„La formula dell’itinerario al significato ultimo del realtà quale è? Vivere il reale“ (Luigi Giussani, Il senso religioso, Milano 1986, 145). Non posseggo qui nella diaspora l’ultima edizione pubblicata dalla Rizzoli, ma non mi risulta che vi sia, almeno per quanto riguarda questo capitolo, che l’autore considerava il più importante del libro, un cambiamento contenutistico; la prima stesura de „Il senso religioso“, in una variante più corta, risale all’anno 1966.
Il libro con cui io a livello filosofico mi sono confrontato più intensamente, l’ „Homo Abyssus“ di Ferdinand Ulrich (1931-2020), è stato scritto nel 1961. Don Giussani non aveva letto il libro del filosofo tedesco, mentre quest’ultimo aveva letto il libro di don Giussani e mi aveva detto che aveva pensato seriamente di dedicare un semestre all’università di Ratisbona, prima di essere emerito, allo studio del libro del sacerdote italiano; il progetto non andò in porto, ma credo piuttosto per lo stato di salute di Ulrich che per altre preoccupazioni. Quale è il nesso tra le due opere? Per usare le parole di don Giussani, esso consiste in questo punto: „Il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte ad una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui dipende. Tradotto empiricamente è la percezione originale di un dato. Un uso totalmente umano di questa parola „dato“, nel senso che uno vi applica tutte le implicazioni della sua persona, tutti i fattori della sua personalità, la rende viva: „dato“, participio passato, implica qualcosa che „dia“. La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo „dato“, e quindi il primo contenuto dell’impatto con la realtà è la parola dono.“ (136). Nell’ontologia dell’ „Homo abyssus“, un abisso che risulta da tutte le implicazioni della persona umana, è che l’essere stesso è un atto di amore gratuito: „dono“ per l’appunto. Nei confronti di questo atto „è una passività che costruisce l’originaria attività“ dell’uomo (cfr. „Il senso religioso“, 136-137). Una „secondarietà“ direbbe il filosofo della religione francese Remi Brague. Quando Ulrich parla dell’“obbedienza al senso necessario dell’essere“, intende questa „passività“ (Giussani),„secondarietà“ (Brague) dell’uomo nei confronti di Colui che dona gratuitamente l’essere. Questa obbedienza o passività non è mancanza di creatività, ma è propria all’uomo che può pensarsi solo in relazione a Colui che dona l’essere nella modalità dell’ „analogia“ (Erich Przywara): „Questo è il valore dell’ „analogia“: la struttura di impatto dell’uomo con la realtà, desta nell’uomo una voce che lo attira ad un significato che è più in là, più in su, „anà“ (Il senso religioso, 146). Ulrich parla di „sovraessenzialità“ dell’essere, ma questa sovraessenzialità non è in gioco in un’idealità astratta (utopica), ma nella „materia“, nella concretezza del reale, nell’impatto con il reale. Quell’ in „su“ si rivela nella modalità del „movimento di finitizzazione dell’essere“ (Ulrich) - non vi è né un reale senso religioso né una reale comprensione filosofica che non implichi „una serietà con il reale“. Sia per il senso religioso di don Giussani che per l’ontologia dell’essere come dono di amore gratuito di Ulrich, il positivismo, che domina la mentalità dell’uomo moderno“ (Il senso religioso, 146), „esclude l’invito a scoprire il significato che ci viene rivolto proprio dall’impatto originario ed immediato con le cose“ (Il senso religioso, 146). Questo impatto originario ed immediato è lo stupore di fronte al fatto che „ci sia qualcosa invece che nulla“ (Heidegger, Balthasar). Non la paura, la paura, come dice don Giussani è sempre un secondo passo. Lo stupore, l’essere sorpresi dalla gioia (C.S. Lewis) è il „primerear“ (Papa Francesco) di un atteggiamento ontologico-cristiano, che implica sempre una „priorità della realtà sulle idee“ (Jorge Mario Bergoglio, Massimo Borghesi). Una realtà che ci si rivela non in primo luogo nei grandi progetti, ma nella piccola via del quotidiano (Teresa di Lisieux, Charles de Jesus). Per le sfide in cui ci troviamo a vivere, la proposta di Giussani e dei suoi fratelli e sorelle spirituali che abbiamo appena citato, è del tutto liberante: „il cammino al vero è un’esperienza“ (come giudizio, non come arbitrario provare) e non una bigotta o ribelle percezione del reale. Come Ulrich, anche Giussani sa che il dono dell’essere è „semplice e completo“ (Tommaso d’Aquino), non deve essere pianificato utopicamente nella modalità di „un non essere ancora dell’essere“ (Ernst Bloch); come Ulrich don Giussani sa che l’essere finito non è sussistente (Tommaso d’Aquino), senza cadere nella tentazione di un’“ontologia debole“, che pur in dialogo con la religione cristiana, cede troppo al nichilismo. Il nichilismo, come ha saputo spiegare don Julián Carrón è la forma „positivista“ ultima, postmoderna, della percezione del reale: non ci permette di „scoprire il significato che ci viene rivolto proprio dall’impatto originario ed immediato del reale“ (Giussani, ibidem). Alla sfida del nichilismo Julián Carrón risponde con la „bellezza disarmata“, Ulrich, similmente, con una gratuità che attacca il nulla dall’interno: nel “medesimo uso di essere e „nulla“ (Ulrich) il dono gratuito dell’essere, nella sua bellezza ontologica disarmata, ci fa vedere che è possibile fare un’esperienza del „nulla“ ben più profonda di quella del nichilismo. La gratuità del dono dell’essere è così gratuita che non si ferma neppure di fronte alla sfida del „frustra“, che ha condotto l’uomo al nichilismo. Gratis et frustra sono le due facce di una stessa sfida, quella della gratuità dell’amore.
„L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale“ (Il senso religioso, 145). Viverlo sapendo che non ci facciamo da noi, viverlo in una dipendenza grata, in una dipendenza libera. Le ideologie, bigotte e ribelli, ci rendono non liberi. Certo forse non sarà possibile vivere sempre così intensamente il reale, come possiamo imparare dall’intensissimo diario di Etty Hillesum, che però conosceva anche la dimensione non analogica, cioè „bassa“ del reale, ma per essere veramente religiosi, ci fa vedere la giovane ebrea uccisa da Hitler ad Auschwitz, basta „vivere il reale“, non c’è bisogno né di asfissianti metodi ultra tradizionalisti e bigotti di gestione della vita religiosa, né di ribellarsi al male, che ha ucciso Etty, ma non ha impedito che la sua vitalità giungesse fino a noi. È possibile una „comunione liberante“ con chi dona l’essere rispondendo, come possiamo, anche „con il peccato“ (Agostino, Claudel) alla sua gratuità con atti di gratuito amore, per Dio che dono l’essere e con il più piccolo dei nostri fratelli con cui Dio stesso è solidale (Mt 25, 31-46). Per far questo non abbiamo bisogno di alcuna egemonia culturale o politica, né di essere sempre l’alternativa migliore a ciò che fa l’uomo moderno e postmoderno, basta lo stupore, per esempio „nei confronti di questo mistero di fecondità della terra e della donna“ (Il senso religioso, 140). In questi venti anni nella diaspora in una delle regioni più secolarizzate del mondo, la Sassonia-Anhalt, ho imparato sempre di più ad evitare confrontazioni ideologiche, concentrandomi sul dono dell’essere, nella modalità del „vivere il reale“.
Roberto Graziotto (1960), Scritto nel giorno di Cristo Re del’Universo secondo il canone romano e dedicato a Gianni Mereghetti e Renato Farina.
