sabato 9 marzo 2019

5. Ritornare-in-se-stesso. Memoria dell'origine nella lontananza - Ferdinand Ulrich

Proseguo qui, caro don Julián, con un nuovo capitolo, il quinto, la traduzione di Dono e perdono. Un contributo sull'ontologia biblica, Einsiedeln, Freiburg 2006, 556 sg. La traduzione del capitolo quarto si trova in questo link: 

https://graziotto.blogspot.com/2018/11/4-il-ritorno-fatale-della-storia.html

In questo link si trovano anche tutte le tradizione che ho fatto di questa opera di Ferdinand Ulrich .

5. Ritornare-in-se stesso. Memoria dell'origine nella lontananza 

a. Vuoto negativo e amore povero (9.3.19)

A questo punto della sua sofferenza si racconta: εισ εαυτον δε ελθων εφη (Allora ritornò in sé). Ritorna-in-se-stesso ed in questo ritorno nel suo proprio essere (Wesen) si lascia coinvolgere, spezzando il rapporto dialettico di povertà e ricchezza estranea, con il suo vero fondarsi-in-sé, che lo sostiene, con la sua sussistenza personale. È in cammino verso se stesso, non verso la puntualità del suo io, nella quale aveva arraffato tutto (συναγαγων παντα). Ritorna nel nascondimento del suo essere-libero (egli, lei), nell'essere-donato-a-se-stesso da parte del padre misericordioso, nel genitivo della sua origina e si muove in questo modo già sul cammino dell'autocomunicazione di suo padre, sul cammino del dono dell'origine, che gli è stata data per sé e che, affermando proprio lui, lo ha reso-libero! In questo ritorno-in-se-stesso, in questo atto personale del suo sussistere (redire in se ipsum: subsistere) irrompe una parola dal suo cuore, in cui accade la memoria del padre (nota 308). Trovar"si" come diviso dal padre, in forza dell'amore-sì paterno, che gli permette-di-essere, significa già: compiere l'unione con il padre, attraverso il generare (paternità) del quale, il figlio vive. Il cammino del ricordar-si, la memoria dell'origine, non scorre linearmente dal luogo del paese straniero all'indietro nel "vecchio" passato, che verrebbe intesa dal figlio solamente nella forma del simmetrico uguale, ritornante come futuro.  No, il ricordo del padre accade nella presenza (ontologica) del figlio, ritornando nella presente Gewesendheit (Nota 309) della sua libertà, nel praesens de praeteritis. Non supera il suo essere separato dall'origine semplicemente ritornando indietro, ma lo compie in modo qualitativamente diverso: con la fiducia nel suo essere-amato e reso-libero in se stesso. (13.3.19)

((Nota 308: dire (Φηυί) viene espresso in modo più solenne con (ειπεν). ))

((Nota 309: cfr. Note 194, 270, 281 )).

Egli vive la differenza dialogica come mistero dell'amore-unità con il padre. Si ricorda in modo grato dell'amore del padre, nell'accettazione di se stesso come figlio. La misericordia lo accoglie là, lo trova là, dove egli si trova nella sua miseria. (1)

(( Nota, 310: "Accipite misericordiam: sic ad nos clamat Deus"... "Nolo ergo mihi dicas: unde accipio? Quo eo? Recordare quo cantasti: misericordia Domini plena est terra" (anche questo è da intendere nel mezzo della terra straniera, tormentata dalla carestia e nella quale il figlio ha perso se stesso e il padre). "Ubi iam non Evangelium praedicatur? Ubi sermo Domini tacet" (se il Verbo unico non solo racconta la parabola, ma è la sua verità incarnata ed il suo compimento. Se Egli parla come Colui che è separato dal Padre per amore in colui che è separato dal padre senza amore, in un presente impenitente)? "Ubi salus cessat? Opus est ut velis accipere: pieni sunt horrea. Haec ipse plenitudo et abundantia non te venientem exspataverunt, sed ad dormientem ipsa venerunt." Il compimento dell'amore viene da sé, povero in se stesso, avendolo estraniato fino alla morte (per un amore perduto) e distrugge, in forza della sua morte per amore, la morte del peccato del figliol prodigo. Colui che è morto per il suo peccato non può risorgere da se stesso, per mettersi in cammino verso la ricchezza della vita, da cui strabocca l'amore. "Non dictum est: spurgant gentes, et eant ad unum locum" (non uscite, di qua e di la, per trovare la miseri cordia di Dio in un luogo fisso, nella sua dimensione temporale e spaziale, per averla la e da nessuna altra parte) "sed annuntiata sunt ista gentibus ubi erant", nel mezzo della loro miseria, "ut adimpleretur exinde prophetia dicens: 'Adorabit eum quisque de loco suo", Agostino, En. in Ps 32 ( = PL 36, 287). Ognuno lo adorerà nel suo luogo, a partire dal suo luogo.(2) Questo può essere anche il luogo della nostra sepoltura: "Proprio vivendo come morto sotto la polvera della terra e coperto dal sepolcro, ho trovato la vita, Dio stesso; a Lui che ha donato la vita, sia onore e gloria per tutta l'eternità" (Symeon, il teologo, ibidem, 49 (undicesimo inno), "...conservami, rimanendo a vivere in me, così che io possa vivere come morto (3) contemplandoti , e possedendoti, io che sono povero sia ricco per sempre." (Symeon, il teologo, ibidem, 9 (primo inno). ))

Proprio li in mezzo, nel suo nulla, si apre il mistero della misericordia. Si rivolge per una seconda volta, nel racconto, al padre. La prima volta, quando era ancora a casa disse:  "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta"; ora esprimerà una invocazione in modo solenne, in mezzo alla sua miseria:  "Mi leverò e andrò da mio padre" ( ἀναστὰς πορεύσομαι πρὸς τὸν πατέρα μου). Quindi va come suo figlio. " Mio padre"! Prima il ritorno nell'io-fondamento che vuole-avere lo avevo allontanato da casa: separazione contro l'unione con il padre: "Padre, dammi...". Ora il ritorno in se stesso apre la presenza dell'amore dell'origine e l'orizzonte del ritorno-a-casa di colui che cede all'amore: "andrò da mio padre". "Dimittendo Deum , et amando te, existi et a te; et alia iam, quae sunt forinsecus, pluris aestimas quam te."   Nell'amore disordinato di te stesso hai perso Dio e te stesso; ti sei estraniato a te stesso ed hai apprezzato le cose esteriori più di te stesso. Hai scambiato la libertà con delle cose da possedere. Quindi: "Redi ad te: sed iterum sursum versus cum redieris ad te, noli rimanere in te". Si, ritorna a te stesso e proprio in questo supera te stesso, rivolgiti verso l'alto, verso l'origine, attraverso cui tu sei, chi tu sei - e non rimanere indietro in te stesso. O detto altrimenti: vivi la verità: "L'homme passe infiniment l'homme" (Blaise Pascal, Frammento 433/4 Br). "Prius ab his quae foris sunt redi ad te, et deinde redde te ei qui fecit te" (ridonati a colui che ti ha creato: ritorna a casa dal padre), "et perditum quaesivit te , et fugitivum invenit te" (dai maiali, nella terra della fame), "et aversum convertit te ad se" (ti ha permesso di convertirti a lui e in questo modo puoi convertirti a lui). "Redi ergo ad te, et vade ad illum qui fecit te. Imitare filium illum juniorem; quia forte tu es." (Agostino, Sermone 330; PL 38, 1457-1458). Così agiscono i testimoni dell'amore del padre: "Venerunt et ad se et attenderunt se; invenerunt se in se; displicuerunt sibi: ad eum cucurrerunt, a quo formarentur, in quo reviviscerent, in quo rimanerent, in quo periret quod ipsi per semetipsos esse cooperant" (in questo perisce, muore ciò che hanno cominciato ad essere a partire da sé: peccatori non liberi, senza amore, figli perduti), "et hoc maneret quod in eis ipse condiderat " (e in questo rimane ciò che egli stesso, il padre, ha fondato e creato in loro: il libero essere-figlio). (Agostino, ibidem). Nella forza del donato essere-figlio può colui che era perduto, nel ritornare-in-se-stesso, partire al di la di se stesso, cioè in forza dell'amore per il padre, amando se stesso, affermarsi come figlio del padre, e così negandosi come colui che era perso e separato dal padre, a causa del peccato (hoc est negare seipsum, Agostino, ibidem). 3.4.19

Sullo sfondo di tutto ciò poniamo una domanda: come può ritornare-in-se-stesso il figlio, se prima si è impossessato di questo "se-stesso" nella modalità dell'Es, come alcunché di avuto, e dopo che avendo perso tutto gli era solamente rimasta una cavità addominale vuota da riempire? In questo vuoto non c'è niente da cercare e da prendere. Oppure questo suo vuoto, attraverso la misericordia, che lo ha "ritrovato" è diventato trasparente di una più profonda, di una vera povertà dell'amore? Da dove gli viene la forza, per lasciar cadere radicalmente tutti i tentativi di ricolmare il vuoto esteriore, per mezzo dell'appropriazione di una ricchezza estranea e di rinunciare alla sua perversa auto-originalità? Di soffrire fino in fondo questo vuoto, di perire, e proprio così, in forza dell'abisso dell'amore senza-motivo del padre in lui, di risvegliarsi alla vera vita? Dove prendere il coraggio di sconquassare la prigionia nella simmetria di mancanza e compimento bramato dal di fuori? (4.3.19)

