) - questa è la tua impotenza" (Nota 303). Ogni tentativo di fondare-se-stesso è fallito.

((Nota 302: il maiale era considerato un animale impuro: cfr. il divieto mosaico di mangiare carne di maiale; cfr. Is 65,4; 66,3 e Mt 8,28 sg. (13) "Non gettate le vostre perle davanti ai porci" (Mt 7,6): non tradite la ricchezza dell'amore ricevuto trasformandolo in un Es a cui date da mangiare o presentate come cibo. Il dono della libertà presuppone libertà; non vuole essere accettata come avidità di un cibo, ma in libera obbedienza. Deve essere obbediente perché  la libertà (e il donatore) sono fedeli a se stessi. Quindi: date nella verità, fedeli al dono e al donatore e non gettando via a piacere, sprecando ciò che si da. Cfr. in greco χοίρος, maiale domestico; χοιροπωλειν: prostituirsi (Aristofane), che è poi il rimprovero che gli fa il fratello più anziano. Nella parabola non si parla di ciò, anche se è del tutto chiaro che il figlio va via dal padre per andare "a puttane"; allontanandosi come un ladro dalla responsabilità dell'essere amato ha sostituito il corpo dell'amore con il corpo del denaro; l'ousia della amorosa comunicazione di sé con l'Es-patrimonio. ))

Nel luogo dei maiali il figlio si muove nell'ambito dell'impuro, cioè nella massima estraniazione da casa; un'estraniazione che non è pensabile neppure come il "negativo" della sua provenienza originaria. Si è rotta per il figlio, in questa sfera dell'impuro, ogni simmetria tra interno ed esterno. Non c'è neppure un rapporto lineare qualificato negativamente: da casa al paese lontano. Il percorso della caduta non si lasca schizzare in modo preciso. Così si cancella, un po' alla volta, la sua cattiva memoria dell'origine come oggetto del suo primo rifiuto. Tutti i fili che ricollegavano in qualche modo all'origine si sono spezzati. Origine e luogo in cui è caduto sono incommensurabili. L'orgoglioso ed autonomo sì a se stesso, si è ripiegato in se stesso. Guardando indietro, nel passato, non c'è alcunché di negativo, che sarebbe ancora possibile negare, così che fosse ancora possibile un sì-apparente a se stesso. Anche la possibilità dialettica della costruzione del sì, attraverso la negazione del negativo (o della negazione), è andata persa. Tutto è perso! (14).

(11.1.19)

Il figliol prodigo si trova nel campo dei maiali al di fuori dei confini del podere paterno, che possono dividere e distinguere tra fuori e dentro, puro ed impuro. Soffre in una miseria tale che lo stesso straniero è anche estraneo. (15) Diventa impossibile ogni memoria del percorso fatto "all'indietro", sulla linea intrapresa della separazione. Il punto finale consequente di questo cammino cade al di fuori di esso. Qui si intravedono, senza poterli dedurre, in una prima approssimazione, tracce di una liberazione donata. Nel suo bisogno ha superato l'opposizione (Gegensatz) oggettiva tra puro (dentro) e impuro (fiori). La sua conversione non può e non avverrà (dialetticamente) all'interno di questa opposizione.

In questa miseria appare davanti al suo occhio interiore il suo rapporto con il padre. Aveva interiorizzato come un "esso" l'amore gratis che gli donava talenti e lo liberava riducendo il patrimonio paterno "nella sua parte". Ora è il signore dell'Es evidente e come tale schiavo di un altro che può licenziare i suoi custodi di maiali, che sono lavoratori a giornata, quando vuole. La sua signoria è schiavitù. Si è catapultato da solo al di fuori della casa della libertà, nella quale vive continuamente l'unico Figlio. In ogni momento può essere esonerato dal suo lavoro. Il suo impegno sarà ricompensato forse con un po' di denaro, che, però, per la carestia non ha nessun valore. La donazione delle sue proprie capacità vitali nel lavoro viene ricompensato con il rientro di un "patrimonio" morto. La sua ultima capacità, la sua forza fisica sfinita ed indebolita per il bisogno in cui si trova, è per il cittadino di quel paese lontano una merce alienata e disponibile.

12.1.19

In questo modo il suo comportamento nei confronti del padre e di se stesso viene rivelato fino al suo fondamento. Ciò che prima dominava come suo avere gli è rimasto alcunché di estraneo e non è stato lui stesso come libertà. La proprietà che aveva arraffato lo ha lasciato, in mezzo allo spreco, vuoto ed affamato. Proprio questo viene ora rivelato completamente: ciò su cui come pastore ha "potere", non fa parte in alcun modo di ciò che possiede. Non può neppure mangiare, ciò di cui si cibano i maiali. Non gli si dona neppure questo. Al proprietario importano più i maiali che il pastore. Se questo muore di fame, ne arriva un nuovo. Nel bisogno ogni lavoro è benvenuto. Il "luogo" del figlio è "al di là" dell'ousia del suo signore. Quest'ultimo lo ha collocato come pastore dietro il suo patrimonio: gli ha vietato di mangiare il cibo dei maiali. I maiali sono più "indipendenti" di lui. Colui che ha viene posseduto. È il servo impotente del suo Es, addirittura incapace di prendersi il cibo dei maiali. Questa è la evidente impotenza sua su di sé e l'impotenza nei confronti dell'altro. E tuttavia il narratore della parabola che ascoltiamo, in mezzo a ciò che egli racconta, è presente come il buon pastore, che va dietro a ciò che è perso ed è dal figlio prodigo e in lui in modo amoroso, ancora di più, egli perde tutto per amore, per, con il suo amore-povertà, salvare il povero senza amore. Ha aiutato altri, mentre non può aiutare se stesso. "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto". (Lc 23,35). 

(15.1.19)

In questo contesto sovviene alla nostra memoria l'immagine profonda dell'Ulisse che ritorna nella sua patria (Nota 304) e che la maga Circe vuole incantare con i suoi compagni. Quest'ultimi vengono trasformati in maiali. Il Dio greco Hermes (il postino degli dei che dall'alto improvvisamente porta l'irruente messaggio; il potere del superamento dei limiti, dell'andare oltre le dimensione separate dell'esistenza, delle mediazioni mediali, etc.) protegge Ulisse, che cancella con la sua spada il cerchio magico di Circe e la costringe a liberare i compagni che si sono fatti ammaliare.