(14.1.24) Postilla al capitolo nono del „Senso religioso“ di don Giussani. Il capitolo nono porta il titolo: „Preconcetto, ideologia, razionalità e senso religioso“. Esso mi permette di continuare il lavoro che sto facendo in questi giorni con „la grammatica dell’assenso“ di Newman, un lavoro di discernimento tra la certezza del cuore e le inferenze logiche (anche don Giussani ne parla quando afferma: certe argomentazioni potranno essere anche logiche, ma non sono razionali (132)). Come è noto don Giussani distingue tra due idee del „preconcetto“: vi è un senso giusto del termine ed uno cattivo. Nel mare di ciò che viene detto e comunicato „l’uomo reagisce, e reagisce in base a quello che sa e che è“ (127) - questo è il significato buono del termine. Quello cattivo consiste nella mancanza di „apertura di domanda“ (127). Il preconcetto più pericoloso della nostra epoca, per don Giussani, è quello del materialismo (128), e se davvero abbiamo un cambiamento radicale di paradigma in questi ultimi decenni, allora esso ha un altro nome: nichilismo! Dalla materia si può giungere, ci ha insegnato Ulrich nell’ „Homo Abyssus“ alla dimensione religiosa, o detto filosoficamente a quella „sovraessenziale“. Il niente invece è niente! E si sparge e si dilata come ha saputo raccontare Michael Ende nella sua „Storia infinita“ e don Giussani ci dice bene come si sparge: „con la mentalità comune del popolo“ (128), con la mentalità comune „attraverso i mass-media“ (129), di cui fanno parte tutti gli organi aziendali ed ora attraverso i „social media“ e il loro continuo chiacchiericcio, da non confondere con gli esercizi reali di democrazia. Qui il preconcetto cattivo diventa ideologia! Quest’ultima non ha interesse alle domande ultime della persona nel suo cammino al vero, che è la sua esperienza: questa persona singola, questo individuo „viene emarginato una volta che ha dato spunto all’intellettuale per i suoi pareri, o al politico per giustificare e pubblicizzare una sua operazione“ (129). Come anche Newman, Giussani lotta duro contro ogni forma di „ipse dixit“ - perché oggi i maestri alla moda, nel giornalismo, nel cinema, nelle visioni del mondo fanno passare solo uno „scetticismo distruttore“, il nichilismo appunto, dobbiamo imparare ad usare la nostra ragione. Cosa si può opporre a tutto ciò, come proposta creativa, non come apologetica? Don Giussani lo dirà chiaramente nel capitolo decimo che ho già commentato, ma lo accenna anche già nel capitolo nono: l’esperienza! Ulrich mi ha insegnato che il cuore di questa esperienza è l’amore gratuito (gratis et frustra). Solo nella gratuità o al „nulla“ (de nada) dell’amore vi è una risposta intima al nulla del nichilismo! Don Giussani parla di „significato“. „ L'esperienza stessa nella sua totalità guida la comprensione autentica del termine ragione o razionalità. La ragione infatti è quell'avvenimento singolare della natura in cui questa si rivela come esigenza operativa a spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, così che l'uomo sia introdotto alla verità delle cose“, al significato delle cose dirà più tardi. Tutti i fattori è forse un’esagerazione dell’anima nobile di don Giussani, ma ci siamo intesi. „ Il senso religioso appare come una prima e più autentica applicazione del termine ragione, in quanto non cessa di tendere a rispondere all'esigenza ad essa più strutturale: quella del significato“ (132). E di questo significato, come ho compreso ieri in dialogo con Newman (cfr. il mio diario di ieri, 13.1.24) (1) siamo „certi“, ma non possiamo proiettare questa „certezza“ nell’ambito delle narrazioni di ciò di cui non abbiamo esperienza diretta, senza cadere nuovamente nell’ideologia e nel preconcetto cattivo. - Per quanto riguarda Kant e la citazione che ne fa Giussani nel capitolo novo, bisogna stare attenti a discernere non solo la comunanza, ma anche la differenza. Per Kant la questione del senso religioso è un errore necessario della ragion pura, in questo senso Kant non è un illuminista triviale, ma è pur sempre un errore, che la ragione pura non può risolvere. La ragion pratica lo può, ma come postulato. Mentre questa differenza non c’è in Giussani, per il quale l’essere costretta della ragione, l’essere „forzata“ della ragione a prosi il problema del senso religioso non è un errore, ma un’implicazione dell’esperienza; senza tenerne conto non si può che cadere nell’ideologia e nel preconcetto cattivo. Uno scontro solo ideologico contro false ideologie non è un cammino „certo“, ma „proselitismo“; con ragione oggi il Santo Padre Francesco all’Angelus commentando Gv 1, 35-42 (con un linguaggio davvero giussaniano) sottolinea che la prima frase di Gesù ai discepoli è una domanda, è un richiamo forte a guardarsi dentro e non a combattere ideologicamente contro false ideologie. Guardarsi dentro per trovare quella certezza di cui il nostro cuore ha bisogno e per restare in comunione con Colui che è „la via, la verità e la vita“. VSSvpM!
(1) Quanto ho scritto nel mio diario in dialogo con Newman l'ho raccolto anche in questo post: La grammattica dell'assenso di Newman - Per quanto riguarda il mio diario, ecco il link: Diario diurno
(15.1.24) Postilla capitolo primo del Senso religioso. La frase di Alexis Carrel citata da don Giussani nel „Senso religioso“ (capitolo primo: Una premessa: realismo), „Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità“ (Senso religioso, 11), che avevo criticato qualche tempo fa, è del tutto vera, se con ragionamento si intende una „inferenza logica“: questo tipo di ragionamento, che è l’inferenza logica, dice con ragione Newman, è condannato all’imprecisione (cfr. „La grammatica dell’assenso, 170), se ci riferiamo a „cose sensibili“: „nella sfera sensibile abbiamo molto più a che fare con cose che con nozioni“ (ibidem, 170). Dobbiamo però specificare di che tipo di ragionamento stiamo parlando? Una riflessione ontologica che parta dal „fatto“ (meglio atto) del dono dell’essere come amore gratuito è tanto quanto, anzi molto più precisa di qualsiasi osservazione! Quando ragioniamo possiamo farlo per ampliare la nostra conoscenza delle cose e dei fatti che non devono a noi i loro attributi“ (Newman, 170). L’atto del dono dell’essere in modo eccellente non deve a noi nulla di sé e delle proprie proprietà, ma se ci limitiamo solo all’osservazione di fatti è anche possibile un’ampliamento non della sapienza, ma di un cumulo di sapere assolutamente inutile e non amoroso. Se siamo alla ricerca di qualcosa, diciamo il pianeta Nettuno, che è l’esempio fatto da Newman, l’inferenza logica, qui nella modalità della matematica, deve sempre tener conto di un „margine di errore“; giustamente spiega Newman: „il successo (cioè l’avere trovato il pianeta Nettuno in forza di un calcolo) non sarebbe parso tanto trionfale se non ci fosse stato un rischio di insuccesso“. Insomma ripeto ciò che ho già detto nei giorni passati: un’inferenza sillogistica, matematica, giuridica, etc si muove sempre nell’ambito del verosimile, non del vero, del probabile, non del certo! Ciò non significa che il verosimile sia inutile, per l'appunto è vero-simile. Non significa che un'inferenza matematica sia inutile, eccetera. L’errore che dobbiamo evitare è quello di applicare i cosiddetti universali alle cose singole. Newman fa degli esempi molto buoni (rinvio alle pagine, 170-176). Il fatto che io faccia parte degli uomini e che si possa dire in generale che l'uomo è un animale politico, non fa di me, quel Roberto particolare, un animale politico…anche l'argomento astratto che una persona che conosca bene la matematica a livello accademico la insegni meglio a degli adolescenti di un insegnante che a livello accademico la conosca non così bene, è solo un’ astrazione, che conduce all’errore. „ Le leggi generali non sono verità intangibili; tantomeno sono cause necessarie“ (Newman, 171) - in questo senso hanno ragione sia Newman che Giussani. Ma la riflessione ontologica di cui parlavo non è l’applicazione di una teoria generale ai fatti, ma la percezione del cuore dei fatti stessi, che per l’appunto non possono essere solo osservati, ma amati. Il realismo non consiste nell’osservazioni di fatti, ma nella scoperta „intima“ direi che in ogni fatto ed in ogni persona vi è un momento di gratuità, che non è arbitrarietà, ma la traccia del dono gratuito d’amore che è la donazione dell’essere. Questa critica alla generalità astratta di Newman vale anche per le narrazioni generali. Newman fa questo esempio: „ Vediamo ad esempio questo argomento deduttivo: „L'Europa non potrà avere pace finché non saranno ridotte le ingenti forze armate dei singoli suoi paesi, perché un grande esercito mobilitabile già da solo provoca la guerra“. Qui la conclusione indica solo una probabilità, perché forse nessuno dei singoli paesi questa idea si realizza, anzi in ciascuno di essi, di fatto, certe circostanze politico o sociali possono annullare il pericolo astratto“ (Newman, 173-174). Anche la frase: „non ci sarà pace fino a quando non smetterà di produrre le armi“, è molto astratta, forse un desiderio pio, ma di fatto non si sa mai se mentre un certo paese smette di produrre armi, un altro invece le produce ancora di più. Ma per non sembrare che stia facendo una critica al Papa o al desiderio di pace - chi ha letto il mio diario sa che non l'ho mai fatto - vorrei anche dire che anche la teoria o narrazione generale che un aggressore possa essere fermato solamente con le armi, e per l'appunto solo una teoria. Che ha forse un momento di probabilità, sicuramente non di certezza. La nostra certezza consiste davvero nella „profezia della pace“, senza per questo essere degli ingenui, cioè senza ridurre la profezia in una teoria generale o in un sillogismo… Piuttosto è vero che una guerra, mai e poi mai corrisponde all’unico realismo che sia davvero reale e cristiano: quello del dono dell’essere come amore gratuito!