Ritornando-in-se-stesso e compiendo il fondare-in-sé, che il padre gli ha donato nella generazione (gignere est dare), ha fiducia nella pienezza dell'essere come dono in mezzo al suo vuoto, che in questo modo si trasforma. Non è più il solo-vuoto che gli appartiene di fronte ad una ricchezza che gli è estranea, lontana, al di fuori di lui e di cui ci si  dovrebbe dapprima appropriare, ma si rivela come vuoto espressione della povertà dell'essere donato come amore, come amore-vuoto di una pienezza a lui consegnata, come povertà-obbedienza dell'essere amato dal padre. È l'amore-povertà del Figlio, nella quale egli riceve, nella generazione, sé dal Padre, ma non come un solo-vuoto al cospetto di Chi-dona-l'essere, ma nella povertà di Colui che non è mai stato non-Figlio, cioè nella libertà-ricchezza del Figlio dal Padre. Sente nel mezzo del suo essere perso, del suo essere morto: il mistero della vita che gli è stata perennemente affidatagli dal padre misericordioso, il suo essere come dono personale del padre, la pienezza vitale del quale dono si rivela per mezzo dell'amore-povertà che si esprime nel suo essere stato donato senza riserve, fino alla libera morte-vuoto dell'unico Figlio: la potenze dell'amore crocifisso ed impotente, dell'amore-povertà del cuore grondante di perdono, nel suo donarsi e nel suo essere donato come amore misericordioso fatto carne. Questo amore è Colui che racconta questa storia, che ascoltiamo nella fede, del Figlio eterno unico, povero perché amante; Figlio dell'eterno Padre nella carne del peccato-povertà del figliol prodigo. (5.3.19)  

In questo modo viene distrutta la dialettica morta, e in questo senso oggettiva, di povertà e ricchezza. La fame della brama non si rivolge più verso l'esterno, ma muore. Sorge il desiderio della speranza a partire dall'essere amato, il desiderio dell'amore-fame del Figlio che vive gratuitamente e così è, come amore libero, il patrimonio donato dal Padre . 

Il puro vuoto della "cavità addominale" è superato dall'interno. In essa  giacciono le viscere, le "interiora", ciò che vi è di più intimo. Chi vuole riempire il vuoto della cavità dello stomaco con delle vuote bucce si comporta così come se non avesse questa ricchezza interiore, come se non avesse "interiora", come se non ci fosse alcunché che lui consideri intimo, come se non gli fosse stato donato e consegnato nulla, come se non avesse nulla di proprio, nessun "intimum" ("esse est intimum cuilibet"), come se egli fosse solo una passiva, affamata "possibilità" intenta a voler-possedere e che vuole ottenere il compimento dall'esterno, oggettivamente e che deve rielaborare all'interno. (10.4.19)

Attraverso il percorso dell' "in-se-stesso" il figlio afferma in modo amoroso la sua intimità come il "se-stesso" che gli ha donato gratuitamente il Padre, che è nato dal Padre. In questo centro, nello spazio della sua intimità riceve la misericordia (σπλαγχνίξομαι: aver pietà di, da σπλάγχνα: viscere). Nel ritorno-in-se-stesso si muove nel mezzo della carne e del sangue della sua miseria, nel luogo dell'amore del padre, nel sì del padre, attraverso il quale egli è sempre stato a se-stesso presente. Qui muore la brama del voler-avere nella pienezza dell'amore-povertà, nell'essersi-dato; nella povertà, che è povera non attraverso se stesso, non per mezzo di un egoistico diventare-vuoto, ma in forza della pienezza dell'aver ricevuto, per il suo essere-amato. Il Figlio è povero per la ricchezza di un obbediente aver-ricevuto, povero nella pienezza della misericordia a lui donata. La cattiva fame muore nel deserto (il luogo del "primo amore") della presenza di sé della libertà, che ha lasciato dietro di sé il morto io=io. Il figlio è partito per la vera autooriginalità dell'essere libero donato. L'unico Figlio è nato in lui, che a tutti coloro che lo accolgono ha donato il potere, di essere figli di Dio, a tutti coloro che non sono nati per mezzo della carne della brama, né dal sangue, che scorre attraverso le generazioni storiche, e che non sono nati dal mero io-voglio dell'uomo ("che ha due figli"), ma da chi è stato generato da Dio" (Giovanni 1 

[12] A quanti però l'hanno accolto, 
ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 

[13] i quali non da sangue, 
né da volere di carne, 
né da volere di uomo, 
ma da Dio sono stati generati. ) (12.4.19)

Ora non pensa più nella prospettiva del suo diritto: "Dammi il mio patrimonio; tu significhi qualcosa per me solamente se ricevo qualcosa da te". Non pensa neppure nella prospettiva dell'aumento del suo io-potere: "se entro in me stesso, scoprirò forse ambiti ancora più profondi del patrimonio presente, che potrò poi usare per me in nuove forme di autorealizzazioni". Nel ritorno in se stesso, invece, afferma se stesso senza intenzioni, per nulla, umsonst (gratis). Si afferma nel movimento dello stesso amore, attraverso il quale e nel quale è amato dal Padre: questo è il mistero della misericordia nei confronti di se stesso. "Ha misericordia della sua anima". Questo è il sacrificio attraverso il quale accade il suo cambiamento, la riconciliazione con il padre, la communio con il fratello e con tutti gli uomini. Gli unici veri sacrifici sono le opere della misericordia (Nota 311), del perdono, nel quale ritorniamo al Padre, nel quale viviamo e ci muoviamo e siamo, uniti a lui, attraverso l'unico Figlio, che ci racconta la parabola, in modo sempre più profondo, nell'amore dello Spirito Santo.

((Nota 311: "Cum igitur vera sacrificia opera sint misericordiae, sive in nos ipsos (!) sive in proximos, quae referuntur ad Deum; opera verum misericordiae non ob aliud fiunt, nisi ut a miseria liberemur ac per hoc ut beati simus, quod non fit, nisi bono illo de quo dictum est: "Mihi autem adhaerere Deo bonum est" (Ps 72,28): profecto efficitur, ut tota ista redempta civitas, hoc est congregatio societasque sanctorum, universale sacrificium offeratur, Deo per sacerdotem magnum, qui etiam seipsum obutulit in passione pro nobis, ut tanti capitis corpus essemus, secundum formam servi." Il figlio prodigo appartiene, attraverso la misericordia di Dio, alla figura di servo del corpo di suo figlio. È suo figlio nella figura di servo del peccato (peccatum factum pro nobis), ma viene redento attraverso il sacrificio d'amore, l'amore umsonst fino alla morte dell'unico Figlio, nella "redempta civitas", nell'io-tu-noi dell'amore creato, nella virgo-mater, nella quale il Figlio assume, per amore, questa figura di servo del peccatore, senza peccato. Questo è il sacrificio della misericordia che offre al Padre: il mondo redento dalla sua morte e  risurrezione, per il quale l'adaerere Deo è felicità. (17.4.19) "Hanc (questa civitas redempta come suo corpo), enim obtulit, in hac oblatus est" (è sacrificato in lei, è il suo sacrificio, si dona a lei come sacrificio e la sacrifica.  Colui che la sacrifica è il medesimo che lei sacrifica. Si è donato a lei come amore e lei è capace di fare ciò che egli fa per lei) (4) "quia secundum hanc mediator est" (nella sua modalità, attraverso la sua mediazione, per mezzo di lei come mediatrix, è il mediatore unico) "in hac sacerdos, in hac sacrificium est" (in lei Egli è sacerdote e sacrificio e questo "sacrificio universale" nella sua interezza siamo noi stessi, i redenti, il corpo di Cristo, si, Cristo stesso, giacché "l'intero Cristo" è "caput et membra"). "Totum sacrificium ipsi nos sumus"..."Sicut einim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem membra non eosdem actus habent: ita multi unum corpus in Christo; singuli autem, alter alterius membra" (i singoli sono come altri al cospetto di altri insieme (5) membra) "habente dona diversa secundum gratiam, quae data est nobis" (Rom 2,3-6). "Hoc est sacrificium Christianorum: multi unum corpus in Christo" (questo è il sacrificio dei cristiani: i molti, un corpo in Cristo.  Nel io-tu-noi dell'amore creato un corpo nel creatore dell'amore creato, che è il Suo corpo), Agostino, De civitate Dei, 10,6 (= PL 41,284). Ogni opera con la quale accade che noi dipendiamo da Dio, il nostro bene massimo (solo con esso diventiamo completamente felici) nella comunità santa del Suo corpo, è un vero sacrificio, è un opera della misericordia. )) (30.4.19). 

La grazia (nella forza della misericordia del Padre, che è il narratore di questa parabola, in carne e sangue) del vuoto, che il figliol prodigo ha sofferto completamente gli ha profondamente tolto ogni illusione: lì non c'è nessun "perché" oggettivo, nessun motivo che potrebbe giustificare una svolta riguardate il proprio io verso se stesso.  Non c'è nessun motivo per ritornare-in-se-stesso, nel vuoto del deserto: a parte il sì senza fondamento ("per nulla") dell'amore per l'essere amato, che accade a sua volta senza fondamento ("per nulla"), a parte l'amore per l'amore: sono figlio del padre, sono umsonst, sono amato per me stesso. Il figlio riconosce se stesso a partire dalla memoria (6) presente della sua origine, è diventa se stesso a partire dal padre, nel genitivo della figliolanza, presente come figlio del padre. Per questo motivo possiamo affermare: il "nessuno gli dava nulla" è la traccia leggera del suo essere guidato da padre, che in questo modo fa vedere al figlio, per quale dono, per quale generazione, per quale origine egli è figlio. Nel mezzo della morte-separazione dell'abbandono sorge il creativo essere-separato per amore, per mezzo della potenza del padre che rende libero il figlio. In forza dell'essere-separato per amore il figlio è consegnato a "se" stesso; è libero, di sua propria volontà, con amore nella modalità del poter chiedere perdono, cioè nell'impegno di se stesso come preghiera e senza perché, in una fiducia senza fondamento, di ricevere l'umsonst donato dell'amore del padre, e di renderlo fecondo a partire da se stesso: nel mezzo della sua confessione del peccato. Il suo peccato non è "solo il suo", cioè un peccato confessato fissandosi su se stesso; non ha più questo peccato " per sé da solo", piuttosto l'amore misericordioso lo porta in lui donandogli così la vita. Incomincia a percepire il suo peccato nell'amore del Crocifisso, che lo confessa al Padre, in lui e per lui, donandogli così la grazia della confessione del peccato: nella forza del perdono ricevuto (7). (1.5.19)