((Nota 304. Quidquid dictum est et a quocumque dictum est, si verum, de Spiritu Sancto est"( Ambrosius) ))

Chi dimentica il ritorno in patria e l'origine, accontentandosi di sé e tratta la vita donata come una sostanza morta che viene solo posseduta, chi si chiude nel suo io = io e si fissa nel monologo di una pseudo libertà incapace di comunicarsi , diventa un "maiale". Perde l'orizzonte del "mondo", l'apertura nella "interezza dell'esistenza" e si snatura come servo degli scopi; si chiude nel cerchio del do ut des, del se/allora, del perché/allora; egli va sempre "in circuito" (gira intorno a se stesso), diviene incapace di partire in modo creativo ed amoroso al di la di sé. Riduce la sua vita in questioni che riguardano solo l'ambiente e i rapporti interpersonali. Si perde ed ingarbuglia in giochi di parole astratti e comandati da altri, nel suo operare, a livello di ciò che si ricorda e di ciò che fa. (22.1.19)

Il figliol prodigo si è separato dal luogo dell'esistenza libera vissuta per se stessa e si è consegnato nelle costrizioni del "per" ed "affinché", dell'usare e dell'essere usato. Per lui, per così dire, tutto accade nella modalità del cortocircuito, del mero mezzo e così la vita accade nella sua interezza, senza presenza (gegen-wart-los). Nessuno più guarda con il cuore il cuore dell'altro, il suo volto interiore (facies cordis, Agostino, Sermone 136, ; PL 38, 751). "Ma se io non vedo più il tuo cuore e tu non vedi più il mio cuore, allora è notte" (Agostino). La vita si esaurisce in un vuoto "significato per...", in funzioni non essenziali. Non gli è più propria alcuna figura e meta ontologica. Perché egli sia qui ed esista viene stabilito solo dall'uso dell'esistenza che se ne fa, determinato dall'efficienza e come voluto aumento massimo del profitto. La possibile soddisfazione della brama determina il posto in cui ci si trova, a cui non è propria la clama interiore dell'abitare libero e fondato in se stesso, dello stare in se stesso. Se il luogo non offre più sufficientemente nutrimento, si cerca cibo da un'altra parte. (23.1.19)

Ulisse (16) interrompe questo circolo (Circe: Κίρκης, κίρκος cerchio) di un rapporto immediato, come quello di un cortocircuito, tra "brama ed arma". Distrugge il cattivo aggrapparsi tra voglia e compimento, supera l'anticipazione del compimento che è allo stesso tempo disperato ed arrogante e che può essere donato solo a chi ritorna in patria: nel non-ancora della speranza e della pazienza. Libera verso un desiderio che non si infiamma del vuoto di un non adempiuto voler-avere, ma che nasce dall'essere-se-stesso e che esprime il suo grazie all'autocomunicazione dell'origine. Sconfigge il menefreghismo di coloro che si muovono nel cerchio di se stessi e di Circe, di una presenza senza origine e senza futuro: il tempo vuoto del "io ci sono". Ricorda ai suoi compagni il cuore della loro libertà, la dignità del loro essere, ricorda loro ciò che sono stati in se stessi, aprendo così il futuro della libertà, che è in cammino verso l'origine; che non si racchiude, accontentandosi di se stessa, nella finitezza, non si lascia ammagliare dalla maga, ma tornado a casa apre il tempo all'eternità, cioè la capacità di essere rispettivamente presente "nell'ultima ora". La sua forza maschile ("spada") non si lascia paralizzare dalla magia di una banale soddisfazione dei propri bisogni, non diventa prigioniera del monologo dell' io = io, non si lascia consumare nella manovra istintiva che oscilla tra fame e sazietà. La vicinanza tentatrice di ciò che è qui e ciò che si ha viene gettata nella lontananza sperata della patria, che è quella della libertà in cammino: che dona coraggio e fiducia in se stessi, che apre e relativizza gli ambiti di ciò che è a disposizione, che impregna il mondo con il linguaggio della promessa e che rende possibile l'andare avanti e l'andare oltre (movimento e trasformazione) dell' "homo viator". (San Tommaso, 28.1.19)

Sempre laddove la "vita da maiali" riceve il cibo, lì vuole rimanere e si sente bene ("l'amore passa attraverso lo stomaco", "panem et circenses"; "circ-us", "Circe). Il suo comportamento è regolato dalla legge dell'istinto, è prigioniero del ciclo storico del divenire e sparire, cui manca la povertà della pazienza della memoria viva dell'origine in cammino. Nell'orizzonte di questa vita il rapporto del Sé con il mondo è ridotto ad un reagire mondano (umwelthaftes Reagieren) e così è morta la libertà dell'impegno gratuito ed è paralizzata la capacità di aspettare. Sono eliminati la rinuncia e il sacrificio per giungere ad una meta (17). La brama ha trovato la sua casa in un cerchio di regole determinate, che lega il desiderio e il suo compimento l'uno con l'altro in modo simmetrico. Esterno ed interno, oggetto e fame si adeguano l'un l'altro indifferentemente.

È questa un'immagine della chiusura del figliol prodigo in se stesso nella quale ha assorbito l'autocomunicazione del padre. In questo modo ha dimenticato la "lontananza" creativa dell'origine, la cui positiva inaccessibilità gli aveva aperto il futuro del dono dell'essere-se-stesso, gli si era avvicinata liberamente e gliela aveva consegnata gratuitamente, e in modo così profondo che egli, in forza del padre, come figlio, è stato questo dono, cioè che non è mai stato non-figlio. Questo dono ontologico della sua libertà è dapprima ancora nascosto, la sofferenza non raggiunge ancora una dimensione sufficientemente profonda per aprire, attraverso il dolore, le camere del cuore. Il figlio non vive ancora il suo bisogno, la sua fame e il suo vuoto come povertà positiva, come amore-vuoto dell'obbedienza nei confronti del si assoluto del padre, in forza del quale egli è colui che è. Non ha fame a partire dall'originario essere allattato, dqll'aver ricevuto in forza della presenza nascosta del padre in lui. Il suo vuoto non è ancora il vuoto-povertà della pienezza del suo essere-se-stesso, non è ancora redento nell'obbedienza della libertà amorosa, ma è ancora uno spazio vuoto, solo-povertà, senza una ricchezza intima ed ontologica, senza la forza del poter rinunciare ad un mero avere-sé: nella gioia e nella pace dell'essere amato. Il suo desiderio non vive ancora della pazienza, del distacco interiormente calmo della differenza tra amore e compimento. Gli manca la pazienza del poter aspettare (18). 29.1.19