(17.1.24) Postilla al secondo capitolo del Senso religioso. Non mi sembra esservi dubbio, sebbene questa affermazione sia abbastanza divertente, in riferimento all’oggetto di cui parleremo, che „La grammatica dell’assenso“ sia una delle fonti delle premesse del „Senso religioso“ di Don Giussani e che per esempio nel capitolo „L’inferenza concreta“, l’esempio con l’insularità della Gran Bretagna corrisponda alla domanda che pone don Giussani, sulla dimostrabilità dell’esistenza dell’America hic et nunc: „ la capacità di mostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole non è la capacità di dimostrare“ (Giussani, „Seconda premessa. Ragionevolezza“ nel „Senso religioso“, 25). Don Giussani cita un suo dialogo con un collega: „ professore, io non sono mai stato in America, ma le posso con certezza assicurare che l'America c’è. Lo affermo con la stessa certezza con cui dico che lei si trova davanti a me in questo momento. Trova questa mia certezza ragionevole?“ (Senso religioso, 27). Il collega per la dinamica del discorso, si trova costretto a rispondere di no; commenta don Giussani: „ io ho un concetto di ragione per cui ammettere che l'America c'è senza averla mai vista può essere ragionevolissimo, al contrario di quel professore il cui concetto di ragione gli fa dire che non è ragionevole. Per me la ragione è apertura alla realtà, capacità di afferrarla e affermarla nella totalità dei suoi fattori. Per quel professore ragione è “misura“ delle cose, fenomeno che si avvera quando c'è una diretta dimostrabilità“ (Senso religioso, 28). Insomma don Giussani ha un concetto di ragione come apertura e fiducia; poi prosegue il suo discorso con la „diversità di procedimenti“; ai mi allievi lo presento così: è ragionevole se mia moglie mangia la torta che ho preparato per il suo compleanno e non sarebbe ragionevole se pretendesse una dimostrazione chimica che nella torta non vi sia alcun veleno; mentre se faccio un esperimento chimico non posso dire alla professoressa che mi fido di lei e che non è necessario che faccia parte di questo esperimento. I procedimenti della ragionevolezza sono diversi, etc. Newman si concentra sulla differenza tra inferenza logica astratta e l’inferenza non formale e procede in modo più lento di Don Giussani. La frase di don Giussani sopra citata: „ la capacità di mostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole non è la capacità di dimostrare“, è comprensibile nel suo discorso, ma forse Newman fa comprendere meglio che anche il metodo corretto con cui si affrontano quesiti concreti non si sostituisce „all’inferenza logica, ma fa con essa un tutt’uno“ (Newman, La grammatica dell’assenso, 179). Probabilmente nelle sue esposizioni sulla „diversità di procedimenti“ (Senso religioso, 28-29),don Giussani dice la stessa cosa, ma parlando in dialogo con studenti del liceo e non facendo un ragionamento „universitario“ forse mette in evidenza troppo velocemente la soluzione del problema, rinviando all’apertura della ragione e alla fiducia. In questi anni direi che senza l’aiuto di don Giussani non avrei avuto il coraggio di affrontare alcuni argomenti con i ragazzi a scuola, ma allo stesso tempo il lento procedere di Newman corrisponde di più alla mia sete filosofica. Gli esempi che fa Newman riguardanti il presente, il passato e il futuro (l’insularità della Gran Bretagna, l’esistenza di alcuni autori classici e la domanda: „ quali ragioni mi rendono sicuro che io, proprio io, morirò?“ (Newman, 183) mi sembra che permettano al santo inglese di insistere sulla probabilità delle inferenze logiche, una probabilità ben necessaria, ma che non può mai sostituire il „buon senso“; Newman come Giussani vogliono con tutte le forze evitare che ci vengano date „parole invece di cose“ (Newman 183). È da buon inglese Newman cerca di evitare „quello che Locke chiama un surplusage, un eccesso delle credenze sulle prove. Però, dove fallisce la logica riesce il mio pensiero naturale, il mio buon senso - cioè il modo sano in cui funziona la mia mente (anche se non sono in grado di tradurlo in parole adeguate: sicché (per quanto riguarda il terzo esempio) io rimango nella convinzione più precisa, più piena, che un giorno morirò“ (Newman, 184); e questo vale anche per il mio essere nato, etc. Non vi è alcuna contraddizione tra Giussani e Newman, forse solo nella lentezza dell’argomentare del secondo, che mi permette di approfondire più precisamente la questione della certezza, che non è una questione di „pertinenza della logica statistica“ (184), che non è riducibile alla sola inferenza logica, ma suppone una „correlazione tra certezza e prova implicita“ (cosa che don Giussani ben sa!). Mi sembra insomma che Newman mi aiuti ancor meglio a non mettermi sotto lo stress di dover dire con delle parole, ciò che le parole non permettono, tanto meno permettono esse un passo continuo e senza salto tra la certezza e la fiducia che c’è l’America e la certezza del cielo. Parlando della possibile conversione di un protestante al cattolicesimo, Newman dice con ragione, che ciò sia impossibile con un argomentare logico o sillogistico, ma lo diventa possibile con un „atto rapido ed illuminato“ (Newman, 179), che non ha bisogno necessariamente di essere espresso in parole…
(18.1.24) Postilla al capitolo sesto e settimo del „Senso religioso“ di don Giussani, che portano uno stesso titolo, ma con una differenziazione: „Atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo“. Il sesto nel senso dello „svuotamento della domanda“ e il settimo nel senso della „riduzione della domanda“. Una prima nota in generale mi sembra essere questa: Don Giussani non si sente al di sopra delle tentazioni, ma sa che esse potrebbero essere anche le sue. „„Nihil humani a me alienum puto“: non ritengo che non possa accadere anche a me una cosa che sia accaduta ad un altro uomo“ (83). Senza questa posizione questo grande lavoro di discernimento sarebbe infine solo fanatismo integralista; non è così. Una seconda nota, che ho cercato di spiegare oggi ai miei ragazzi nel corso di filosofia: c’è un fuoco che dobbiamo „custodire“ e senza il quale abbiamo a che fare con l’abolizione dell’uomo stesso. Ed anche se un carattere e diverso da un altro e non tutti hanno la modalità del fuoco del sacerdote lombardo, questo lavoro di discernimento va fatto (Ulrich lo fa ad un livello filosofico per tutto l’“Homo abyssus“; io sono meno convinto di don Giussani che si possano tenere presenti „tutti“ i fattori, ma dobbiamo averne almeno la disponibilità (ci è difficile comprendere anche solo tutti i fattori coinvolti in una mosca). Quali sono le posizioni che don Giussani con ragione ritiene „irragionevoli“? 1) La negazione teoretica delle domande ultime, perché non servirebbero alla „ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti“ (85).2) La sostituzione volontaristica delle domande ultime, che hanno una tensione all’infinito, „per mettersi in adorazione davanti all’altare costruito con le sue stesse mani“ (Russel, citato alla pagina 88). Una frase simile si trova anche nello „Spirito dell’utopia“ di Ernst Bloch. 3) La negazione pratica delle domande ultime, non per mezzo di teorie, ma di anestetici (alcool, droga sono gli esempi del Gius; io aggiungerei le chiacchiere nei social media e nella realtà offline). Le prime tre posizioni irragionevoli sono riassunte con la parola „svuotamento“. 4) L’evasione estetica o sentimentale come riduzione dell’impeto del cuore in uno sdegno che si perde nel vento (97). 5) La negazione disperata; qui Giussani ci vede la posizione più seria e cita l’ossessione di Adorno: „ossessione che dalle figure dell’apparenza emerga la salvezza“ (100); „Quello che Adorno chiama „ossessione“ (anche per la fedeltà come dice nell’aforisma sulla „costanza“ in Minima Moralia; Giussani cita un altro aforisma da questa raccolta; RG) è la struttura dell’uomo, è quello che chiamavamo „cuore““ (100). Il confronto serrato di don Giussani con grandi poeti del passato e del nostro tempo è impressionante. 6) L’alienazione provocata dal potere e dall’ideologia che Giussani riassume così: evoluzione del progresso vs originalità irriducibile della persona umana e delle sue domande (104). Una voce autorevole contro questa tendenza che mi ha fatto anche ridere per il suo umorismo è quella di Churchill: „ Il decano di studi umanistici, parla con venerazione dell'abilità scientifica che sta avvicinandosi al controllo dei pensieri umani con precisione. Io sarò assai contento, prima che ciò accada, di essere morto“ (107). La posizione più irrazionale di tutte, ad un livello ontologico, ha a che fare con il rifiuto teorico e/o pratico della rilevanza e dell’atto stesso del dono dell’essere come amore gratuito, rifiuto che porta necessariamente al nichilismo nelle sue diverse forme e che Giussani esplicita nelle sei posizioni di cui sopra.