Il figliol prodigo, che si è perso, comincia a comprendere che non ha bisogno di trasformarsi in un Es per possedere il patrimonio di vita del padre. Può abbandonarsi a se stesso, come colui che è stato donato a se stesso, cedere, aver fiducia nell'essere-portato dal padre misericordioso e per questo essere in pace con se stesso. (8) In questo abbandonarsi (Sichverlassen), in cui muore il mero aver-si, testimonia la sua fiducia nella irreversibilità dell'essere amato, attraverso il quale egli è in unità con se stesso, è se stesso, è "proprio con se steso il medesimo". (2.5.19)

Per questo motivo egli si comporta, nel suo "ritornare-in-se-stesso", nei confronti di se stesso e del suo patrimonio, non più nella modalità del voler-avere. In questo nuovo percorso non vuole aggressivamente impossessarsi di qualcosa o aver qualcosa che non ha ancora avuto. Non vi è nessuna traccia di un tale comportamento! Perché il senso ultimo del "ritornare-in-se-stesso" non è la sostanza morta di un patrimonio arraffato, andato perduto, ma la sussistenza personale e compiuta, la Gewesendheit (9), l'essenziale "ritornare-in-se-stesso" della sua libertà come figlio, la fedeltà-che-rimane dell'essere amato dal padre, la profondità dell'aver ricevuto umsonst. Già il primo passo del "ritornare-in-se-stesso" accade nella fiducia del sì dell'autocomunicazione del padre, che come dono donato è stato il figlio stesso. Solo nel lasciarsi-andare nell'essere-donato-a-sé, che lo sorregge, può fare i primi passi nella sua libertà verso la libertà (nella differenza dialogica di io:tu in se stesso), può osare il suo riuscire come figlio. E solamente l'avvicinarsi del perdono, che nella lontananza non sta a sua disposizione, solo la presenza dell'amore del padre può  aprirgli lo spazio dell'essere-presente-a-se-stesso, nel suo ritorno-in-se-stesso. Il figlio si era perduto ed era morto. (5.5.19)

Ci si potrebbe domandare: non dovrebbe essere presente nell'essersi-perso più estremo almeno un resto del patrimonio paterno, che il Figlio aveva portato con sé, a causa (Grund) del quale egli ha potuto ricordarsi della sua origine e tornare a casa? Non rimane, anche se nascosto, perlomeno un filo conduttore che lo collega con la sua origine e gli permette di ritornare? Il figlio insomma non può aver completamente perso la sua sussistenza (come figlio di suo padre), non può essere che sia stato davvero morto. Ma in questo stato del vuoto-solo sarebbe stato spinto a tornare a casa solo a causa della fame. In questo caso avrebbe desiderato tornare solo secondo la modalità di una ricchezza che-tiene-ferma-a-se-stessa. Non si troverebbe nella grande tentazione, meglio ancora nel grande obbligo, di impadronirsi del dono di un possibile perdono, non privo di intenzioni, per ricostruire per sé il suo stato passato (l'aversi)? 

Nel tentativo di rispondere a queste domande dobbiamo discernere la posta in gioco. Da un lato c'é la parte del patrimonio, attraverso il cui "possedimento" egli aveva desiderato compiere il suo poi fallito auto-appropriarsi. Questo patrimonio, la vita che gli è stata donata dell'origine e che egli ha reso estranea nella modalità di un Es e che ha trasformato come un mezzo dello spreco, è del tutto perso.  Ha perso questa "parte del patrimonio che gli spetta(va)". Se si tiene conto della storia e delle sue conseguenze il figlio non ha il minino fondamento (Grund) e terreno su cui stare con il suo sé: tornare indietro ed ansare a casa. Il ritorno non può essere dedotto neppure dalla struttura del suo primo rapporto con il padre. In questo caso il risultato del ritorno sarebbe solamente "separazione", la stessa che ha regnato all'inizio del racconto. Il figlio ritornerebbe a casa sempre e solo nel medesimo inizio, privo di ogni cambiamento, della sua partenza da casa passata, ritornerebbe al punto passato del suo no all'origine. Il ritorno del figlio accadrebbe a causa di un filo conduttore nascosto, di un ricordarsi unidimensionale e storico dell'origine, insomma si muoverebbe sulla stessa linea della sua partenza passata. Ritornerebbe solamente nella dimensione del suo passato privo di ogni amore.  (8.5.19) Perché con questo presupposto il suo punto di partenza per raggiungere un "paese lontano", con cui facendo i primi passi sulla via del ritorno, sarebbe anche solo un momento del suo rapporto spezzato con l'origine, una diramazione appunto di quel rapporto con il padre che lo ha portato alla separazione nel no! Un ritorno a partire da questo punto di vista ripeterebbe perciò lo stesso essersene andato da casa di allora, solo nella direzione opposta, come la si vede in uno specchio - in un atteggiamento di menefreghismo (10), simmetrico al primo. Il figliol prodigo dovrebbe una volta arrivato a questa figura della sua origine, andarsene di nuovo, ripetendo la sua caduta, insomma calpestando solamente la terra in cui si trova e muovendosi in cerchio. Sulla base di un resto, in qualche modo posseduto, del patrimonio passato il ritorno al padre è impossibile. 

Il "patrimonio" donato dell'essere come amore, però, non viene partecipato in parti. In ogni parte è presente l'interezza dell'amore-sì paterno: dato via in parti, ma non oggettivamente identico con Lui. In mezzo alla morte dello spreco, attraverso la quale il figlio perde, morendo, la completezza di vita a lui donata, è presente l'interezza più grande, che il padre ha comunicato, della potenza paterna; non nel senso di un resto quantitativo, non ancora usato e che non è soggetto alla morte, ma come mistero dell'inesauribile, assoluto e gratuito amore del padre: la sua misericordia "pro nihilo". Nel mezzo della morte dell'inutilità, nel per-niente ed umsonst (frustra) dell'amore che fallisce, che il figlio ha sperperato, gettato via, dell'amore andato perduto, che egli ha perso senza averne alcun senso nel peccato, si trova "qui" la gloria della sua pienezza che supera ogni argine, sempre più grande e senza alcun perché: la libera volontà, pura ed assoluta, dell'amore-sì paterno, capace di perdono. Infinitamente più profondo dell'amore perduto, del peccato, della morte si muove l'esternazione dell'amore che si dona assolutamente umsonst (gratis). L'amore nella sua modalità di dono  - non accanto alla morte, ma nella morte. "Forte come la morte è l'amore". Quest'ultimo riduce la morte a linguaggio della rivelazione della sua potenza e gloria. (10.5.19)

Ovviamente la perdita dell'amore non è una condizione cogente per la rivelazione di questo mistero, come non è per nulla vero che l'amore si "conserva" indifferentemente nel fallimento, per poi infine, "dopo", quando è evidente che ciò che è andato perso non può essere più riconquistato, riapparire dal suo nascondiglio senza esserne stata toccata e senza alcuna sofferenza. Laddove l'amore soffre la perdita e la morte come linguaggio della sua vita ((Nota 312)), della sua ricchezza e del suo impegno nel perdono e nella rinascita di ciò che è andato perduto, non regge alcuna dialettica. 

((Nota 312: La "perdita" attraverso l'espressione libera del suo perdersi; la morte e l'essere-sepolto attraverso il suo essere-morto in forza dell'amore misericordioso nei confronti dei morti per il peccato e in questa morte sepolti. "Ego etiam sepultum Christum esse non negas:  et tamen sola caro sepulta est. Si anime erat ibi anima, non erat mortuus: si autem vera mors erat, ut eius sit vera resurrectio, sine anima fuerat in sepulcro, et tamen sepultus est Christus" (era nel sepolcro senza anima, solo la carne era sepolta e tuttavia Cristo, il Dio-uomo, è sepolto). "Ergo Christus erat etiam sine anima caro, quia non est sepulta nisi caro" (il cadavere nel sepolcro è la carne del Dio incarnatosi). "Humiliavit semet-ipsum, factus oboediens sine ad mortem" (Phil 2, 6-8). "Iam in morte sola caro est a Judaeis occisa"..."et tamen carne occisa Christus occisus est",Agostino, in Joan. Evang. 47, 10; PL, 35, 1740 (13).  "Il Figlio unigenito di Dio (la seconda persona divina, con-substantialis al Padre e allo Spirito Santo, con la stessa natura), il nostro Signore è stato sepolto", Agostino, Sermo 213, 3; PL38, 1061. Nella resurrezione dai morti (e nel ritorno nella casa del Padre), va, l'unigenitus Patris sepultus (caro sepulta), "attraverso se stesso a se stesso". Su questo punto, cfr. Agostino, PL 35, 1815-1818. Tradotto da Hans Urs von Balthasar, Augustinus, Der Antlitz der Kirche (Il volto della Chiesa) , Freiburg, 1991, 122-124. )) (13.5.19)

Solo per questo possiamo affermare che il peccato del aver-perso, della perdita completa del patrimonio consegnatogli dal Padre sono nascosti nel mistero del vuotarsi libero dell'amore e che proprio nella morte del figlio sorge la potenza della misericordia dell'origine, che lo genera, sorge il vero βιος dell'ousia che gli ha consegnato il padre. Nel luogo della croce il padre dice: "Ego hodie genui te" (11). 