In questo stato tutto è ancora un funzionale "per", mezzo ed strumento. Ognuno per l'altro è presente, ma solamente come mezzo, fatto decadere ad un Es senza dimensione ontologica. L'esistenza che sa soffermarsi nell'incontro tra libertà e libertà è impossibile in questo contesto di rapporti umani mondani. Se uno guarda l'altro non può vedere il suo volto, l'evidenza del suo mistero personale. Si privano reciprocamene del proprio "se stesso" per un momento neutrale, nella griglia delle intenzioni e degli scopi da realizzare. Ognuno è per l'altro solamente un fuggente "affinché", una provvisorietà che si può passare velocemente, da cui trarre un profitto più o meno grande, un sorvolare anonimo nell'azione della espansione del proprio io. Nessuno arriva a parlare a partire da ed per se stesso. Il sistema della disponibilità generalizzata ha trasformato la presenza della libertà di ognuno per tutti e di tutti per ognuno in un "tra" globale e determinato nella modalità di un "Es", che regola nella sua struttura fissa, azione e reazione dei soggetti senza che possa giungere, in forza di un'autoapertura libera, l'uno all'altro. Se accadesse ciò, allora sarebbe distrutto il codificato passato del "tra" (il noi ridotto definitivamente in una cosa) e sarebbe rivelato il "tra" come amore-vuoto creativo, che afferma l'altro per se stesso e lo mette in moto così a partire da sé, nell'autocomunicazione che gli è originariamente propria. Il cerchio del "do ut des", il potere di Circe, sarebbe frantumato. (30.1.19)

e. Nessuno da a chi ha la sua origine in sé ("Selbstursprünglichen")

Non siamo ancora arrivati al punto giusto! Volentieri vorrebbe il figliol prodigo riempirsi lo stomaco (Κοιλιά la cavità addominale) con le carrube della ceratonia siliqua (carrubo), che vengono gettati ai maiali come cibo, "ma nessuno gli dava nulla" (ούδεις έδίδου αυτώ). Certo non è più un mero gaudente, dissipatore del suo patrimonio. Lavora come pastore ed in un certo senso agisce da "se stesso", anche se come lavoratore a giornata di un altro. Ma ora è raggiunto il limite dove è chiaro perché egli non vive in forza del proprio sé, delle sue capacità, che sono originarie della sua natura e che si fondano in se stesse ed è chiaro che non opera e non esiste in modo fecondo. Siamo arrivati al punto dove è chiaro perché egli non abbia fiducia nel essere amato dal padre umsonst e perché tenti di appropriarsi del suo patrimonio ontologico solamente dall'esterno (nel rapporto con il padre), nella forma dell' Es. Questa modalità per giungere all'ousia, alla sussistenza diventa ora definitivamente impossibile. Da nessuna parte gli si offre una fonte di alimentazione. Ciò che gli si offre esteriormente rivela il suo stato d'animo interiore: nessuno gli da qualcosa, perché egli non ha ricevuto nella libertà, non si è fatto dare nulla dal padre in una fiducia amorosa e non vive in forza del aver-ricevuto umsonst. Non può lavorare perché gli è stato detto di sì per la sua natura e non può comunicarsi. L'impotenza del suo spreco aveva già rivelato tutto ciò. A chi non è capace di prendere, a chi non ha ricevuto, nessuno da qualcosa. Il vuoto, che sparge in sé ed intorno a sé colui che si è deciso per un'autonoma autooriginalità, si diffonde dall'interno e dall'esterno. Il giudizio sulla sua perversa autooriginalità gli piomba adesso: "a chi è autarchico, a chi basta a se stesso, a chi si accontenta del suo patrimonio, a chi è "causa sui" nell'avere, a costui non c'è bisogno di dare alcunché, perché ha già tutto". Nessuno gli da qualcosa, - nemmeno il cibo dei maiali, le carrube senza frutto, la superficialità priva di semi. Chi voleva solo avere, afferra il vuoto; piano piano muore l'afferrare bramoso (attraverso la presenza nascosta del perdono) (Vergebung) nell'inutilità (Vergeblichkeit) del suo agire. (31.1.19, don Bosco)

Anche nel rapporto con il padre voleva riempirsi "la pancia vuota", voleva "saziarsi" con lo strappare-per-sé la sua propria vita, che egli si rappresenta concretamente come "rifiutata", come parte dell'ousia. Voleva costringere il padre, che presuppone come uno che-tiene-fermo-a se-stesso, nel vuoto del sua "fama di sé", perché consegni se stesso. Ma in questa modalità basata su un mero rapporto di diritto (che non si fonda sulla giustizia dell'amore, né sulla misericordia del padre), il padre non gli aveva dato niente: cosÍ no! Ciò che aveva dato lo aveva dato per amore umsonst. E questo "così no" il figlio lo sperimenta ancora una volta nella miseria, attraverso il fatto che "nessuno gli dava nulla". La vecchia forma del suo prendere è distrutta. Attraverso la modalità con cui egli ha preso possesso di ciò che il padre gli ha dato, rende a sé impossibile il libero prendere nella fiducia che gli sarà dato ulteriormente umsonst. Lo strappare-per-sé, l'arraffare del dono, nella figura di ciò che possedeva, creava già dall'inizio l'altro estraneo, che gli strapperà a sua volta ciò che possiede, e che lo vorrà ottenere per sé contro di lui. Ciò che ha posseduto diventa, contro l'intenzione del proprietario, il possedimento di un altro. Così produce dappertutto il divieto, il vuoto, la fame e la ricchezza, il patrimonio dell'altro estraneo, che egli ha tentato di riprendersi con la brama della fame di auto compimento. (1.2.19).

Nessuno, però, gli dava delle carrube nella stalla dei porci. In questo "cibo" non vi è alcuna presenza di un donatore, che gli dia un qualche "alimento", così come la presenza del padre nella vita-patrimonio (Βίος) di ciò che era auto-originario è cancellata. Deve o morire di fame o cibarsi delle carrube dei porci, per riempirsi la pancia vuota. Non è ancora rinato nell' amoroso poter prendere del dono. La sua fame è così grande, che non può mangiare tranquillamente, prendendo il cibo come fa un uomo. È incapace, attraverso il cibo che ha preso in sé, di crescere in se stesso, di maturare, insomma di far suo ciò che mangia. Mancandogli il centro che gli è proprio, nulla può essere trasformato in qualcosa di suo. Lo spazio in cui giunge il cibo è una cavità addominale vuota. Deve essere riempito e saziato un luogo vuoto, un non-essere. Così, però, non accade alcun appagamento, nessuna sazietà o quel compimento liberante di chi ha mangiato. La sensazione di fame sparisce attraverso la quantità di carrube ingoiate, delle bucce vuote, che sono per l'appunto al loro interno senza frutto. Ci si riempie solamente di una certa quantità di "Es", che non contiene alcun compimento essenziale, non ci si appronta di nulla che sia davvero buono, di alcuna verità luminosa. (20.2.19).