(21.1.24) Postilla l capitolo 8, 1 „Conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli“; „La rottura con il passato“. Come anche nell’Homo Abyssus Ulrich, così Giussani nel „Senso religioso“, si confrontano con le dimensioni del passato, del presente e del futuro; Giussani cita la letteratura cinese „ a cavallo tra l’ottavo e il nono secolo“ ed uno „scrittore del Samizdat, cioè della letteratura clandestina sovietica“. La tesi del capitolo è chiarissima (e corrisponde a ciò che dice Ulrich nell’Homo Abyssus): „ la mia libertà (è) sempre un presente. Ma il contenuto è nel passato, la ricchezza è nel passato. Quanto più uno è potente come personalità, tanto più è capace di recuperare tutto il passato“ (113). Le preoccupazioni sono espresse dal saggio cinese citato in questo modo: „oggi quelli che pretendono di (innovare) rigettano lo Stato e la famiglia, e aboliscono le relazioni naturali, di modo che il figlio non rispetta più il padre, il suddito non si sottomette più (alla legge)… Ma allora che cosa bisogna fare?… Bisogna che gli uomini agiscono da veri uomini… e siano (nuovamente) istruiti nella dottrina (antica). Speriamo che così sia“.
(22.1.24) Seconda postilla al capitolo ottavo del „Senso religioso“, „Conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo“. Due di queste conseguenze sono l’incomunicabilità e la solitudine. Posso confermare, dopo 30 anni di insegnamento, ciò che scrive don Giussani: „La vecchiaia a vent’ anni ed anche prima, la vecchiaia a quindici anni, questa è la caratteristica del mondo di oggi“ (116). In questa vecchiaia si sveglia l’istinto sessuale che da a volte la sensazione di essere giovani, ma mancando quell’esperienza che nasce da una memoria, diventa difficile dialogare come persone; il legame che si istaura con qualcuno - cosa di per sé miracolosa - è piuttosto „reattivo“, il suo eros con il tuo, essendo però il contesto di questa reazione, „le forze più incontrollate dell’istinto e del potere“ ( 117) è difficile, anche se non impossibile arrivare ad un vero e proprio dialogo. Vedo che non c’è un grande interesse, a parte qualche eccezione, ad un vero dialogo tra le generazioni (sto parlando della mia vita, non della vita di altri). Il problema si incentiva quando non riguarda solo individui, ma tutto un popolo. Il motivo per cui io a partire da un certo punto ho smesso di fare polemiche contro il passato della DDR, delle persone che vivono accanto a me o che non partecipo allo sdegno contro la AfD è perché ho la sensazione che ciò contribuirebbe solamente a „disintegrare“ quel poco di „memoria“ che hanno le persone intorno a me. Ed ad aumentare la loro solitudine! - Ho ritrovato in questo capitolo una frase a me molto cara, che ho spesso usato in questi vent’anni nella diaspora; molti colleghi legano la mia persona al motto: „sguardo della totale simpatia“, ma in vero Pavese non dice „sguardo“, ma „giorno“ „Un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo“ (Pavese, citato da don Giussani, 117) - ci serviamo degli altri, non facciamo credito a loro di un giorno di simpatia totale, non solo di uno sguardo di simpatia totale, ma del tempo, un giorno di simpatia totale, senza pensare „so come sei fatto“. In questi giorni sto lavorando tanto per andare a scuola con gioia e non come un dovere, aspettando il fine settimana e poi la pensione…questo è il mio „peccato“ più grande, che è anche una mancanza di fiducia nello Spirito Santo! VSSvpM!
(22.1.24) C’è una frase di Tommaso d’Aquino che riassume il percorso filosofico di Ferdinand Ulrich, ma anche l’intuizione ultima del „Senso religioso“ di don Giussani: „Cum autem in re sit quidditas eius et suum esse, veritas fundatur in esse rei magis quam in quidditate, sicut et nomen entis ab esse imponitur; et in ipsa operatione intellectus accipientis esse rei sicut est, per quandam simulationem ad ipsum, completur relatio adaequationis in qua consistit ratio veritatis. Unde dico, quod ipsum esse rei est causa veritatis, secundum quod est in cognitione intellectus“ (1. S. 19. 5. 1)“ (citata da Ulrich in „Homo Abyssus“, 436-437). Ne offro qui una traduzione approssimativa: "Ma quando la quidditas di una cosa coincide con il suo essere, la verità si basa sull'esistenza della cosa più che sulla sua quidditas, così come il nome di 'ente' viene attribuito dall'essere stesso. Nell'atto stesso dell'intelletto che riceve l'essere della cosa così com'è, si completa una relazione di adeguatezza attraverso una sorta di simulazione verso di esso. È in questa relazione di adeguatezza che risiede la natura della verità. Perciò, dico che l'esistenza stessa della cosa è la causa della verità, nella misura in cui è nella conoscenza dell’intelletto.“. Ci siamo così abituati, anche nel modo con cui ci esprimiamo, a parlare dell’essenza (quidditas) delle cose che abbiamo perso di vista il fatto che l’essere si dona gratuitamente come amore nella piccola via del quotidiano, non nelle cose essenziali; il grande lavoro di discernimento consiste nel non confondere questo movimento di finitizzazione dell’essere nelle sostanze, nella realtà, come una prigionia nelle cose stesse, cioè in un’esperienza priva di memoria (che è poi la riduzione dell’esperienza ad un provare le cose), per usare il linguaggio di Don Giussani nel capitolo ottavo del „Senso religioso“.