A partire da questa profondità il figliol prodigo riconosce nel paese lontano che egli non è ciò che ha. La sua vita non è quella parte, ridotta ad un Es a sua disposizione, dell'ousia del padre. Egli è, a partire dall'origine, in libertà, se stesso. Vive come figlio del padre, a partire dal genitivo personale della nascita dal padre. È figlio in forza dell'essere-amato dal padre, nel quale si fonda la sua libertà. Solamente dall'amore-povertà di questa obbedienza nel genitivo del suo essere-figlio può ritornare. Sebbene egli sia stesso attraverso questo genitivo, non può reclamare alcun "diritto", in forza del quale presentarsi al cospetto del padre come un debitore. Egli è se stesso come figlio senza un motivo e senza un perché, a partire dall'essere-donato dell'amore, che è la sua origine. (15.5.19)

A partire da questa sussistenza della sua libertà, che è la sua obbedienza  nei confronti del padre, il figliol prodigo ritorna: anche senza alcun motivo, senza appoggiarsi ad alcuna condizione, senza avere la sicurezza neppure della minima possibile auto-giustificazione. Né un resto del patrimonio avuto né la miseria del non-aver lo spingono a ritornare a casa, ma l'amore, che si erige dalla povertà donata dell'obbedienza, che lo fa muovere: "Mi alzerò, andrò da mio padre". Questo alzarsi è possibile solamente nella fiducia dell'essere-portato. Il figlio deve fidarsi, nella modalità dell'abbassarsi, della misericordia che lo regge, per l'appunto dal basso, sostenendo i suoi piedi, deve andare verso il "basso" ed in un certo senso essere-sotto (nella hypo-monê), per poter alzarsi, ergersi, sollevarsi. Esprimiamoci meglio: non "per"(potere), quasi come se  il movimento dell'alzarsi "segua"al movimento verso il basso, quasi come fosse quest'ultimo un mezzo per arrivare sopra. No, nell'unico e medesimo atto accade il movimento verso il basso e verso l'alto, accade l'affidarsi fiducioso: partenza nello stato del proprio essere-se-stesso ed impegno dell'amore. (Nota 313)

((Nota 313: "L'humilitas (umiltà) è magnanimitas e liberalitas, generosità e 'libertà del cuore'. "L''arrivare all'amore di Dio' consiste nell' 'aver raggiunto la vetta della massima umiltà': poiché nell'umiltà la scala di Giacobbe tra cielo e terra è realtà: in quanto 'discesa e salita', che è 'nell'elevazione discesa e nell'umiltà salita' (exaltatione descendere et humilitate ascendere): come per l'appunto Dio è nella sua altezza discesa e nella sua profondità salita." Erich Przywara, Demut, Geduld, Liebe (Umiltà, pazienza ed amore), Düsseldorf, 1960, 20). "Così l'ultima parola sull'umiltà è quella di Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo. L'amore di Dio è il sempre-più-grande nell' abbassarsi (s'abaisser) e tanto più infinito appare l'infinità di questo amore, quanto più giace nel basso, a cui tende; così lei sceglie il sempre-più-piccolo, in modo che quest'ultimo sia il dono particolare, che le offriamo: non per una divinizzazione del piccolo e del basso, piuttosto perché proprio così l'amore di Dio appare nella sovranità completa del suo auto-sprecarsi (cioè nell'umsonst assoluto  dell' abundantia caritatis)" (Erich Przywara, ibidem 26). 

La pienezza dell'amore-povertà, nella sua volontà libera e gratuita, è il luogo ontologico della memoria-che-ritorna-a-casa della sua origine, il fulcro della sua conversione. È la forza viva ed ispiratrice della fiducia, che vive a partire dal padre: "che mi ama, che mi vuole bene in modo effettivo, da cui giungo a me stesso in modo vivo, ed attraverso il cui perdono ed amore che gratuitamente mi lascia-essere, che mi risveglia dalla morte alla vita "senza motivo", che per l'appunto mi perdona, posso assolutamente, senza condizioni, ritornare a casa." (18.5.19)

Il figlio prodigo era veramente morto (νεκρός ), perché "se voi non avete fiducia (fede), non siete nulla"; ritornando-in-se-stesso, accentandosi come dono senza motivo dell'amore umsonst, osando questo passo e in questo modo trovando se stesso, il padre lo ha già trovato, per la sua autocomunicazione, nel paese lontano ed abbracciato nella sua misericordia. Né il suo solo-vuoto né un resto di patrimonio posseduto non ancora andato del tutto perso  (cioè la ricchezza) , possono essere il morivo del suo ritorno. Poiché il solo-vuoto, il non-avere, pur avendo perduto tutto, possiede ancora se stesso, considera se stesso ancora come un tesoro, vuole riempirsi. Il solo-vuoto (della brama) giudica il futuro del dono dell'altro solo nella prospettiva di se stesso, solo secondo il criterio del suo avere. Questo solo-vuoto, che è separato dal compimento dell'essere-amato, a partire dal quale sorge la libertà,  si esclude da sé dal vero compimento, in quanto è una passiva e sterile consistenza (lo stomaco vuoto) che rimane sempre accanto (fuori) all'essere-amato. Non ha la forza di lasciarsi andare (cedere), di arrendersi, di rinunciare a se stesso e di affidarsi, con disponibilità, a chi dona senza condizioni. Non ha la forza di ascoltare nella modalità dell'apprendere, dell'obbedire (12), ma si fissa nei confronti del donatore ancora come condizione: "sono vuoto perché tu mi riempia. Per 'mezzo' del mio vuoto posso accoglierti. Adempio alla condizione dell'essere vuoto, in modo che tu possa operare in me completamente, etc." In questo modo, però, vieta da se stesso il ricevere e la nascita del si assoluto in lui. Un vuoto che non si dimentica di sé, che piuttosto, in segreto, crede di aver ragione, si pianifica come condizione del suo venir saziato e si condanna così a non poter ricevere. Non vuole affidarsi al padre misericordioso. (20.5.19) 

Ritornando-in-se-stesso, sfondando la dialettica di ricchezza e povertà e assentendo così a se stesso, il figliol prodigo si muove in un sincero amore-povertà, nei confronti del quale il dono non è esteriore, ma interiore. Questo amore-povertà è povero attraverso l'essere compiuto. Ha, in forza dell'essere donato umsonst, da sempre rinunciato a se stesso e vive, per la presenza dell'origine in esso, nella gioia grata dell'essere amato. Questa povertà è il vero vuoto, un essere-separato dimentico di sé, un "essere-morto", un "essere-sepolto" come fonte della vita , notte santa della risurrezione dei morti. (Nota 314)

((Nota 314. "Concede nos, omnipotens Deus, ita sepulto Unigenito tuo" (al Dio sepolto) "fideliter inhaerere, ut cum ipso (con Colui che è risorto dai morti) "in novitate vitae resurgere mereamur" (Liturg. hor. ad Complet. Feria sexta, orario). Questo è il mistero del vuoto, che nella forza di Colui che è morto per amore ha "ceduto", non si fissa su se stesso, non considera se stesso un tesoro da conservare gelosamente, ma si offre all'amore, a cui da sempre appartiene, per la sua misericordia (che crea vita dal nulla, anche dal peccato-nulla). "No he podio ofrecer a Jesùs... más que mi nada, pero como esta nada es ya, por su misericordia infinita, toda sua" (non sono quindi il "mio nulla", il "mio vuoto" , piuttosto il Suo nulla, il Suo vuoto; io appartengo al Suo amore-povertà), "Él, no lo dudo, ha da trasformarla en algo" (Egli la trasformerà in qualcosa:  salvator quodam-modo ratio misericordiae, inquantum res de non esse in esse mutatur", Tommaso d'Aquino, S. Th. I, 21, 4 ad 4), "donde brille por esto mismo" (appunto: attraverso) "más y más esa misericordia", S. Marvillas de Jesús, (1891-1974), lettera a P. Torres, 1924; citato in: Jose Maria Iraburu , Maravillas de Jesús, Fondación Gratis date, Pamplona, 87)). 

 È la povertà della morte del Figlio unico dell'amore eterno, il cui essere-morto, essere-sepolto è il linguaggio dell'amore-ricchezza della misericordia, che si esprime e tace nella dimensione più estrema. È la fonte dell'amore-povertà del figlio perso e ritrovato dalla misericordia del Padre - un amore-povertà, che non scommette sul suo diritto; che non rappresenta uno spazio vuoto, ripiegato su se stesso, del non-avere, o che si consuma nella brama del compimento e per questo è costretto, nel volersi appropriare avido di un compimento non ancora giunto a doversi presupporre, nella modalità di una fame e di un vuoto permanente. No, la povertà dell'amore si trova nella fecondità dell'aver ricevuto e dell'essere amato: spogliata di se stessa, "nuda", "vergine". Ha "ceduto", è disponibile e non attaccata al suo sé, disponibile quindi alla volontà del Padre, e così testimonianza personale dell'essere-stato-generato; per mezzo di ciò il figlio procede dal padre ed è donato a se stesso. Povertà come potenza di un amore che si dona ed è stato donato, e così possiede completamente se stesso, è in accordo (unità) con se stesso, e per questo non si considera un tesoro da conservare gelosamente, ma fluisce in una fecondità infinita. Questa povertà ha fiducia nel sì del padre che è stato consegnato totalmente e vive quindi privo di se stesso di se stesso. In questo amore-povertà, in cui si illumina la presenza del padre misericordioso il figlio perduto e ritrovato inverte il suo cammino. Il padre in mezzo al suo essere-perso lo ha raggiunto e trovato, attraverso colui che racconta la parabola. (5.6.19) La verità di questo suo essere-stato-trovato si manifesta nella libera volontà, senza fondamento, della sua partenza: "Mi alzerò e andrò da mio padre". Dicendo: "da mio padre", si auto afferma profondamente e da testimonianza di sé come figlio di questo padre, come "tuo figlio, padre": "quia cum inducimur ad diligendum Deum, inducimur ad desiderandum Deum, per quod maxime nos ipsos amamus, volentes nobis summum bonum". Tommaso d'Aquino, Qu. disp. de Caritate, qu. un.., art. 7, ad 10. - Scegliendo il padre come il suo sommo bene, con il suo volere amoroso, attraverso il quale egli solamente è felice, il figlio ama se stesso ex caritate; è a se stesso (dativo) buono, ha misericordia di se stesso. Vive in una sincera e libera volontà la misericordia del Padre che gli è stata donata. Fa ciò che il padre gli fa; e così lo glorifica. "Non so in quale maniera inesplicabile (inexplicabili): ognuno che ama se stesso, e non Dio, non ama se stesso; ed ognuno che ama Dio, non se stesso, in verità ama se stesso (ipse se amat)." Agostino, in Joan. Evang. tr. 123,, 5; PL 35, 1968. (6.6.19)