Non pretende questo nutrimento per un vero bisogno, a partire da un vivo voler-crescere del suo essere-se-stesso. Piuttosto vuole semplicemente far entrare qualcosa in sé, riempirsi lo stomaco vuoto (nota 305), saziare la propria pancia - analogicamente al riempirsi gli occhi cechi con immagini, la ragione vuota con concetti, in un vedere e conoscere privo di percezione. Non può davvero assaggiare e gustare (sapere) né appropriarsi di qualcosa con calma interiore. Egli può prendere solo qualcosa (Es) nel suo vuoto, far entrare in sé ciò che rimarrà in lui come un corpo estraneo, qualcosa che non si trasforma in qualcosa di suo proprio, che non diventa lui stesso (come quella parte della ousia che si è preso a casa). Viene riempito solo un contenitore vuoto, la conserva dell'Es. Non aveva dapprima, di fronte al patrimonio che gli aveva dato il padre, cancellato la presenza di colui che gli donava il patrimonio, la libertà dell'origine nel dono, il suo personale genitivo, strappando tutto ciò a sé come riempimento del suo vuoto nella modalità dell'Es? Ora questa situazione nei confronti dell'origine lo colpisce direttamente. In qualsivoglia luogo egli guardi non c'é nessuno (egli) che doni. Il tu rimane estraneo alla quantità che desidera. L'altro (egli) non si esprime nell'Es. 

((Nota 305: Come nella favola dove il lupo avido e affatto mangia i sette capretti ingoiandoli, senza masticare - cosa questa che significa la loro salvezza - e che rimangono nel suo stomaco pieno come pietre)). 

Il figliol prodigo non è ancora capace, nel modo del suo prendere, di far suo il dare del donatore e per questo deve ancora soffrire la fame. Ciò che non vuole, questo è il suo destino, nel quale il giudizio dell'amore dice: "Qui ti viene raccontata, in un altro luogo, la tua storia,. Tu vuoi essere sufficiente a te stesso come tuo padre, e per questo non vi è nessuno che senta il bisogno di darti qualcosa". Ma allo stesso tempo, per grazia, dall'esterno gli viene rivelata, pian piano, la forma del suo rapporto con se stesso, in cui è coinvolto, dapprima come in un labirinto. (28.2.19) (20).

Si era tagliato fuori dall'origine, da cui deriva ogni dono nella sua bontà. Non voleva che gli si donasse qualcosa gratuitamente: "Il possedere il dono dell'altro è un mio diritto. In esso giunge a me solamente ciò che sono sempre stato. Mi appartiene da sempre. Nella mano dell'altro esso è solamente il simbolo della mia autoestraneazione. Che io (la mia vita) appartenga a quest'altro, è la mia colpa. È semplicemente così che non ho il coraggio di essere me stesso; di appropriarmi di ciò che mi è dovuto, di riportare ed integrare il cielo paterno dell'aldilà nel regno della mia libertà che è qui ed ora. E se faccio davvero questo, cioè se mi approprio della mia vita dalla spazio dell'altro, così questa vita non è per nulla in realtà un suo dono, piuttosto è quella parte del mio proprio patrimonio e delle mie capacità, e fa parte di me e mi appartiene; io fino ad ora non ho tirato questo presunto dono fuori da me stesso, come mia proprietà, come un me stesso appunto, come uno che si possiede da sé: in modo assoluto, senza presupposti, come uno che voleva assentire al di là di ogni ricevere e che voleva vivere in carne e sangue. Attraverso l'atto della mia auto-appropriazione viene riconquistato solamente ciò che avevo perso per mia colpa e lasciato all'altro; esso viene riportato nello stato originario dell'appartenenza-a-me-stesso, cioè dell'essere-me-stesso, insomma non solamente portato nel dominio della mia libertà, ma partorito da essa. Ciò che io prendo ha solo l'apparenza di un dono-in-sé e questo solamente perché io dapprima, per una mancanza di responsabilità personale, lo ha affidato ad un altro. In realtà non prendo qualcosa che viene dato, ma soltanto ciò che io da sempre sono stato, seppure nello stato della autoestraneazione e di una rottura in me stesso". (1.3.19)

Adesso gli giunge la parola come giudizio: "Si, nessuno ti da qualcosa". La sua propria incapacità a prendere nella modalità di un creativo amore-povero, di una fiducia nel suo essere dato a sé stesso come-uno-che-è-libero lo colpisce nel giudizio dell'altro che non da: "questa è la tua auto-originalità". In questo modo nella sua miseria è rinviato a ciò che in se stesso è stato - precisamente in due modi.

In primo luogo a riguardo del modo negativo del suo prendere: "poiché sono sempre stato il dono, che nell'altro mi è ancora esteriore, per questo motivo ho un diritto di appropriarmene e fonderlo con me stesso, insomma di far vedere che che io sono stato tutto questo e che posso viverlo da me stesso. Nessuno ha bisogno di darmi qualcosa". Che nessuno gli dona qualcosa rivela, però, il nulla della sua auto-pretesa, l'impotenza di colui che voleva essere "il padre di se stesso".

In secondo luogo viene introdotto lentamente nel sentire la positivamente compiuta Gewesendheit (il suo essere stato in atto), l'aver-ricevuto gratuitamente la sua libertà: "Tutto mi è stato donato umsonst, il dono dell'amore è la fonte del mio essere-me-stesso, la radice della mia libertà. Che nessuno mi dia qualcosa è, in mezzo al dolore, la buona novella della verità, che mi è stato consegnato tutto dal padre; che la sua volontà, egli stesso, è il mio cibo, che mi è stato fatto un regalo da parte del padre, che ho già realmente ricevuto". (5.3.19)

Che nessuno gli da qualcosa può significare anche, in quanto figura di confronto con la sua origine come destino: "Poiché mi è stata data da mio padre la mia parte di ciò che mi aspettava, non ho nulla da aspettarmi da qualcuno d'altro. La mia pretesa di diritto è compiuta. Per me quindi il luogo dell'origine è vuoto". Ma proprio in ciò può essere ascoltato il linguaggio dell'autocomunicazione amorosa del padre: "Tutto ciò che è mio è in verità tuo. Ti ho dato tutto senza riserve. Il dono ti è giunto, in forza del mio amore-povero, senza alcuno presupposto, umsonst. È diventato senza alcuna riserva "tu stesso"così che tu puoi, dal suo fondamento, viverlo da te stesso, dimostrarlo, e "partorirlo" in modo fecondo. Attraverso di me, nel mio amore, sei capace di essere (amandomi) il padre di te stesso, in modo così perfetto come lo sono io" (Nota 306). Sentirà il figliol prodigo, nel mezzo del suo bisogno, visto che nessuno gli da qualcosa, il respiro-vivo del suo Padre misericordioso e del suo Figlio unigenito? Si volterà e ritornerà a casa?