(11.2.24) (Pomeriggio) Leggo nel giorno dell’anniversario della morte di Ulrich (il suo dies natalis lo ha chiamato padre Servais in due righe grate, che mi ha appena scritto, in risposta a ciò che gli avevo mandato ieri) le pagine di don Giussani, intitolate: „Perdita della libertà“, nell’ultimo paragrafo del capitolo ottavo del „Senso religioso“: „Conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo“. Nel linguaggio filosofico di Ulrich ciò che esprime don Giussani si può esprimere con questa domanda: è possibile nell’esperienza la sovraessenzialità? Cioè una dimensione che sia „sovra“ l’essenza delle cose, cose come viene presentata dal potere dominante? È possibile la libertà o siamo solamente espressioni biologiche, sociologiche o psicologiche del reale? Certo sarebbe necessario precisare cosa sia l’istinto e cosa sia il potere; Giussani ci vede una parentela: „ho terminato (il paragrafo precedente; rg) dicendo che l'individuo resta in balia delle forze più incontrollate dell'istinto e del potere: è la scomparsa della libertà“ (118). Nel linguaggio di Giussani l’incontrollato non è solo qualcosa di negativo, come in questa frase; per esempio dice anche che ci può salvare solamente un imprevisto ed un imprevisto è per l’appunto incontrollato. Comunque anche prima di queste precisazioni (cosa sia l’istinto e cosa sia il potere), possiamo prendere come ipotesi di lavoro questa affermazione: la mentalità comune porta all’alienazione totale (cf. 118). „Che cosa sia l'amore tra l'uomo e la donna, che cosa sia la paternità, la maternità, che cosa sia l'obbedienza, la compagnia, la solidarietà e l'amicizia, che cosa sia la libertà, tutto ciò genera nella maggioranza della gente un'immagine o un'opinione o una definizione mutuata letteralmente dalla mentalità comune, vale a dire dal potere“ (118). Giussani fa una critica radicale all’ideologia, come „una concezione totalizzante dell’uomo favorita dal potere“ (124). E in questo contesto afferma che non vi è differenza tra Hitler o Stalin (cf. 121). Ed io direi in dialogo con Matt Crawford che la „revolutionary mindset“, a partire dalla Rivoluzione francese fino alle rivoluzioni antropologiche dei nostri giorni, propongono un’ultima forma, postmoderna, di „concezione totalizzante dell’uomo“ nel senso della negazione di tutto ciò che è ovvio, come la differenza tra uomo e donna, o come vittimismo delle minoranze che vogliono essere uguali alle maggioranze. Ciò non toglie che anche in questo contesto Dio sia „vicinanza, tenerezza e misericordia“ (lo ha ripetuto il Papa all’Angelus per l’ennesima volta), e questo vale anche per le minoranze, per le vittime reali e per quelle che si presuppongono tali, ma mai e poi mai la dottrina sociale cattolica potrà conciliarsi con lobbies del potere, che riducono gli uomini in „tipi“ - l’essere uomo o donna non è una tipologia, ma un’esperienza elementare! Quando Giussani dice con un certo orgoglio: „ Solo la Chiesa nella sua tradizione difende il valore assoluto della persona, dal primo istante del suo concepimento fino all'ultimo momento della sua vecchiaia, anche decrepita ed inutile: in base a che? Come fa l'uomo ad avere questo diritto, questa assolutezza, per cui, anche se il mondo si spostasse, egli ha in sé qualcosa che gli dà il diritto di non spostarsi? Ha dentro qualcosa per cui può giudicare il mondo da cui nasce“ (122), dicevo quando don Giussani scrisse questa frase, vera, non aveva potuto tenere conto della situazione in cui ci troviamo oggi e cioè una situazione in cui la Chiesa stessa, sociologicamente e psicologicamente parlando, ha perso in credibilità, perché lei stessa ha ceduto alla mentalità dominante e corrotta. Grazie a Dio sono stato educato dai miei maestri a non vedere una Chiesa che indichi se stessa come verità, ma che indica Dio come verità assoluta e nel capitolo su cui stiamo riflettendo Giussani dice che possiamo avere un contatto diretto con l’infinito; quante volte Ulrich ha citato la frase di Tommaso: „non est aliquid inter Deum et creaturas“. E quindi il paradosso salvifico di cui parla don Giussani vale anche oggi: „la libertà è la dipendenza da Dio. È un paradosso, ma chiarissimo. L'uomo - l'uomo concreto, io, tu - non c'era, ora c’è, domani non sarà più: dunque dipende o dal flusso dei suoi antecedenti materiali, ed è schiavo del potere; o dipende da ciò che sta all'origine del flusso delle cose, oltre esse, cioè da Dio“ (123). Quelli che don Giussani chiama gli „antecedenti materiali“ non possono essere completamente tolti; per questo motivo trovo la sfida di Ulrich: cercare la sovraessenzialità non nell’essenza delle cose, ma nella materialità delle stesse, di vitale importanza (come lo è l’insistere di don Giussani sull’esperienza). E quando andiamo a sbattere con il naso contro gli „antecedenti materiali“ (l’inconscio personale e collettivo è la dimensione perversa di essi), dobbiamo riprenderci: Gesù non si stanca mai di perdonarci, noi ci stanchiamo di chiedere perdono. E Gesù stesso, come ho fatto notare nella meditazione mattutina di ieri nel mio diario (10.2.24) è molto realista: sa che non si può mandare una folla a casa senza mangiare, perché svenirebbe. Don Giussani coglie un aspetto molto importante dell’esperienza, quando collega la libertà al desiderio: „noi ci sentiamo liberi per la soddisfazione di un desiderio“ (119). A livello sessuale si dovrà tener conto che sia il pudore che l’istinto sessuale sono forme in cui si esprime il desiderio di libertà e di superamento dell’angoscia di vivere. La soddisfazione „sovraessenziale“ (Giussani la chiama „totale“) è la meta: „ seguendo l'indicazione dell'esperienza, e chiaro che la libertà si presenta a noi come la soddisfazione totale, il compimento totale dell'io, della persona o come la perfezione“ (119). Una persona come Etty Hillesum, che davvero non ha smesso di credere nell’amore di Dio, neppure quando il destino si è fatto oscuro, mi ha insegnato ad essere più realista dei miei maestri sacerdoti, che a volte sono un po’ troppo idealisti. Infine il laico Ulrich mi ha fatto comprendere come esperienza quello che Tagore esprime nella poesia che don Giussani cita alla fine del capitolo: „ il tuo amore {mio Dio} è più grande del loro {dei potenti}, eppure mi lasci libero… non ti tengo nel mio cuore eppure il tuo amore per me ancora attende il mio amore“. Mai ho fatto esperienza del lasciar-essere dell’amore come nell’incontro con Ulrich, che non ha caso è stato il maestro che più ha convinto mia moglie…
(18.2.24) Postilla al capitolo quarto del „Senso religioso“. Prima parte, 51-58. „Noi siamo fatti per la verità, intendendo per verità la corrispondenza tra coscienza e realtà“ (Giussani, opera citata, 51). Spesso ci muoviamo, mentre ragioniamo, nell’ambito della verosimiglianza e non della verità. Tutti i temi che si possono trovare in una pagina culturale di un qualsivoglia giornale, riguardano la verosimiglianza (Cicerone). La verità riguarda solamente quell’esperienza elementare che Giussani chiama „senso religioso“. Si tratta di un’esperienza il cui punto di partenza siamo noi stessi (cf. 52). „Partire da se stessi“ può anche diventare una frase ambigua, che ha a che fare piuttosto con le idee correnti e l’ideologia dominante! „Partire da se stessi“ non ha nulla a che fare con l’incontro utopico con se stessi (Bloch), che, come mi scrisse una volta Balthasar in una lettera, potrebbe essere anche l’inferno! „Partire da se stessi“ non ha neppure nulla a che fare con il farsi qualcosa di buono (Anselm Grün), che è in vero un po’ come consigliare a qualcuno di masturbarsi. Quest’ultima cosa può essere un’esigenza del corpo e della psiche, ma dobbiamo guardarci dal venderla come un consiglio spirituale o evangelico. „Partire da se stessi“ vuol dire fare un lavoro con il nostro io in azione, in paragone con la propria tradizione (che per la nostra regione qui in Sassonia- Anhalt dove scrivo è quella comunista e quella luterana; solo per una piccolissima minoranza è quella cattolica) e ancor più con il proprio presente, in forza „di un principio critico che sta dentro di noi, nativo, perché dato originalmente, l’esperienza elementare“ (56). Si tratta di fare un lavoro serio con quel momento per noi di importanza vitale che è il nostro io, ora presente, anche se in dialogo con ciò che hanno pensato, sentito e voluto i nostri padri, nel senso della frase di Goethe citata da don Giussani addirittura in tedesco e che è stata il titolo di un Meeting di Rimini: „quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo“ (56). Questo grande lavoro con se stessi dovrebbe impedire di cadere nelle maglie della mentalità dominante, del mainstream, ma purtroppo è davvero raro incontrare persone, anche nel Movimento, che siano davvero libere; basta pensare a come recepiscono in queste ore l’idea che solo Putin è causa della morte di Navalny (morte che mi ha rattristato tanto, perché fa male sentire il suo destino di solitudine e penso con dolore anche a sua moglie, ma come mi rattrista anche il destino di Assange). Le reazioni dei ciellini nei confronti della guerra in Ucraina ed anche della morte di Navalny rivelano solo una sviscerata dipendenza dalla mentalità dominante; non dico che qualcuno non sia davvero triste per la morte di questo uomo eroico (Navalny), ma dico solo che gli schemi ricettivi ed ermeneutici dei miei confratelli e delle mie consorelle sono del tutto dipendenti da ciò che il mainstream ritiene doloroso. E la tradizione e i padri a cui ci si riferiscono non hanno minimante a che fare con quella „vita intera“ e che non dimentica nulla di cui parla don Giussani: „il senso religioso è l'impegno con la „vita intera“, nella quale tutto va compreso: amore, studio, politica, denaro fino al cibo e al riposo, senza nulla dimenticare, né l'amicizia, né la speranza, né il perdono, né la rabbia, né la pazienza. Dentro infatti ogni gesto sta il passo verso il proprio destino“ (55). Per dirlo con una punta polemica, sebbene io ami più Navalny che Putin, quest’ultimo ha un senso della frase di Goethe sull’eredità dei padri, come si vede nell’intervista con Tucker Carlson, infinitamente più grande di tante sorelle e fratelli di CL. „Was du ererbt von deinen Väter hast, erwirb es, um es zu besitzen“ (Goethe, citato da Giussani, 56). VSSvpM!