b. Ritorno a casa in paragone con l'origine imparagonabile 

Dapprima il ritorno, che ha le sue origini nella singolarità e nella imparagonabilità dell'amore ricevuto, si trova ancora in un certo paragone che porta con sé il momento decisivo dell'imparagonabilità del padre ed in esso della figliolanza. Il figlio dice: "Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza (Περισσευονται αρτων) e io qui muoio di fame!" I salariati sottostanno alla volontà del padre; ma il suo rapporto con loro non si esaurisce nella legge del "do ut des"; certo ricevono il salario per il loro lavoro, ma il loro rapporto  con il padre è caratterizzato dal "pane in abbondanza". Questo significa: in origine ricevono di più di quanto guadagnino, di più di quanto il contratto legale preveda. La casa del padre si rivela come fonte di vita in abbondanza, che nel dare non conta, calcola, stabilisce i diritti solamente, ma che al di là della prestazione e del merito, dona umsonst, senza un perché. Prima non credeva a ciò, quando con la sua volontà ha preteso ciò che gli aspettava di diritto: "dammi una parte dell'ousia" (nota 315). 

((315: cfr. l'ebraico "Beth-lechem"; "casa del pane"; Beth (2), la casa del padre è il luogo del pane che nutre. Il figlio si percepisce, a causa del ritorno, nel padre, non come colui che è stato tolto a se stesso, ma come colui che è stato accolto ed affermato.)) (7.6.19)

Il padre non fa solo questo tipo di paragoni: "Che cosa hai fatto tu che sei un mio salariato e quando ti devo dare per ciò che hai fatto? Quanto ti devo per la tua prestazione?" Giacché la corrispondenza esclusiva tra legge/ciò-che-devi e ciò-che-è (prestazione), tra il signore e i salariati fa si che entrambe le parte siano reciprocamente ceche. Nessuno vede l'altro per quello che è. Secondo questo tipo di circostanze sarebbe decisivo solamente il  lavoro prestato e per lo schiavo solo il salario. Tutte e due le parti prendono l'uno dall'altro senza che in ciò che entrambi danno e prendono, siano presenti l'un l'altro nel noi dell'amore. Senza questo legame  tra ciò-che-si-devi e ciò-che-è, causato dal lavoro-salario (denaro), l'io e l'altro sono reciprocamente degli estranei assenti. Ma il padre da molto di più che il solo salario, dovuto per la prestazione lavorativa. Egli da in abbondanza, a partire dalla pienezza del suo compimento vitale (non nella ricchezza apparente dello spreco), e non solamente agli estranei, ai salariati che vengono da fuori e dopo il loro lavoro se ne vanno; che non appartengono alla casa, che non abitano e rimangono nella propria casa come il figlio che non se ne era andato. Anche il figlio del padre nel paese lontano è invece un salariato, che non appartiene ad una casa, che in vero non appartiene a nessuno - a parte a colui attraverso il quale egli è chi è. E come tale lo raggiunge la misericordia del padre, l'abbondanza del suo amore, che è pane della vita umsonst; un amore che è tanto più grande, perché è il Dio-sempre-più-grande! Un rapporto meraviglioso e misterioso quello nel quale il padre a casa e il figlio nel paese lontano, in forza della misericordia presente, sono vicini l'un l'altro. (12.6.19) 

Quando c'è abbondanza di pane, già esistente, insomma come cibo che nutre e non solo come frumento, che poi (domani) sarà macinato; farina che poi (dopodomani) sarà preparata come pasta; pasta che poi (ancora più tardi) dovrà essere formata ed infornata per farne pane - insomma cibo presente, "pane quotidiano oggi" , in quel luogo non domina la legge del "se/allora", del "perché/perciò", piuttosto il sì dell'amore viene testimoniato senza condizioni, gratis. (Nota 316) 

((Nota 316: nel pane quotidiano "oggi" viene simboleggiata la comunità, l' io-tu-noi dell'amore, nella quale la libertà è presente gratuitamente per se stessa (egli, lei) e così per gli altri, in una presenza amorosa)) (13)

L'attenzione all'altro accade qui e non sotto la legge di condizioni che si susseguono l'un l'altra. L'abbondanza dell'amore paterno non intende occuparsi dell'altro sotto determinati aspetti, solo perché ha bisogno di lui.  Lo afferma finalmente nel mistero della "non usabilità" della sua esistenza, cioè "per nulla", per se stesso. Dare e ricevere in questo luogo del padre sono liberati dall' equazione astratta del "do ut des" e si sono aperti nel rapporto della incomparabilità  dell'amore, come libertà che dona a e riceve da un'altra libertà. L'abbondanza del pane significa che il padre ama i suoi salariati,  che sono gli amati del padre... e questo miracolo ora è chiaro anche al figliol prodigo, al salariato, nel paese lontano. (14.96.19)

In questo modo il figliol prodigo, che rivela questa verità ("hanno pane in abbondanza"), manifesta in un primo passo la conoscenza, che c'è un'obbedienza della libertà (14), a cui non è privato nulla, che non è sfruttata, che non è sedotta né in direzione dell'avarizia del voler avere né in direzione dello spreco. Nella casa del padre vige una dipendenza a cui si risponde con l'abbondanza del pane, un servire a partire dal quale può sorgere l'essere liberi, l'esistenza per se stessa.  

Dapprima il figlio prodigo aveva presentato la sua origine nell'immagine del potere, che non è capace, in una tale abbondanza, di conservare come un tesoro-per-sé; che rende impossibile all'altro basata sul suo essere-se-stesso. Per questo aveva detto: "dammi il mio patrimonio che tu hai solamente, ma che non vuoi o non puoi vivere come testimonianza della tua abbondanza amorosa." A partire da ora, ricordando la sua origine, nella sua conversione in avanti, che la ripete guardando in avanti, per una sincero amore-povertà, questa immagine si è trasformata fondamentalmente: la casa paterna è uno spazio di vita liberante, una sussistenza (ousia), che vuole essere presa, mangiata e trasformata come cibo (pane). Pane significa: "Prendimi e mangiami. Intendo proprio te". Il padre da molto di più di quanto esiga la prestazione a livello di diritto. (Nota 317) 

(Nota 317: I salariati non appartengono alla casa; non vivono in essa; anche i servi, che sono stati presi in servizio da molto tempo, vivono solo "vicino" alla casa. Non passano il tempo alla presenza del padre. Non fanno parte del seno materno come i bambini, non appartengono a quella madre che è diventa feconda pur non essendolo e che il padre lascia vivere nella sua casa e che è madre di molti bambini (virgo-mater). I salariati vengono assunti ogni nuovo giorno come "stranieri", ricevono la loro paga alla sera e poi vengono congedati (15.6.19). Cfr. Mt 20,1-6 (15): i lavoratori nella vigna. Anche per questa scena vale: abbondanza di pane al di là di una mera insistenza giuridica sulla prestazione compiuta. Ciò che è stato convenuto, lo è stato in abbondanza. Ognuno riceve un denaro: lo stesso ed unico amore non diviso dell'unico signore che si comunica nell' "1"; da ad ognuno un "1" , l' "1" dell'ousia della sua vita, che è compimento donato dell'unità in se stessa che donandosi, è con-divisa: ma come "1". L'amore è gratis, misericordioso. Non nega la giustizia, ogni persona viene tratta in modo del tutto giusto, riceve il suo diritto, ma nella sovramisura della della misericordia, non solamente "secundum proportionem" di prestazione e salario. ))

Egli dona nella modalità del sempre-di-più: non in forza di un sostegno segreto di un patrimonio pseudo oggettivo, posseduto dal suo io-potere, ma nella figura del pane che ha come scopo l'essere mangiato, che serve al sostentamento, che è sussistenza di chi mangia, che aiuta la crescita e la fecondità della sua vita. Questo patrimonio è donato in se stesso: "esistenza per", così che il padre, per l'appunto donando al suo figlio, e così generandolo, tutta la ricchezza della sua ousia, è padre nel noi dell'amore. (17.6.19) 

In questa casa del pane l'arrivo futuro del dono non deve essere conquistato, con una mera giustizia delle opere, come un patrimonio (ousia) morto, posseduto una volta dal padre e in questo senso come alcunché di passato. La ricchezza vitale dell'origine non è stracciata nella lontananza di un passato sottratto e di un futuro da conquistare con una certa prestazione, ma è presente, qui ed ora, in un tempo compiuto: "vieni, guarda e assapora come è buono il padre". Qui si può lavorare non solo per guadagnarsi di chi vivere o solo per sopravvivere, o per rigenerare il corpo per il prossimo lavoro, senza poter affermare se stesso e l'altro umsonst, senza poter assaporare la gioia di essere donato a se stesso.  Qui accade che servizio, lavoro dono di sé amoroso, a partire da una tranquillità interiore, nella pace viva dell'essere amato, sono possibili. Il padre da un dono che non ci siamo  guadagnati e che non ci spetta. Egli perdona e rimette i peccati. "Presso il padre non sono il "debitore eterno", che deve scusarsi e giustificarsi per mezzo di un'alienazione di sé lavorativa o un'obbedienza passiva da schiavi, con la meta forse di raggiungere una volta quel luogo della pace, del poter esistere per se stessi, che il padrone assorbisce con le sue pretese come se fossi uno schiavo; non sono il "debitore eterno" perché tutti i debiti sono stati pagati (perdonati) una volta per tutte. Qui è finita una volta per tutte la modalità del lottare per  un diritto, qui vengo giustificato, reso giusto a partire dal fondamento della giustizia e posso vivere in forza di un libero e non dovuto sì dell'amore; posso essere giusto, essere libero, a partire da un amoroso "da sé" (21.6.19). 