((Nota 306): Perfetto: Τέλειος, pronto, compiuto, maturo, adulto; ma senza anticipare uno scopo (Τέλος) sul cammino, rinchiudendosi troppo velocemente nel Κιρκος (sotto l'influsso di Circe). Cfr. Τέλος dall'indogermanico kuel,-: girare, girarsi, andar d'intorno, essere intorno ad una persona con cura, abitare. Circe anticipa con presunzione nel corto circuito dei suo "cerchi" il compimento-cerchio vivo dell'ultimo Τέλος )).

Deve soffrire Ia miseria della sua "Indipendenza" fino in fondo. Gli viene vietato di mangiare il cibo dei maiali; perché questo significherebbe ancora una volta "dipendenza", "appartenenza" al proprietario dei maiali. Adesso è completamente da solo. Sta accanto tutto: messo da parte, messo in disparte, tolto da parte, gettato nel crogiolo dell'amore, che viene purificato nella profondità abissale del suo essere singolare, imparagonabile e non scambiabile, per essere icona del Padre, dell'Unico ("Ascolta Israel"). Questo è il mistero della sua solitudine, che nasce perché "nessuno gli da qualcosa". In questa solitudine impara il mistero del suo essere persona. (Nota 307)

(Nota 307: "Solitudo pertinet ad personam" (J.D.Scotus) . "Vieni vera luce, vieni vita eterna. Vieni Mistero nascosto. Vieni Fragranza senza nome, vieni Tu che sei impronunciabile"..."vieni tu che la mia anima ha desiderato e desidera; perché sono solo come vedi; vieni tu che mi hai reso solo, che mi hai reso solitario qui sulla terra", Symeon, il teologo (Luce da luce. Inni, nell'edizione tedesca di Kilian Kirchhoff, Monaco di Baviera, 2/1951, 7-8. Cfr. Ramon Lull: "Perché sei solo in me che sono solo, perché io sono solo nei miei pensieri , come tu sei solo nella tua grandezza" (Libro dell'amante e dell'amato, loc. cit. 295. postfazione dell'editore). Per questo: "Con chi è Dio, non è mai meno da solo, che se è solo. Questo, però, significa "vacare Deo" (essere vuoti per Dio)", Guglielmo di St. Thoerry, Epist. ad frate de Monte-Dei, 19 (= PL 184,313). ))

Anche se ha perduto tutto, "ha" ancora se stesso, il suo bisogno, il suo vuoto. Possiede ancora la sua "fame", che non può ricevere "povero" perché non è ancora situato nel desiderio che si trova nel cento dell'essere, di ciò che gli è proprio, del suo essere figlio, ma invece si trova accanto alla pienezza che si trova fuori di lui. Tra il vuoto e la pienezza vi è ancora una crepa aperta, non sono ancora nel "medesimo uso di vuoto e pienezza" come accade nell'amore. Non vive ancora la sua fame come la povertà dell'amore che fluisce (da se stesso), come amore-compimento dell'amore-vuoto, come vero "compimento del nulla". 

Per questo non è ancora capace di prendere qualcosa da "se stesso", né di chiedere ad un altro. Perché ciò presupporrebbe già l'impegno ricolmo di fiducia "in sé stesso", il rischio dell'amore, il sì al suo essere-se-stesso e presupporrebbe l'aver fiducia che l'altro sia capace di essere realmente libero e gratuito nel suo futuro, come donante umsonst. Ma non è ancora capace di far tutto ciò. È strano che non si prenda da sé il cibo dei maiali: si aspetta ancora che un altro gli da qualcosa da sé? Rispetta forse la proprietà del suo signore? Il cibo non appartiene a lui, ma ai maiali che sono più "vicini" al suo padrone di quanto non lo sia lui come custode dei maiali, che il suo padrone ha mandato nei campi allontanandolo da sé. Perché apparentemente gli manca ogni iniziativa per saziare la sua fame? Non avrebbe potuto da solo prendersi un po' di carrube dalla mangiatoia? Perché non ne ha la forza? O questo non-prendere-da-solo è un primo segno della verità, che egli fin dall'inizio si è lasciato coinvolgere nel mistero dell'aver-ricevuto? Insomma un segno della sua fede di aver già ricevuto e così della fiducia che sarà per lui ciò che ha già ricevuto - "Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà" (Mc 11,24)

(9.3.19)

Continua nel seguente link la traduzione del quinto capitolo di "Dono e perdono": 

https://graziotto.blogspot.com/2019/03/5-andare-in-se-stesso-memoria.html.

   



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(1) Nel senso dell'espressione familiare "scimiottare" (nachäffen). RG 

(2) Come spiega Nicola Abbagnano nel "Dizionario di filosofia" la parola "ente" (Seiendes) significa "cioè che è". La radice prima e più profonda di ciò che è, è la misericordia, l'amore gratuito. La misericordia quindi trasforma ciò che non è in ciò che è. Questo pensiero è di una potenza "fuori dal mondo", è una cosa "dell'altro mondo", ma senza di esso il mondo sarebbe solo una follia caotica e senza senso. È il pensiero ultimo che spiega il pontificato di Papa Francesco. RG 

(3) La lingua tedesca differenzia la parola "perché" come domanda (Warum?) o come risposta (weil). RG  

(4) Schema kantiano ripreso in teologia da Karl Rahner SJ. RG

(5) Senza capire questo non si capisce nulla della "Chiesa in uscita" e in genere del pensiero intellettuale di Jorge Mario Bergoglio. Il pensiero polare del Papa non è la dialettica hegeliana. Cfr. Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Milano 2017. RG

(6) Le due parole sono in ebraico. RG

(7) La parola sostentamento in tedesco è "reggerti dal baso". RG

(8) Mi permetto una breve osservazione, in forza di ciò che leggo spesso nei giornali e nei social media. Ci sono tanti "figli" che dicono le cose più terribili contro il papa e la chiesa, ma che non hanno mai fatto esperienza dell'andare via, nel "paese lontano", e che quindi non sanno discernere tra il loro vuoto nichilistico e la povertà feconda del "pro nihilo" dell'amore gratuito. Che fare? RG 

(9) Con il verbo "rimanere" pensa Ulrich con grande probabilità al "manete" giovanneo: "manete in dilectione mea". RG 

(10) Come mi ha fatto notare mia moglie la differenza tra l'argomentazione di Nietzsche e quella di Ulrich consiste nel fatto che il primo dice una parte della verità, ma senza alcuna misericordia, mentre il secondo fa vedere la presenza della misericordia, dicendo la verità, in mezzo alle nostre sconfitte, per esempio quando dipendiamo troppo dagli altri. Dio misericordioso non ci lascia soli neppure in queste "dipendenze". RG

(11) La parola tedesca che ricorre spesso in Ulrich: "logifiziertes Sein" potrebbe essere tradotto con "essere logicizzato", mi sono, però, deciso per l'espressione "l'essere reso logica", nel senso di una riduzione logica dell'essere, in cui l'avvenimento dell'essere diventa una sorta di "logica astratta". RG 

(12) Questo può accadere a noi tutti, anche se siamo un vescovo o un professore universitario: diventare il contenitore vuoto dell'Es (come potere per esempio) e continuando a ripetere solamente il ritornello stonato dell'io = io. Diventando "padri di se stessi" si diventa del tutto infecondi, anche se c'è gente che ci applaude. (RG)

(13) Isaia 65 [4] ..abitavano nei sepolcri, 
passavano la notte in nascondigli, 
mangiavano carne suina 
e cibi immondi nei loro piatti. 