(25.2.24) Postilla del capitolo quinto del „Senso religioso“ di don Giussani, „Il senso religioso. Sua natura“; Don Giussani riassume i passi precedenti in questo modo, lo cito perché io non avevo commentato nel post sul libro (lo avevo fatto solo en passant nel diario) la seconda parte del capitolo quarto. „Abbiamo già motivato che dal punto di vista metodologico la partenza per un'indagine, come quella che ci interessa, è dalla propria esperienza, da se-stessi-in-azione. Abbiamo evidenziato con una iniziale riflessione i fattori in gioco nella nostra esperienza che ci hanno mostrato la non univocità del composto umano, perciò l'aspetto materiale e spirituale della nostra vita. Ora osserviamo il fattore religioso come l'aspetto fondamentale del fattore spirituale“ (edizione italiana citata, 65). Nella mia nota en passant nel diario avevo notato che a me questa non univocità, che sarà certamente interpretata come fattore moderno in Giussani, mi sembrava non chiara e che alimentava in me il sospetto di un dualismo fatale, ma avevo anche sottolineato che l’esempio di don Giussani stesso, con Benedetti Michelangeli e il pianoforte, faceva vedere, al contrario e per me in modo soddisfacente, come materia e spirito si appartengano. Comunque sia trovo molto bello il modo con cui Giussani parla della natura del senso religioso, citando in primo luogo poeti e tra loro in primo luogo il grande Giacomo Leopardi, con il suo linguaggio inimitabile, così che se ne riconosce subito lo stile. Il senso religioso viene proposto come la domanda ultima sul senso totale del reale, dapprima appunto come domanda e poi come risposta: „di che cosa e per che cosa è fatta la realtà?“ (65). L’impegno con questa domanda per Giussani è un impegno con l’esperienza e con la quotidianità, „come radicale impegno del nostro io con la vita“ (65), alla ricerca del „significato del tutto“ (68) e che Leopardi esprime con la famosa domanda: „Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren?che vuol dire questa / Solitudine immensa? ed io che sono?“ (Citato in ib. 66). „In tutte le letterature del mondo si trova questo „tao“ (per usare la parola di Lewis, usata più nel senso di norme universale etiche) ontologico! Credo che non sarebbe difficile trovare una citazione adeguata in Hölderlin…Giussani afferma che questa domanda è inestirpabile, e sarei davvero interessato a sapere se la „macchina“ (Paul Kingsnorth) non sia in fondo capace a sostituirsi alla domanda stessa…che è poi, questa sostituzione, il grande problema dell’assolutizzazione del paradigma tecnico, che ci fa dimenticare che l’uomo è fatto per la pace, per il rispetto della sua casa comune e dei poveri (Papa Francesco)…e con la pace, la natura e i poveri ci fa dimenticare quell’esperienza ultima di povertà e mendicanza che si esprime nella domanda: ed io che sono? Da questa domanda nasce anche un’ultima vicinanza e misericordia per tutte le sorelle e tutti i fratelli uomini, ed anche per chi è in ricerca della propria identità di gender, che sanno di dover morire e che cercano di dimenticare la domanda inestirpabile, „il pensiero dominante“ (nel senso di Leopardi): „gli altri pensieri miei / Tutti si dileguàr. Siccome torre / In solitario campo, / Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei“ (la mia mente). È chiaro che con la filosofia dell’essere come atto di amore gratuito Ulrich cerchi di dare una risposta all’esigenza totale che esprime Don Giussani!
(3.3.24) Nel „Senso religioso“ Giussani cita questi versi da una poesia famosa di Leopardi (SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA): „Desiderii infiniti / E visioni altere / Crea nel vago pensiere, /Per natural virtù, dotto concento; / Onde per mar delizioso, arcano / Erra lo spirito umano; / Quasi come a diporto / Ardito notator per l’Oceano: /Ma se un discorde accento / Fere l’orecchio, in nulla / Torna quel paradiso in un momento./ Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, /Se polve ed ombra sei, tant’alto senti? / Se in parte anco gentile, /Come i più degni tuoi moti e pensieri / Son così di leggeri / Da sì basse cagioni e desti e spenti?“; questi stessi versi tradotti in un italiano più semplice: "Desideri senza fine / E grandi aspirazioni/ Nel nostro vago pensiero / Sorgono spontaneamente, Portando la mente umana / Verso mondi di bellezza e conoscenza, / Come una nave che solca / Le acque misteriose dell’oceano./ Ma se un suono sgradevole / Colpisce l'orecchio, tutto /Questo splendore svanisce all’istante {io avevo capito il contrario}. / O natura umana, come mai / Sei così sensibile e elevata, / Se sei così fragile e insignificante, / Se sei solo polvere e ombra? Se sei anche gentile in parte, / Perché i tuoi pensieri più nobili / Possono essere così facilmente influenzati / Da cose così banali e insignificanti?“ (Chatgpt). Per quanto riguarda l’espressione: „dotto concetto“, ho trovato questa spiegazione: „L'espressione "dotto concento" si riferisce a un accordo o una concordanza che è risultato dalla saggezza o dalla conoscenza acquisita. In questo contesto, indica che le "visioni altere" e i "desiderii infiniti" creati nel vago pensiero sono il risultato di un accordo o una concordanza che nascono dalla conoscenza naturale o dalla virtù intellettuale. Don Giussani cita questi versi per far comprendere quella contraddizione che siamo noi uomini: „il mistero eterno dell’essere nostro“. Anche se il linguaggio poetico di Leopardi è molto bello, mi aveva più aiutato, perché l’ho compreso meglio, il passaggio citato dai „Pensieri“: „il non poter essere sodisfatto da alcuna cosa terrena…e sempre accusare le cose d’insufficienza e nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana“ (Leopardi, citato in „Senso religioso, 69). Giussani cita il passaggio per spiegare „la sproporzione alla risposta totale“. Quindi i due punti di questo paragrafo del „Senso religioso“ (5,5) sono la contraddizione e la sproporzione umana al cospetto del „Mistero“. La frase più geniale è secondo me: „accusare le cose d’insufficienza e nullità“ e poi il pensiero della „noia“. Chatgpt spiega: „In questo passaggio, Leopardi sta riflettendo sul fatto che l'essere umano non può mai essere pienamente soddisfatto da nulla di terreno o materiale. Anzi, tendiamo a percepire le cose come insufficienti e prive di significato, portando così a un senso di vuoto e insoddisfazione, che lui chiama „noia". Per Leopardi, questo senso di noia è un segno di grandezza e nobiltà nella natura umana, perché suggerisce una ricerca di qualcosa di più elevato, di più significativo, al di là delle semplici soddisfazioni materiali. La noia diventa quindi un'indicazione del desiderio umano per qualcosa di più profondo e significativo, oltre alla soddisfazione dei bisogni materiali. In questo senso, Leopardi interpreta la noia come un sintomo di aspirazioni più elevate e di una ricerca di senso e significato nella vita“. Un senso minacciato dal „nulla“, che qui (a differenza di Ulrich) ha solo una connotazione del tutto nichilistica: l’insufficienza e la nullità delle cose terrene; il „senso religioso in Leopardi non viene acquietato neppure dalla vastità del cosmo: „ immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che si fatto universo“. VSSvpM!