La decisione di ritornare a casa perciò non viene messa in movimento solo con un paragone tra il qui ed il del padre: "riceverò di più; a casa starò meglio., dai salariati di mio padre c'è pane in abbondanza , - e qui muoio di fame". Vi è un motivo molto più profondo: "Voglio partire una volta per tutte, voglio alzarmi senza riserve, o meglio essermi alzato ed in forza di questo imparagonabile "da sé" dell'amore, sorto dall'abbondanza (non dallo spreco), nell'umile affermazione di me stesso come figlio andare da mio padre e dirgli: "Padre ho peccato verso il cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati." Con questa preghiera si paragona "ancora" con un salariato - e tuttavia ogni paragone, nella partenza per ritornare a casa, è superato nell'affidamento all'imparagonabilità dell'amore perdonante. "Come un salariato, che da te ha pane in abbondanza, che riceve il tuo amore senza perché. Anch'io sono uno così, che viene da te come salariato, ma con il desiderio ardente di essere a casa da te: "Su, dal padre!"". Nello stesso momento in cui confessa il suo peccato, la sua mancanza d'amore, il suo non valore nella lontananza dal padre, ma attraverso la presenza perdonante il peccato della misericordia in lui riconosce, accetta ed esprime il suo nulla, dice come figlio che lo ama: "mio padre". Solamente in forza del suo veritiero essere figlio è capace di una confessione veritiera del peccato. In fondo solo l'unico Figlio del Padre è capace di ciò e lo compie sulla croce, nel luogo in cui il peccatore nella generazione dell'unico eterno, non creato Figlio del Padre rinascerà come figlio creato del Padre, nell'amore creato. 

Nel mezzo di questa impotenza del suo peccato testimonia la verità con una decisione, che viene svegliata ed è protetta con la realtà della sua nuova vita che gli è stata donata. In una "mossa", un salto oltre se stesso che sorge dalla originalità essenziale del suo vivo essere figlio. (Nota 318) (24.06.19)

((Nota 318: αναστασας è il participio aoristo di ανισταμαι: si è alzato improvvisamente nella singolarità di una presenza compiuta. Per questo si tratta di un'azione compiuta, di un atto fondamentale di concentrazione, che non si interrompe, ma si custodisce (participio) rimane. Il cammino che percorre è la figura temporale del suo essersi alzato, del suo stare-in-se-stesso. Il fondarsi-in-se-stesso del figlio vive come cammino al padre. Quindi non si tratta di un: "voglio alzarmi, voglio andare", nel senso di ciò che era accaduto all'inizio della parabola: "voglio la mia parte di eredità, voglio andare via da casa, voglio fare ed omettere ciò che voglio; voglio vendermi come schiavo ad un cittadino di questo paese lontano, voglio mangiare il cibo dei maiali, ed ora voglio andare via da questa miseria, voglio andare a casa". No, non è così! αναστασας non sorge da un atto di volontà, che parta da un puntuale io che disponga di sé con la sua volontà. αναστασας sorge dall'essere-stato-redento, a partire dalla "voluntas ut natura redenta". È l'opera (il frutto) di colui che è la risurrezione e la vita in persona: " εἶπεν αὐτῇ ὁ Ἰησοῦς· ἐγώ εἰμι ἡ ἀνάστασις καὶ ἡ ζωή·" (Gv 11,25). 
L' αναστασας è, accade come un'azione singolare, originale, cha accade nel momento, compiuta, (aoristo). È in gioco la Resurrezione (ἐγώ εἰμι ἡ ἀνάστασις), che colui che ci racconta la parabola "è", nella misericordia del Padre, come uno perduto e morto. Egli stesso è il morto risorto!
Colui che si è alzato (αναστασας) nell' "Io-sono-la-risurrezione" convertendosi aut-ex-ousion si mette in movimento (πορευσομαι) , andrà dal padre, facendosi strada verso di lui, arriverà da lui: risorto dalla morte del peccato, attraverso l'unico unigenito Figlio, che nel paese lontano dell'abbandono di Dio è diventato per noi un criminale condannato (peccatum factum), crocifisso, morto, sepolto, trova la sua pace per sempre nel cuore del Padre.
αναστασας è la fonte che rimane, dura e che custodisce (Participio aoristo) del ritorno al Padre; il "da sé" che sostiene chi è in cammino, lo tiene fermo, lo fa rialzare, la radice del suo auto movimento, del suo mettersi in movimento (πορευσομαι è una forma med. passiva), del suo andare. Solamente dal suo stare-in-se-stesso redento del αναστασας è possibile l'andare-a-casa dal padre - e così si è messo in cammino nella grazia della libertà liberata dell'essere-amato in un pentimento libero, nella confessione del peccato.))

Ciò è possibile solamente dal profondo dell'aver ricevuto la misericordia, dell'essere donato a se stesso per amore (della "Gewesendheit" (vedi la mia nota 9 in questo post) della libertà). In questa dimensione la povertà dell'obbedienza fiduciosa e la pienezza dell'essere-se-stesso creativo, nel suo proprio impegno, possono essere usati come una medesima formula. Quindi: il figliol prodigo non si muove a partire dal vuoto della "pancia vuota", non a partire dalla mancanza egoistica del "non avere", non a partire dalla nullità di cui, però, disponiamo ancora una volta, della propria miseria, ma in forza di un oggettivo ed onesto amore-povertà, di un libero sacrificio-di-sé (donato dalla misericordia). Poiché questo amore-povertà è la ricchezza del suo essere figlio. (16) È una povertà giustificata, resa "giusta", il cui mistero è una presenza senza alcun peccato in mezzo al peccato, donata in forza del perdono. Per mezzo del perdono, attraverso il quale egli rinasce, si rivela come il figlio perduto "del" padre, il cui amore è la fonte della sua libertà, in forza della quale, solamente, egli potrà confessare il suo peccato: la colpa di cui dovrà rendere conto in responsabilità propria e attraverso la quale è caduto al di fuori della realtà, della verità dell'amore ed è diventato un "nulla", un morto "vivente". Il dolore profondo ed incandescente, la tristezza feconda della confessione del peccato vive dell'indicibile gioia: "Il padre mi ama. Sono suo figlio; voglio vivere presso di lui, in lui, attraverso di lui e per lui: Si, padre". Per mezzo della vita che gli è stata donata nel perdono egli è se stesso, ma non nella cattiva origine di se stesso attualizzata nel no al padre, ma per mezzo dell'essere-libero di chi è giustificato, che con la misericordia del padre è stato risvegliato dalla morte alla vita ed è risorto dai morti. Solamente nel genitivo paterno della grata accoglienza della propria libertà è possibile al figlio del padre la confessione del peccato. (17) In esso il figlio già nel paese lontano si trova nel cammino che lo riporta a casa, compie già nel paese lontano la libera volontà dell'amore, in un reciproco giungere del padre e del figlio come presenza (aspettarsi l'un l'altro) di coloro che sono separati, ma ora non più nella differenza della morte, ma in quella dialogica dell'amore. Non solo il figlio va verso il padre, ma anche il padre va incontro al figlio: lo vede già da lontano. Lontananza di chi si è perso, ma in ciò lontananza della speranza di colui che giunge a se stesso in forza del mistero del "da sé": non si rivolge ancora direttamente al padre: "voglio andare da mio padre e dirgli -." Nel cammino sorgerà l'EGLI come un TU, l'egli come un tu: nell'Io-Tu-Noi della casa come amore-communio. (31.7.19).

Nel genitivo paterno (come figlio del padre) si rivolge al (dativo) padre, il cui amore misericordioso è libertà per il figlio. Per questo motivo la formula "io voglio ritornare al padre" del figlio non è contrassegnata dalla minima traccia di volontà-propria, nel senso di un' egoistica auto-imposizione. Il figlio può portare alla sua origine solamene il suo "nulla", ma non nella modalità del "solo-vuoto-della-brama", che è già morto in lui, ma in quella dell'amore-povertà della disponibilità obbediente a ricevere e compiere in modo fecondo la volontà del padre. Vuole chiedere perdono, in fiducia nella sua misericordia donargli il proprio nulla, senza pretesa di un proprio diritto. Portando al padre il suo "nulla" dice senza usare parole: "questo è il "nihil" nel "pro nihilo" del tuo amore, che mi ama umsonst, "per nulla" e in cui io mi consegno pieno di fiducia. Ti appartiene".