Isaia 66, [3] Uno sacrifica un bue e poi uccide un uomo, 
uno immola una pecora e poi strozza un cane, 
uno presenta un'offerta e poi sangue di porco
uno brucia incenso e poi venera l'iniquità. 
Costoro hanno scelto le loro vie, 
essi si dilettano dei loro abomini. 

Matteo 8, [28] Giunto all'altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli vennero incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada. 

[29] Cominciarono a gridare: "Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?". 

[30] A qualche distanza da loro c'era una numerosa mandria di porci a pascolare; 

[31] e i demòni presero a scongiurarlo dicendo: "Se ci scacci, mandaci in quella mandria". 

[32] Egli disse loro: "Andate!". Ed essi, usciti dai corpi degli uomini, entrarono in quelli dei porci: ed ecco tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti. 

[33] I mandriani allora fuggirono ed entrati in città raccontarono ogni cosa e il fatto degli indemoniati. 

[34] Tutta la città allora uscì incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio. 


(14) Massimo Borghesi nel suo libro su Romano Guardini. Antinomia della vita e conoscenza affettiva (Milano, 2018) ha offerto gli strumenti filosofici per comprendere questo passaggio di Ferdinand Ulrich. Lo ha fatto distinguendo tra "opposizione polare" (Gegensatz) feconda e contraddizione (Widerspruch) infeconda.  Il male non è il necessario opposto del bene (Hegel, Goethe nel Faust): "Sussiste fra le due determinazioni non l'unità in tensione della polarità ma l'aut aut della contraddizione" (ibidem, 74). 

(15) Non capisco la frase tedesca: "Er leidet in einem Elend, das selbst der Fremde noch fremd ist". RG

(16) La storia di Circe si trova nel capitolo decimo dell'Odissea a partire dal verso 135 fino al verso 575. Il paragone che fa Ulrich tra la storia del figliol prodigo, guardiano di maiali e la trasformazione dei compagni di Ulisse in maiali da parte della maga Circe, è acuto ed anche molto coraggioso, anche se non tutte le dimensione della storia vengono commentate dal filosofo tedesco. I compagni di Ulisse sono stolti nel credere al fascino dell'immediatezza di Circe, perché dimenticano così del tutto la terra paterna. Il dio Ermes, permette ad Ulisse, con l'uso di una magia buona, di contrapporti alla magia nera di Circe, ma non gli vieta di salire sul letto della dea, perché non si rifiuta l'amore di una dea. Ulisse è accorto e segue i consigli di Ermes in modo che la dea non possa approfittare della nudità di Ulisse per renderlo impotente. Nella storia di Luca il figlio prodigo passa attraverso la prostituzione di se stesso ed arriva ad essere custode di maiali, nella storia di Omero, una volta rispettate le accortezze suggerite dal Dio Ermes, si può in buona coscienza godere dei cibi e dell'amore erotico offerto dalla dea, che tra l'altro introdurrà l'eroe greco alla discesa agli inferi del capitolo XI. Ulrich non pone la domanda, ma credo sia una questione di onestà intellettuale, da parte mia, il porla: non abbiamo noi cristiani spesso troppe volte rinunciato (a parole) alla forza dell'amore erotico e del cibo per vivere, ma solo teoricamente, di una "sola gratia" che ci ha portato nell'immondizia della pedofilia? Etc. Credo che Cristo basti e che non abbiamo bisogno di queste mediazioni greche (letto della dea, cibo e vino) proposte nei versi di cui stiamo parlando, perché vedo che la verginità cristiana è possibile in uomini come Ulrich stesso, sebbene sposato o in altri vergini che ho conosciuto nella mia vita, ma questa della verginità vissuta è davvero una grazia che viene donata ad alcuni per tutti, una grazia che non po essere anticipata in un oscillazione disperata ed arrogante allo stesso tempo del "la voglio". Ciò significa che dobbiamo essere non meno sinceri di Omero  e per esempio instaurare un noviziato alla verginità che sia realmente un discernimento di ciò che vuole Dio e non ciò che vuole il nostro spirito bigotto. RG 

(17) Ulrich parla qui di quello che Massimo Recalcati chiamerebbe il "sacrificio simbolico", non del sacrifico come "fantasma che proviene da un'interpretazione solo colpevolizzante del cristianesimo" (Contro il sacrificio, ibidem). 

(18) Questo passaggio ci permette di comprendere la situazione politica in cui ci troviamo:  Il "figlio prodigo", cioè noi tutti "rivoltosi insoddisfatti" abbiamo perso la pazienza della fede semplice che in pur tutte le difficoltà (disoccupazione, migrazione...) noi non siamo mai stati "non figli". Avere la sicurezza non significa essere sicuri, tanto più se questo avere è solo illusione, solo un decreto e non la realtà. Aver un posto di lavoro non è ancora essere uno che lavora.. RG

(19) Come nella parola umsonst abbiamo in tedesco il doppio senso di gratis e frustra, così la parola perdono (Vergebung) ha una sua somiglianza con l'agire senza senso dell'inutilità (vergeblich). RG

(20) Ho approfondito questa dimensione di ontologia biblica sul figliol prodigo anche in riferimento agli ultimi episodi della vita del Movimento di Comunione e Liberazione, nei giorni dell'arresto di Roberto Formigoni: https://graziotto.blogspot.com/2019/02/carisma-versus-sistema-riflessioni.html


NB Nella lettera aperta scritta al Professor Costantino Esposito, parlo più in generale della filosofia di Ferdinand Ulrich: https://graziotto.blogspot.com/2018/11/che-cosa-voglio-sapere-breve-lettera.html