(10.3.24) (Scuola di comunità con don Giussani) Chi come don Gussani usa espressioni come „violenza del potere“ (Senso religioso, V,6) non può essere ridotto ad un pensatore ed educatore con un „buon senso borghese“ o „senso equilibrato“ (Renato); e quando don Giussani parla della „violenza del potere“ non ha solo in mente le autocrazie, ma ogni società, anche democratica, in cui „la filosofia diventa ideologia“. „Una società ideologica infatti tende a congelare ogni vera ricerca: usa il potere che detiene come strumento per contenere tale ricerca entro certi limiti di realizzazione e di manifestazione. Una dittatura non ha mai interesse che la ricerca sull'uomo sia libera, perché una ricerca libera sull'uomo è il limite più pericoloso al potere, e sorgente incontrollabile di possibilità di opposizione“ (SR, 72). Ovviamente questo vale anche per le autocrazie e forse in modo particolare per loro, ma a me interessa di più quando la nostra società democratica diventa „ideologica“; per questo cito autori che criticano la „macchina“ (il paradigma tecnocratico) come Paul Kingsnorth o che fanno vedere che il „modello cinese“, tecnocratico e burocratico, sta diventando sempre di più la nostra narrazione unica del mondo, come N.S. Lyons. Il filosofo che amo di più, Ferdinand Ulrich, ha compreso come nessun’altro e non solo filosoficamente l’invito all’umiltà di don Giussani: „la filosofia deve avere l'umiltà profonda di essere tentativo tutto spalancato e desideroso di adeguamento, compimento, correzione: deve essere dominata dalla categoria della possibilità“ (72). Il dono dell’essere come amore gratuito genera la possibilità, proprio perché non è controllabile da nessun potere, neppure da un potere ecclesiastico. Il contesto in cui don Gussani dice queste cose è il tema della „sproporzione strutturale“ che c’è tra la nostra domanda di senso e le risposte; Giussani argomenta con poeti (Rilke, Leopardi) e scienziati (Francesco Severi, Albert Einstein). Cerca di contrastare ogni „progetto di potere“ ed interesse solo egoistico. „Una società ideologica tende a congelare ogni vera ricerca“ (72) ed in primo luogo questa ricerca strutturale di cui parla il sacerdote lombardo. „L’inesauribilità delle risposte alle esigenze costitutive del nostro io è strutturale“ (70) - e le risposte del paradigma tecnocratico (Jets e satelliti) non sono la risposta di don Giussani. L'altro giorno cercando di spiegare le difficoltà strutturali dell'uomo per arrivare alla felicità, stavo spiegando Aristotele, ho cercato di far comprendere che quando si scambiano i mezzi con i fini, come fa in continuazione la società della macchina, allora non è solo una questione accidentale che una certa capacità tecnica e scientifica non ci doni la felicità, ma è una questione strutturale. Per Aristotele l’uomo è felice quando può occuparsi con tutto se stesso del fine e non si accontenta di certi mezzi per ottenerlo; Giussani fa un passo oltre e ci fa vedere che il fine stesso è strutturalmente non raggiungibile dall’uomo, perché questo fine è un „insondabile mistero“…
(17.3.24) Scuola di comunità con don Giussani. Il capitolo V, 6 sulla „tristezza“ mi corrisponde profondamente. Mi sembrano due gli aspetti determinanti. Uno storico-politico, l’altro ontologico, l’uno si inserisce nell’altro. 1) Alla presunzione del potere, carica di censure e di rinnegamenti, corrisponde nel singolo, nell’uomo reale, la grande tristezza, carattere fondamentale della vita consapevole di sé, „desiderio di un bene assente“, diceva San Tommaso“ (72-73, edizione citata). „La presunzione del potere non è solo quella autocratica, che oggi si esprime nelle pseudo elezioni russe. „Censure e rinnegamenti“ sono proprie anche alla nostra società democratica, che „sdogana la guerra“ (copyright: Banfi). 2) Il secondo aspetto già accennato dalla frase di Tommaso, viene approfondito da don Giussani con scrittori e poeti (Rebora, Dostoevskij, Leopardi). Nel senso della parola „Schwebe“ come la usa Balthasar, non come la usa Ulrich, per il quale è una questione di sospensione ontologica astratta del movimento di finitizzazione del dono dell’essere nel quotidiano. Per Balthasar indica un movimento transitorio, non astratto, che Rebora esprime nei versi: „mentre ciascuno si afferra a un suo bene che gli grida: addio“ (73); e che Leopardi esprime nel verso: „A pensare come tutto al mondo passa, / E quasi orma non lascia…“. Ciò che prometteva un senso fugge e provoca una tristezza buona, piena di senso. Giussani la esprime come una „„differenza potenziale“ tra la destinazione ideale e l’incompiutezza storica“ (74) - questa era la mia intuizione per un dottorato di ricerca su Balthasar da Robert Spaemann agli inizi degli anni 90, ma non ero ancora maturo filosoficamente per farla e Spaemann è un grande ma non in questa dimensione della transitorietà: un’etica ha bisogno giustamente, di valori che durano nel tempo. Infine molto bella in Giussani è l’opposizione logica tra tristezza e disperazione. Il cristiano non può essere disperato, perché il nemico è vinto!
(5.4.23) La „molteplicità delle scienze speciali“ di cui parlano Max Scheler (La posizione dell'uomo nel cosmo) e Ernst Cassirer (Tentativo sull'uomo) sono la quotidianità di chi si trova a lavorare in una scuola, in cui per l’appunto si insegnano ai ragazzi una molteplicità di materie, che derivano da quelle scienze speciali. Chi ha vissuto una vita in una „scuola cristiana“ si sarà certamente chiesto come affrontare i problemi (non solo i vantaggi) che nascano da una tale molteplicità. Le premesse del „Senso religioso“ di don Giussani offrono una proposta pedagogica per affrontarla. Cristo viene poi proposto come Colui in cui è possibile integrare anche questa molteplicità scientifica; ed ovviamente in un senso molto generale il Logos universale e concreto che è Cristo è capace di integrare il tutto delle scienze, ma noi non possiamo dedurne un’idea unitaria „astratta“ capace di essere normativa nei diversi ambiti del sapere. Io mi limito a sottolineare che la molteplicità dei metodi è una cosa buona e che solo così è possibile giungere ad un sapere differenziato, ma ovviamente questa non è ancora la risposta unitaria ricercata da Cassirer. La TL I di Balthasar offre anche un tentativo di pensare il mondo unitariamente ripercorrendo l’intimità propria a tutti i livelli del reale, dalla pietra all’uomo…
(7.4.24) (Nota sul capitolo V,7 „La natura dell’io come promessa“ nel „Senso religioso“ di Don Giussani) Dapprima vorrei sottolineare che Giussani dialoga seriamente con un comunista come Cesare Pavesi, come io dialogo seriamente con un marxista (materialista dialettico) come Slavoj Žižek. Forse questo dialogo è più complesso perché Pavese vede il dramma in riferimento al proprio io, mentre Žižek lo vede in riferimento all’essere stesso. „Chi ringraziare, chi bestemmiare il giorno che tutto finirà?“ si chiede Pavese; in cui la gioia che non si calcola, ma viene donata, finirà? Il buco radicale che vede Žižek è nell’essere stesso, non solo nella coscienza di esso. Pavese scrive: „Ciò che l’uomo cerca nel piacere è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questo infinito“. Žižek sa invece che il sesso (diciamo un piacere forse ancora più intenso che vincere il premio Strega), non può che mancare l’assoluto. Giussani dice che nella morte la domanda dell’uomo, la sua natura come promessa „trova la contraddizione più potente e sfrontata“, ma aggiunge: „questa contraddizione non toglie, bensì esaspera la domanda… quando un'energia è tesa, se trova un ostacolo si tende ulteriormente, non si smonta“; questa è la differenza tra una scimmia ed un uomo nel vivere il desiderio sessuale: nella scimmia l'energia si smonta molto velocemente, mentre nell'uomo no. Quanto Žižek dice a riguardo del sesso vale ovviamente anche per la struttura della promessa in generale. È interessante come il marxista Žižek e il sacerdote cattolico Giussani abbiano entrambi un senso per l’esasperazione della domanda „come l’impatto di una corsa contro il muro“…