Il "nulla" del suo amore-povertà è semplicemente lode della misericordia del padre: "Per mezzo di questa misericordia sono un semplice nulla, puro amore-povertà e ciò testimonia la verità che tu, padre, da solo sei sufficiente, che la tua grazia sola basta. Dammi solamente il tuo amore e la tua grazia e questo basta. Se la tua volontà si compie in me e in tutte le tue creature, non desidero null'altro". Consegna la sua impotenza all'amore del padre, si affida a lui, senza motivo; in una fiducia senza limiti, il cui impegno è già la vita del padre in lui, cioè il "senza perché" fecondo della sua libertà, la vita in pienezza del figlio. Non può giustificarsi da sé e così parte: umsonst, "per nulla", per amore. (14.8.19)

Tra questo suo umsonst e il padre non si trova nessun medium limitante e impedente. Il "tra" del padre e il figlio è il vuoto creativo, il respiro dell'amore, il dia-phanum della luce della verità che permette ad ognuno il "giungere-da-sé". Così il figlio può percorre la via del ritorno direttamente, senza indugio. La via accade già nel mistero dell'unione tra padre e figlio. Il figlio non si ferma in nessun luogo, per lavorare o mangiare. La pienezza della povertà del suo desiderio è la sussistenza che lo alimenta, la volontà del padre il suo cibo. Perciò non viene raccontato nulla su questa via del ritorno. Lo spazio vuoto, nel quale si era perso allontanandosi dal padre è stato trasformato dalla misericordia accogliente nell'amore-vuoto sincero, nel "tra" vivente nel quale ognuno vede il cuore dell'altro senza alcuna finzione. (15.8.19)

Affidandosi senza condizioni all'impensabile ed incalcolabile volontà del padre, senza alcuna tentazione in qualsivoglia aspetto, di attirare a sé, per mezzo della sua povertà, la sua misericordia, ama umsonst, compie l'assoluto patrimonio del padre a cui partecipa ontologicamente. Per questo si può dire che il figlio, in forza del perdono del padre, che offre la vita, nel suo cammino: va con il padre al padre, senza anticipare minimamente il suo comportamento. Vive la vita della sua origine nel suo cammino come il suo proprio ritorno a casa. Egli va incontro al padre nella modalità dell' io:tu (egli-se stesso). (Nota 319)

((Nota 319: Questo, però, accade così che anche il padre da se stesso (egli), come io:tu ("tu", perché è origine del figlio), va incontro a colui che ritorna a casa. L'abbraccio, attraverso il quale il padre accoglie il figlio è la figura concreta del loro "tra" (noi), che cresce dal pre-tra di un impensabile "amore gratis (umsonst)", nel quale sono entrambi uniti. In questo amore si svela la verità, che il Padre non genera solo il Figlio , donandogli l'intera vita della natura divina (gignere est dare), piuttosto lo accoglie, il figlio che non è mai stato non Figlio, nell'unico e medesimo atto di amore assoluto, come colui che è stato generato, in sé (Padre). Tutto ciò che nella generazione carnale, in modo diverso, accade al padre e alla madre: "omnia in generatione Verbi Patri attribuuntur in Sacris Scripturis: dicitur einim Pater et dare Filio vitam et concipere et parturire", Tommaso d' Aquino, S. IV,11c. G. Così, eternamente, il padre è per il figlio una madre che riceve e partorisce, e che non può essere compreso ed interpretato mai nella differenza finita di padre e madre (o nel loro reciproco completamento o superamento, etc.). Nel momento in cui la concezione e il parto materni sono separati dal dare (gignere), abbiamo perso di vista il mistero del padre: "Verbum in sinu Patris", Tommaso d'Aquino, S. c. G. IV, 11. Il "grembo del padre" è lo spazio personale del suo amore-povertà, il mistero del "vuoto" ricevente, portante e partoriente della fecondità assoluta dell'amore, che testimonia se stesso nella processione eterna del figlio dal padre.))

La sua meta è presente in ogni passo del suo cammino nel non-ancora della speranza. In questa speranza il desiderio del figlio e l'amore-povertà della pazienza del padre sono intrecciati reciprocamente e profondamente, insomma sono la "medesima" cosa. (18) Il figlio non si muove verso il padre per un'assicurazione sostanziale, che prevede tutto ed completa in sé, di un posseduto essere-stato-figlio. Non si fonda su un motivo calcolabile ed oggettivo della sua essenza: "giacché sono ciò e chi sono, cioè "figlio", per questo motivo, a casa, nel futuro, non mi può accadere nulla di terribile. Questo sarebbe ancora una volta il punto di vista del diritto astratto che ha avuto in passato. Il figlio piuttosto viene nella libera volontà senza motivi di un sincero amore-povertà, cioè dal medesimo amore-povertà, nel quale e attraverso il quale il padre gli ha consegnato il suo patrimonio e lo aveva lasciato essere per amore ed una volta per tutte lo aveva lasciato essere libero, anche nel suo andarsene da casa: sul suo cammino.

La partenza verso casa non accade insomma solamente per un paragone tra qui (fame) e là (eccedenza). Cresce dalla conversione, dalla rinascita del morto per il nulla imparagonabilmente sincero dell'amore-povertà, dal sepolcro del morto e risorto per amore, dal quale nasce la vita della libertà che agisce gratuitamente e con amore. L'essere-figlio non viene fissato come "motivo necessario", come "perché" certo della conversione, ma lasciato-andare: nella fiducia che il dono del padre ha già riempito lo spazio essenziale della libertà del figlio, senza condizioni e gratuitamente. La forza di ogni passo verso casa deve tutto all'essere portato dal padre. Per questo motivo, nell'essere amato senza motivo, per questo stato del suo essere e rimanere amoroso nella presenza del terreno paterno, nella ουσία del padre, comunicata,  nella paese lontano, nel Βίος del figlio, è possibile il ritorno a casa. La presenza del padre abbraccia il figlio nella sua più profonda intimità. Tanto più giunge vicino al padre fino a consegnarsi senza condizioni alla sua misericordia, quanto più viene alla luce la pazienza silenziosa del padre che lo porta (e lo ha sempre portato). Colui a cui lui si consegna gli si è già donato in modo misericordioso e nel modo più intimo. La "lontananza" del padre è la "vicinanza" dell'origine, nell'essere in cammino del figlio, il fondamento del suo ritorno a casa. (17.8.19) 

Il cammino, però, si compie nello spazio e nel tempo, anche se esso accade per l'unione perdonante con il padre, cioè nell'essere-figlio di colui che si era separato. Il padre terreno non è ancora raggiunto nella sua presenza corporale, così che il cammino si rivela come un esercizio di pazienza nel chiedere perdono. Continuamente la fiducia deve essere osata, contro tutte le obiezioni tentatrici: di cosa forse potrebbe aspettarlo a casa, di come forse si comporterà suo padre. Questo diventare-povero e fidarsi abbandonandosi in avanti , nel quale il figlio vive il suo si nell'aver-ricevuto consegnandosi nel suo-essere figlio all'indisponibile giungere del padre, in un nuovo atto di fiducia (" tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato", Mc 11,24), vissuto, però, nella differenza del passato (nel paese lontano) e del futuro (a casa). Il perdono che abbraccia il figlio è ancora nascosto nel cuore del padre, alla cui positiva inaccessibilità (libera volontà) il figlio, percorrendo il cammino, si consegna passo per passo senza condizioni. Il suo cammino al padre è l'atto di questa espropriazione: nella quale egli in cammino è già dal padre: cammina per così dire nella meta verso la meta. (3.9.19, san Gregorio Magno). (19)

Questo camminare nella meta era nel primo momento ancora marcato da un paragone leggero, perché il figlio non è ancora a casa: "Trattami come uno dei tuoi salariati. Questi da te hanno pane in abbondanza, io devo soffrire di fame qui. Voglio servire. Fai di me ciò che tu vuoi, così che possa aver parte della tua abbondanza". Come il futuro dell'origine (considerato temporalmente), per chi ritorna, nel cammino verso casa, in-se-stesso è ancora qualcosa a venire e che in primo luogo deve essere raggiunto, così il figlio tenta in esso di raggiungere anche qualcosa per sé. Così, in un certo senso, parla ancora nella modalità di una differenza separante, tra il padre (e la sua autocomunicazione) e sé (come colui che vuole servire). Ciò che si aspetta ha ancora una traccia della dimensione del "salario" (anche se in abbondanza): "voglio vivere lavorando come un povero attraverso di te che sei ricco". Ricchezza e povertà, potere e servizio, nonostante l'amore-desiderio (amore-povertà), già sorto in lui, della gratuità dell'amore paterno, nonostante la fiducia viva, si rapportano l'un l'altro ancora in una certa differenza oggettiva. Il profondo amore-povertà del figlio, che è l'amore perdonante del padre che a casa lo abbraccerà, e nel quale il figlio si riposa, è ancora nascosto. L'estremo lasciarsi-accadere, la totale consegna di sé all'interno della gratuità, in cui comincia la vita intera di colui che è tornato a casa, nel figlio è ancora velato. Nel cuore del padre, che è e rimane il suo luogo di nascita, sarà rivelato. Ma per ora è ancora in cammino verso il padre. 

Così anche il suo peccato non è ancora apparso nella sua intera miseria. Ammette: "ho peccato; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. E per questo motivo mi merito solamente di essere un tuo salariato"; eppure in qualche modo il figlio dispone ancora, in un certo senso, del giudizio del padre, si pone in una determinata posizione al cospetto del padre, cerca da se un luogo, un preciso modo di essere nella proprietà del padre. Misura ancora da sé il rapporto con il padre. Ma lo potrà ancora quando capirà, per la misericordia del padre, che il peccato non merita altro che la punizione e che il suo "nulla" merita tutto, il non determinato pro nihilo dell'amore? "Beato peccato che merita un tale amore!" Per ora tiene fermo ancora alla propria nullità dall'esterno e si paragona con i salariati giornalieri: "tienimi, così come...". Presenta se stesso come altro, tra altri, nella serie dei terzi (egli, lei: in modo seriale), e non come tu del padre, presente al suo cospetto in modo imparagonabile. Vuole essere misurato ancora per il suo "non valore", a cui egli guarda. 

L'umiliazione nella profonda povertà dell'obbedienza cresce nel nascondimento; l'ultimo arrendersi nel perdono accadrà con l'abbraccio del padre. Questo dono di sé non è anticipabile dal figlio né in un proposito né in immagina precisa. Lo vivrà, lo compirà nel silenzio, quando il padre lo abbraccerà e lo accoglierà nel silenzio; così lo accoglierà e sì accoglierà e poiché il prendere dell'amore è il donare si donerà a lui e a sé in modo totale, come figlio che è frutto del padre. Qui morirà ogni paragone e sorgerà l'imparagonabilità del figlio nell'imparagonabile amore del padre. "Sono amato e stato perdonato". Nell'abbraccio del padre non dice più: "trattami come uno dei tuoi salariati". Il padre fa si che ogni paragone ammutolisca: perdona e purifica il paragone con i segni della dignità imparagonabile del figlio. (4.9.19) (20)






 Continua. 