Rinvio anche a questo articoletto: Lipsia. Il grande contributo filosofico dei libri di Massimo Borghesi su Jorge Mario Bergoglio (che ho studiato attentamente) e Romano Guardini (che sarà prossimamente oggetto del mio studio) è quello di aver posto l'attenzione sulla differenza tra "opposizione" e "contraddizione". L'opposizione è alcunché di fecondo, la contraddizione no. Per esempio l'opposizione tra universale e particolare è alcunché di fecondo se i due poli si arricchiscono a vicenda, mentre se uno dei due poli risucchia l'altro e lo annienta non lo è. La priorità dell'universale sul particolare non è da intendere nella modalità della "contraddizione", ma in quella della "integrazione"...
https://graziotto.blogspot.com/2018/11/dellopposizione-polare-ontologica-prima.html

Riporto anche un post in dialogo con Monica Scholz-Zappa:
https://graziotto.blogspot.com/2018/12/io-penso-di-non-poter-piu-vivere-se-non.html

Rinvio anche al rapporto tra Guardini e Ulrich nel mio saggio in statu nascendi sul libro di Massimo Borghesi, Romano Guardini, Milano 2018: https://graziotto.blogspot.com/2018/12/per-una-teoria-del-confronto-in-dialoog.html

Link delle traduzioni precedenti di "Dono e perdono" di Ulrich:

1) La traduzione si trova, dopo una mia breve posizione: https://graziotto.blogspot.com/2018/07/lamore-gratuito-non-e-mai-un-amore.html




(10.2.24) Su un articolo del Padre Maffei su "Dono e Perdono" 

Caro Roberto, Ti saluto cordialmente. Da alcune settimane mi trovo a Lyon, dove mi occupo anche della causa di beatificazione di Lubac. A Roma, don Andrea ha preso per il momento il ruolo di responsabile della Casa. Ti scrivo per chiederti un parere sul manoscritto allegato che è una presentazione di un libro di Ulrich (di cui non ho qui una copia). Il p. salesiano che me l'ha mandato chiedendomi un’opinione, è un amico dei nostri autori. Dovrà essere ormai di una certa età. Buon’entrata nella Quaresima, con auguri per tutto il tuo lavoro! - Carissimo padre Servais, grazie per le tue righe; sono contento che a Lyon ti occupi anche della causa di beatificazione di padre de Lubac! Per quanto riguarda il giudizio che mi chiedi a proposito del saggio „Dono e Perdono“ del padre salesiano Giuseppe Maffei, direi quanto segue; in primo luogo sono molto contento che anche un altro salesiano, dopo il vescovo Oster, abbia trovato un accesso al pensiero di Ulrich. Del testo di cui parla ho tradotto alcuni capitoli e li ho commentati (si trovano in parte nel mio blog e in parte negli archivi della Casa Balthasar - qualcuno li aveva messi a posto a livello di layout). - Padre Maffei ha compreso alcune strutture elementari del pensiero di Ulrich davvero in modo profondo. In primo luogo la critica alla logicizzazione ed ipostatizzazione dell’essere che tradiscono il Logos-tokos personale, che è, come proposta, il Logos universale e concreto che è Cristo stesso e come risposta la Theotokos, Maria, che è risposta del tutto umana, che sa porre le domande giuste al momento giusto, ma che infine esprime il suo si incondizionato. A differenza di Hegel Ulrich non compie una comprensione solo speculativa del mistero dell’essere nella sua exinanitio; il Venerdì santo, il gratis e frustra dell’amore, non è un atto logicizzante e dialettico, ma perdono puro, la confessione del peccato del mondo, come si esprime Adrienne. „Solo il perdono di Dio supera il male“ (Maffei, 4). Maffei comprende anche che Ulrich non è un pensatore „tradizionalista“, il quale si arrocca sempre solo sull’essenziale passato, su ciò che Ulrich chiama in „Homo Abyssus“ la „sospensione ontologica“ (ontologische Schwebe); nell’essenzialismo si sospende il „movimento di finitizzazione dell’essere“ nella piccola via del quotidiano e si rimane in un’astrazione solo logica e dialettica. - Per quanto riguarda la questione se Ulrich sia un pensatore tomistico (cf. Maffei 1), io direi di no; certo prende sul serio la definizione dell’essere come atto: „simplex et completum, sed non subsistens“, ma lo fa con un’originalità del tutto „ignaziana“, del „suscipe“ nella forma più radicale possibile. La traduzione che propone Maffei della frase di Tommaso è troppo poetica; bisogna assaporarla in  tutta la sua radicalità filosofica. Quindi non solo: „inverosimilmente completo e ricco, ma radicalmente povero“ (Maffei, 2), ma davvero: l’essere nella sua gratuità (gratis et frustra) è „semplice e completo, ma non sussistente“. Qui Ulrich è ancora più radicale dell’ontologia debole di Gianni Vattimo, che si arena in un nichilismo gaudente, mentre Ulrich arriva alla vera ed unica risposta al nichilismo moderno: c’è un gratis (de nada), c’è un nulla ancora più „nullificato“ di quello del nichilismo, che pone la contraddizione all’inizio del pensiero stesso, ed è quello dell’amore umsonst (gratis et frustra). Allo stesso tempo Maffei vede bene che „quando parla della legge morale da compiere categoricamente per se stessa, la filosofia moderna è una muta rievocazione dell’amore pro nihilo“ (Maffei 5, che rinvia a „Dono e perdono“, 743, nota 381). Però il mistero del „nulla“ („medesimo uso di essere e „nulla““; cf. „Homo Abyssus“) supera sia la questione moderna dell’imperativo categorico morale sia quella postmoderna della verità debole: la gratuità dell’amore non è moralità né gioco gaudente, ma ciò che Papa Francesco chiama il „primerear“: ciò che viene prima e che è donato in modo del tutto gratuito e che noi dobbiamo vivere in primo luogo nella nostra esperienza, non nella teoria. - Molto bello è quello che Maffei scrive sul rapporto tra metodo storico critico e il metodo dell’amore, in cui il „lettore stesso diventa testo vivo, scrittura vivente che narra la parola“ (Maffei, 2). Che il Signore ti benedica. Ci sei domani sera, nella seduta zoom alle 21? Tuo, in Domino et Maria, Roberto  



(12.2.24) 