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(1) https://graziotto.blogspot.com/2019/03/sullapologetica-cristianista-che-sta.html

(2) Per questo è necessaria una Chiesa in uscita, che vada nel luogo e nei luoghi dove le persone sono e dove possono adorare l'unico Dio! (RG)

(3) Questo tema è stato approfondito da Ferdinand Ulrich nel suo libro: "Vivere nell'unità della vita e della morte". 

(4) Per la nostra sensibilità odierna la parola "sacrifico" non è del tutto chiara. Con ragione Massimo Recalcati ha scritto un libro "contro il sacrificio", che abbiamo già citato in una delle note precedenti, ma in esso egli distingue tra due idee di sacrifico; uno fantastico, che genera malattie ed uno simbolico reale, di cui abbiamo bisogno tutti se vogliamo ottenere qualcosa. Per fare questa traduzione sacrifico il mio tempo libero. Il sacrificio di Cristo è un sacrificio reale e simbolico di amore supremo e non una fantasia che qualcuno, tanto meno il Padre, gli ha imposto. (RG)

(5) Non posso ricostruire in italiano la parola ein-ander (uno-altro), che ho tradotto con "insieme" (RG)

(6) Memoria è in tedesco Erinnerung, che Ulrich stacca in questo modo: Er-innerung (il diventare interiore dell'Egli. (RG) 

(7) Questo è un grande tema che conosco anche dalla teologia di Adrienne von Speyr. "Quia peccavi nimis" - non esiste la separazione tra il mio e il peccato degli altri. Essa c'è giustamente a livello giuridico, non a livello teologico. Formigoni condannato o per fare un esempio più grave del peculato, McCarrick, a cui è stata tolta la dignità cardinalizia e sacerdotale, sono anche in me. Se uno si fissa solo nel suo peccato non saprà confessarlo, non saprà neppure identificarlo.  Non si tratta neppure di guardare il peccato degli altri, ma di imparare a guardare il peccato nel mistero dell'amore crocifisso e del suo perdono. In questo modo ci verrà donato di confessare sul serio "quia peccavi nimis" (RG). 

(8) Non mi è possibile tradurre tutti i giochi di parole contenuti in questa frase, ma la ho tradotta non tradendo il contenuto. Sich verlassen: aver fiducia. Los-lassen: cedere. Gelassen sein: essere in pace con se stesso. RG

(9) Ho chiesto aiuto per questa parola al vescovo Stefan Oster, che conosce molto bene il pensiero di Ferdinand Ulrich e che rinviandomi alla nota 194 (pagina 365 dell'edizione tedesca) mi ha scritto: 

Lieber Roberto Graziotto, 
die Verwendung des Wortes „Gewesendheit“ wird erklärt in der Fußnote 194 auf S. 365 von Gabe und Vergebung. Zunächst geht es um die Ousia, das „Wesen“ des Menschen, konkretes Sosein - und zugleich wird mit dieser Partizip-Form ausgedrückt, dass das nicht nur ein statisches, begrifflich fixiertes „Wesen“ bezeichnet, sondern eine konkrete Daseinsform im eigenen Wesen, die Person ist in ihrem konkreten, bleibendem, währendem Sosein an-wesend. Das heißt es geht dabei einerseits um die Konkretion, andererseits darum, dass dieses auch ein Vollzug ist, also wie das Bleiben, das Wohnen in und als menschliches Wesen. 
Hoffe, das hilft
Gruß 
SO (Caro Roberto Graziotto, 
l'uso della parola "Gewesendheit" è spiegato nella nota 194 alla pagina 365 di "Dono e perdono". All'inizio si tratta dell'ousia, l'"essenza" dell'uomo, l'esistere-così concreto - e allo stesso tempo si esprime con questa forma del participio che questa non è solo una "essenza" statica, concettualmente fissata, ma una forma concreta di esistenza nella propria essenza, la persona è presente nel suo essere-così concreto, permanente. Questo significa che da un lato si tratta di concrezione, dall'altro lato si tratta del compimento, come lo stare (manere in latino, rg), l'abitare-dentro e come essere umano. 
La saluto sperando di essere stato d'aiuto, 
SO).

Ecco la nota 194: "La dimensione dell'egli (lei) esprime l' in-se-stesso o in altre parole il luogo ontologico, la presenza della libertà nella sua Ge-wesend-heit, nella ousia della sua esistenza. Usiamo la forma del participio : "ge-wesend" per esprimere meglio lo stato del permanere, del rimanere, del durare e la parola „Wesen“ (essenza) (da intendere come un verbo usato come sostantivo). Cfr. anche la nota 270 dell'edizione tedesca. La nota 270: "La parola Ge-wesend-heit esprime in modo più intensivo,  con la forma del participio, lo stato  del tutelare e durare che la parola Ge-wesen-heit. Cfr. nota 194. (RG)

(10) Uso per la parola "gleich-gültig" menefreghismo, invece che indifferenza, perché quest'ultima ha un valore semantico anche buono (per esempio nel linguaggio di Ignazio), mentre menefreghismo può essere inteso solo in modo negativo. Gleich-gültig significa che tutto per me è uguale. RG

(11) Questa vita vera e propria, per parlare nel linguaggio di Heidegger non sorge per il semplice stare a disposizione del patrimonio (Zuhanden-sein des Vermögens), né per la sua semplice presenza (Vorhanden-sein) o assenza: la vera vita sorge quando si ritrova l'essere andato perduto, che superando Heidegger in direzione di Ulrich, è l'essere come amore donato gratuitamente e personalmente dal Padre. Il superamento del peccato non è un semplice gioco dialettico di perdita e ritrovamento, non è neppure legittimazione del peccato, ma sua confessione libera, inforza del primerear dell'amore gratuito e libero del Padre (RG) 

(12) Ascoltare (hören) ed obbedire (gehorchen) sono in tedesco parole molto simili. RG 

(13) In queste parole sull'abbondanza presente oggi, sul cibo presente oggi, Ulrich offre criteri decisivi per una comunità cristiana. L'attenzione all'altro non deve essere mai dipendente dalla logica del "se/allora", se fai parte dei gesti della comunità, allora ti considero; l'unico limite all'attenzione dell'altro e la sua libertà e la sua non usabilità per i fini della comunità stessa. Nel rapporto io-tu-noi non bisogna mai dimenticare che un "tu" è anche un "egli" che non è riducibile ai miei scopi, anche buoni. Questo è il punto con cui sto lottando in questi tempi, anche facendo nella quotidianità i preziosi Esercizi di don Carrón: https://graziotto.blogspot.com/2019/06/diventare-semplice-per-riconoscere.html
Queste riflessioni di Ulrich saranno anche il tema del viaggio nelle Dolomiti di quest'anno. 

(14) Nella rivista tedesca dei gesuiti, Jesuiten, nel numero 2019/2 Ansgar Wucherpfennig SJ e Judith Borg discutono sul sacerdozio delle donne. Sia il padre gesuita, che tra l'altro riferisce il fabula docet dell'intervento di Luis Ladaria SJ (Congregazione per la dottrina della fede, 2018) in modo del tutto soggettivo, per non dire errato, che la donna non hanno il minimo senso di cosa sia l' "obbedienza della libertà" e di fatto "obbediscono" al proprio giudizio soggettivo e/o alla società. Tra l'altro l'inserimento del sacerdozio per le donne nella Chiesa Cattolica romana, come già si vede in quella luterana, non cambierebbe nulla alla vera questione della communio nella Chiesa, anzi l'attenzione all'altro dipende qui del tutto dalla logica del "se/allora": se ci sarà un sacerdozio delle donne allora la Chiesa sarà davvero libera.

(15) Mt 20, 1-16: 20 


[1] "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 
[2] Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. 
[3] Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati 
[4] e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. 
[5] Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. 
[6] Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? 
[7] Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. 
[8] Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. 
[9] Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 
[10] Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. 
[11] Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: 
[12] Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 
[13] Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? 
[14] Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. 
[15] Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? 
[16] Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi".  

(16) Questo è un punto molto importante; quando come figlioli prodighi vogliamo tornare al Padre non abbiamo bisogno di un particolare eroismo del riconoscimento dei propri peccati, ma del nostro essere figli. L'atteggiamento di confessione è in primo luogo una confessione di appartenenza al Padre e in secondo luogo di confessione dei propri peccati (che è meglio fare nel segreto della confessione; ciò che si deve evitare è la continua difesa di se stessi e dei propri peccati). RG 

(17) Quindi è molto importante quando si critica qualcuno per le colpe da lui commesse, non farlo in modo tale che si metta in dubbio il suo essere figlio del padre. RG

(18) Questo essere la medesima cosa del desiderio della speranza dell'uomo e dell'amore paziente di Dio è quello che la filosofia del non essere ancora utopico di Ernst Bloch non ha saputo vedere. RG

(19) "Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato", Mc 11,24. Questo non toglie quel cammino concreto, nello spazio e nel tempo, in cui il padre con la sua volontà è ancora inaccessibile. Anzi l'aver fiducia in ciò che è ancora inaccessibile è l'atto più proprio dell'uomo adulto. Aver fiducia che ciò di cui abbiamo più bisogno ci è stato già accordato, anche se non ne vediamo ancora la forma. RG

(20) In questo ultimo passaggio del quinto capitolo di "Dono e perdono" viene presentato un motivo liberante. L'abbraccio del padre non è anticipabile, fino a questo incontro nel silenzio noi faremo sempre dei paragoni per legittimare ciò che desideriamo ed anche dei paragoni per comprendere il nostro peccato e ciò che in esso forse non lo è del tutto. La lettura cattolica della Etty Hillesum mi è sempre rimasta un po' estranea perché in qualche modo vuole anticipare l'abbraccio del padre. Etty non è un eroe, ha i suoi mal di testa, un rapporto complicato con la sessualità, e pian piano da un paragone all'altro si muove verso quell'ultimo abbraccio che non può essere più anticipato a livello "letterario". Una traccia di questo tipo di "paragoni" rimane per tutti fino all'ultimo respiro. RG

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