Giuseppe Maffei, salesiano su Ferdinand Ulrich, Dono e perdono (commento alla parabola del figliol prodigo) (i corsivi sono miei): „● IL PADRE DIVIDE L’EREDITÀ (273sg) Dammi la mia parte!, reclama il figlio minore. Storicamente la richiesta non era contro il diritto; ma era mal vista: come ingordigia di un figlio che non sa aspettare i tempi del padre. Il gesto appartiene all’ambito dei rapporti legali, diversi da quelli dell’amore in famiglia. Nella mente del figlio il padre trattiene quanto gli spetta di diritto e che gli permetterebbe di realizzarsi in futuro. Egli non vede nel padre chi lo ha generato e non vive nella fiducia dell’esser-figlio. Dice ‘dammi’ come se la paternità del padre non fosse già lui che parla e come se egli stesso non fosse già il dono maggiore ricevuto dal padre. E non chiede: pensa che non ha nulla da chiedere, ma solo diritti da rivendicare: vuole quanto ‘gli spetta’. Arraffa a sé la sua parte come per sottrarla ad altri. Del resto, anche il figlio maggiore vede l’amore del padre nei soli beni materiali: Mai mi dài nulla gratis“. - In tutto ciò possiamo trovare anche un’analogia con il rapporto umano tra figlio e padre, ma il contesto ontologico e teologico del commento di Ulrich non va dimenticato. La generazione umana è solo analogia (più distanza, che vicinanza) di quella divina, perché solo il Padre divino dona davvero l’essere nel modo descritto da Ulrich e riassunto dal padre Maffei. Per esempio: solo il Padre celeste può dare tutto! 

„In risposta alla richiesta del figlio, il padre dà non solo una parte, ma tutto: egli divide tra i figli tutti i suoi beni. Questi beni son detti ‘vita’: βίος. Sono ciò di cui la famiglia vive, cresce e prospera: il crescere delle persone dipende dai beni materiali. Dunque, il padre propriamente non dà delle cose; il padre dà se stesso, dà pane di vita per il futuro di tutti. A ogni figlio Egli dice: Tutto ciò che è mio è tuo. Ciò riflette il mistero trinitario. Anche nella Trinità, il Padre, generando l’Unigenito, gli dona l’intera natura divina. Il Padre è ‘condividersi’: nelle processioni trinitarie Egli è l’atto personale della donazione, è relatio subsistens. E dà il suo ’essersi sempre dato’. Egli è un donarsi sempre totale: sempre il Padre ha donato tutto se stesso al Figlio Unigenito. Egli dona senza riserve, perché generare è darsi tutto. E mai un qualcuno, dicendogli ‘dammi’, lo ha mosso a dare: il suo amore è categoricamente senza presupposti. Nessuna istanza esterna lo necessita ad amare, ma Egli fa il passo assolutamente primo nell’assoluto SÌ dell’amore. Nel darsi non trattiene in sé nulla, ma si dà senza riserve: Sic bonus est, ut dare sit ipsi necesse (Eckhart). Dio è, per essenza, Dono personale (Padre) nel personale Accogliersi ringraziando (Figlio) e nel personale Noi dell’amore (Spirito Santo). L’Unità personale, il Noi dell’identità di dare e prendere è la Persona dello Spirito, l’Amore (298). Da parte sua, l’Unigenito accoglie tutto l’Essere-amore del Padre ed è sempre in atto di ritorno verso di lui: anche quando ‘lascia la casa’ per adempiere la sua missione redentrice. Per Lui partenza e ritorno, fuori e dentro si equivalgono. Inoltre, egli accoglie il dono del Padre per trasmetterlo ai suoi molti fratelli. Lo fa tramite la Madre, di cui egli è il Primogenito. E’ in tal modo che il Padre dona a tutti i figli della stessa Madre l’eterna sua Parola: la pronuncia e distribuisce come pane di vita affinché tutti siano unum nel Figlio“ (Maffei). - Giustamente padre Maffei esplicita anche la dimensione trinitaria, cristologica e mariana del mistero di donazione dell’essere che avevo messo a tema nel mio primo commento a livello di teologia e filosofia della creazione. Già a livello trinitario Dio è dono assolutamente gratuito; la missione del Figlio sulla terra è rivelazione di questa gratuità dell’amore trinitario; Maria è la risposta antropologica per eccellenza alla gratuità del dono di Dio. 

„E nel Figlio vediamo: colui che si possiede come dono ricevuto non s’afferra convulsamente a sé, né si chiude in sé; invece, è tranquillamente se stesso: s’afferma come libertà donata che egli ha accolto ed è divenuta lui stesso. In un atto di possesso del genere tenersi e lasciarsi sono la stessa cosa. Inoltre, dire sì al dono ricevuto è obbedire a chi dona. E se dare è l’essenza personale di Dio, chi riceve da Lui deve mettere in opera l’amore accolto. Il che vuol dire: accogliere il dono è accogliere il ‘dare’ che lo offre. Dobbiamo impararlo tutti dall’Unigenito: donare è prendere in forma creativa; dando, io attuo ciò per cui esisto e che io sono: offrendo la mia vita affermo l’Essere-amore donatomi e acquisto quanto do: dare è crescere nella vita che io sono“ (Maffei). - In queste parole teologiche si trova anche la fondazione ultima ed elementare del dono dell’essere come movimento di finitizzazione nella piccola via del quotidiano.

„Invece, siccome il più giovane non ha accolto con amore il dono del padre, è pure incapace di dare. Il fratello maggiore, d’altra parte, è incapace di accogliere perché non considera la casa del padre uno spazio di libertà. Infine, il figlio minore, non comprendendo l’amore del genitore, declassa il padre a una causa che fabbrica prodotti alieni alla vita. E il maggiore, pur in casa, non assapora la vita di famiglia. Non vede la paternità del padre, ma solo la funzionalità della sua azienda: anch’egli riduce l’operato del padre a ‘causare’. Cioè, per tutti e due il padre è una causa che produce effetti; e loro stessi sono fatti ‘oggettivi’ prodotti dal suo operare. E si spersonalizzano: uno nello sperpero di quanto possiede, l’altro in un servizio ligio alle regole del lavoro. Al contrario, la potenza generativa di Dio - l’Essere-amore - è indicibilmente più profonda della causalità materiale. E anche l’essere che dona un genitore (gignere est dare) non è un effetto causato, non si esaurisce nell’oggetto fabbricato o nella situazione prodotta. L’essere è più profondo della causa: esse absolute prae-intelligitur causae (Tommaso). Chi genera è infinitamente più di una ‚causa’. Pertanto, a Dio - Genitore non-originato e superiore a ogni causa - nessuno può domandare ‘perché’ generi o crei? Egli è l’Amore senza perché, è il Mysterium della più assoluta gratuità: quella che si può accogliere e ringraziare solo con immotivato amore nella χάριϛ dell’εủ-χαριστία“ (Maffei). - In quest’ultimo passaggio citato Maffei spiega la differenza tra causare (produrre) e donare (creare, generare) che è uno dei temi più belli del libro. Ulrich non intende solamente la differenza tra avere ed essere, perché l’avere può essere vissuto nella modalità del dono…






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