(21.4.24) Note di scuola di comunità. Senso religioso, V, 8. Don Giussani è interessato a tracce di un „ardore radicale“, che trova in Thomas Mann e Cesare Pavese; tracce del senso religione come dimensione umana che il sacerdote lombardo cerca in autori non autoreferenziali per un cattolico. Cerca „il punto infiammato“ (Cesare Pavese) nelle persone, si lascia interrogare da posizioni che non sono immediatamente la sua come nel caso del filosofo americano Whitehead, che afferma che la „domanda ultima è costituiva dell’individuo“; don Giussani non lo mette in dubbio, ma sa che c’è ancora qualcosa d’altro: „la la religione è sì ciò che l'uomo fa nella solitudine, ma anche ciò in cui scopre la sua essenziale {userei piuttosto la parola „elementare“, invece che „essenziale“; rg} compagnia. Tale compagnia è poi più originale della solitudine, in quanto quella struttura di domanda non è generata da un mio volere, mi è data. Perciò prima della solitudine sta la compagnia, che abbraccia la mia solitudine per cui essa non è più vera solitudine, ma grido di richiamo alla compagnia nascosta“ (Senso religioso, 79); si tratta della compagnia offertaci da chi dona l’essere come amore gratuito e che trova nella compagnia umana una sua immagine, ma per l’appunto un’immagine, immagine del Deus absconditus (Pascal), che Giussani esprime con una poesia di una poetessa, Pär Lagerkvist: „uno sconosciuto è il mio amico / uno che io non conosco./ uno sconosciuto lontano lontano. / per lui il mio cuore è pieno di nostalgia./ perché egli non è presso di me. / perché forse non esiste affatto? / chi sei tu che colmi il mio / cuore della tua assenza? / che colmi tutta la terra della tua assenza? Don Giussani sa che senza Cristo noi non siamo niente; così commenta Balthasar At 4,8-12: „ Pietro … dà al Signore tutto l'onore del miracolo da lui compiuto. Egli viene viene interrogato in nome di chi abbia guarito il paralitico. Risposta: di nessun altro se non della „pietra angolare (da voi) rigettata“, perché unicamente in Gesù gli uomini possono trovare salvezza: spirituale e qui anche corporale“ (Balthasar, Luce della Parola, commento alle letture della quarta domenica di Pasqua). Nel capitolo V, 8 del „Senso religioso“ Giussani non esplicita la figura di Cristo, rimane nella dimensione del Mistero che è Dio stesso, ma l’associazione mi sembrava doverosa, perché c’è il rischio di leggere quella frase sulla compagnia in modo auto-lodante; sarebbe un peccato. Comunque mi preme in fine di rivelare la simpatia, accennata all’inizio di queste righe della simpatia del sacerdote lombardo per l’ardore radicale. Questa simpatia è ancora presente in CL o è nascosta sotto le ceneri, per riprendere un’ immagine, di Mahler, usata dal Papa quando parlò con la nostra fraternità. In tanti di CL io vedo un ardore guerriero e occidentalista, non questo ardore per la domanda ultima…
(28.4.24) La conclusione del capitolo quinto del „Senso religioso“ di Don Giussani. L’affermazione centrale è chiara: „Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza dell’uomo“ (79). Questo è il „senso necessario dell’essere“ (Ulrich): la connessione necessaria tra la risposta (Dio) e la domanda (l’uomo); per questo non siamo gettati nel mondo, ma donati! L’accortezza di don Giussani consiste nel dire che la „risposta non può essere che insondabile“. Noi siamo radicati in questa risposta „ultima“, „un destino ultimo, un senso di tutto“ e se perdiamo la fiducia in questa connessione, le cose non si fanno solo difficili, ma folli, nel senso della frase di Shakespeare: „il mondo senza Dio sarebbe una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore“. La grande accortezza paterna di don Giussani è la specificazione: „a quelle domande costitutive noi diamo una risposta: coscientemente ed esplicitamente, o praticamente e incoscientemente“ (80). Ci ha visitato una giovane amica, che è giudice a Colonia, e mi ha detto tristemente che ha perso la fede, ma praticamente aiuta i cittadini che incontra per questioni assicurative, ascoltando attentamente le loro domande, a comprendere quale sia il senso di una certa legge, in modo che il cittadino non abbia solo un senso di estraniazione nei confronti della legge, che per esempio regola un’inondazione in modo tale che se pur hai perso tanti soldi, non sempre ciò che ti è accaduto è nell’ambito della tua assicurazione; questa empatia per gli altri, non è direttamente un’attenzione teologica, ma è „ultima“ perché tenta di dare un risposta al senso di giustizia innato nell’uomo…
(11.5.24) La formula con cui don Giussani nella terza premessa del „Senso religioso“ discute „l’ipotesi di una ragione senza interferenze“ è molto interessante: r → s ← v. R = ragione come „energia conoscitiva del soggetto“; v = valore come „la realtà da conoscere in quanto penetra nell’orizzonte dell’umano interesse“; s = sentimento (edizione Jaca Book, 41). Don Giussani non vuole che si ritenga sapere solamente quello matematico e scientifico, vuole che si abbia un approccio realista e razionale anche per „il problema del destino, il problema affettivo e il problema politico“; pensa con ragione che ci sia un’ „incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere“.Per il sacerdote lombardo moralità non è solo la ricerca di una vita riuscita (Aristotele), o solo del dovere in quanto dovere (Kant), ma è una questione di fiducia; la risposta alla domanda: „come si fa a fidarsi di una persona?“ è una questione di moralità e di conoscenza, che non può non tenere conto della „materia“ (mal di pancia, libido (che don Giussani qui non cita esplicitamente)…) e del „sentimento“ (innamoramento, abbandono, bisticcio con i genitori…). Come si può vedere, con un po’ di simpatia per la mia persona: io sono, anche nel modo in cui mi esprimo nei miei diari (notturno e diurno) un vero figlio di don Giussani; su questa presa sul serio del destino, dell’affettività e della politica sono del tutto suo figlio, anche se nel modo di argomentare teologico e filosofico, certamente Balthasar e Ulrich mi sono altrettanto „maestri“…
(19.5.24) Ancora due passi sulla terza promessa del „Senso religioso“ di Giussani. Il sacerdote lombardo ci vuol fare due passi: il primo riguarda una questione esistenziale ed una di metodo e il secondo mette in luce „un altro punto di vista“. Per la mia storia sono disposto a pensare con don Giussani che l’amarezza e la tristezza esistenziale non possano essere viste „come principio di una posizione filosofica“ e che quest’ultimo consista piuttosto nello stupore che ci sia qualcosa invece che niente (Aristotele, Heidegger, Balthasar), quindi la domanda di Leopardi: „Oh natura, natura, perché inganni i figli tuoi?“ non mi sembra poter essere il primo passo filosofico. Allo stesso tempo, però, è possibile che ci sia o meglio che uno faccia un’esperienza tale, che ci porti alla tristezza, all’amarezza e che a seconda dell’esperienza e del carattere si pensi alla „rassegnazione“ (Goethe, Balthasar) come ad una possibile posizione esistenziale. La rassegnazione non vuole „eliminare un fattore in gioco“, tanto meno vuole farlo a livello ideologico, ma accetta che l’uomo non potrà mai considerare „tutti i fattori“, tanto meno potrà valorizzarli tutti. Quindi non è detto che a tutti sia possibile un’atteggiamento adeguato ed equilibrato, nel senso desiderato da don Giussani. / Il secondo punto è quello della questione dello scetticismo antico, come indifferenza ed atarassia morale e conoscitiva. Anche esso contiene un momento di verità. Le due parole μετριοπάθεια, ἰσοσθένεια dello scetticismo antico indicano questo momento forte; da una parte la μετριοπάθεια ci presenta un equilibrio emotivo che non nasce dal aver considerato tutti i fattori, ma dalla rassegnazione di non poterlo fare. Mentre l’ ἰσοσθένεια ci fa comprendere che spesso gli argomenti che si confrontano sono entrambi forti, per esempio in questo caso speranza e rassegnazione. Ripeto quello che ho detto alcuni giorni fa ai miei ragazzi nell’ora di lezione sullo scetticismo antico, di cui avevo parlato nel mio diario: „La cosa che più mi interessa è quella della ἰσοσθένεια, non perché io ritenga che sempre gli argomenti abbiano la stessa forza, ma perché credo sia di grande aiuto educarsi a trovare il momento di forza negli argomenti contrari ai nostri, anche nel caso che i nostri argomenti, rappresentati da certi interessi, siano più nobili, o addirittura più veri di quelli contrari. Io credo, per esempio, che l’atteggiamento e l’interesse scientifico di Pasteur (è una delle persone citate da don Giussani, che con la sua scoperta „del ruolo dei microorganismi in medicina ha realmente rivoluzionato tutto“ il metodo scientifico-medico) sia più nobile degli interessi dei professori della Sorbona che lo hanno osteggiato, insomma che la conoscenza sia più nobile „dell’orgoglio, della fama e del denaro“; come ritengo più nobile l’atteggiamento di una persona che combini attenzione e giudizio, ma sarei più cauto nello scrivere che „è il delitto {quello di voler dare un giudizio senza davvero aver ascoltato} che la maggioranza degli uomini compie di fronte al problema del destino, della fede, della religione, della Chiesa, del cristianesimo“ (Senso religioso, edizione Jaca Book, 45); ed anche l’esempio che fa don Giussani è un po’ clericale e la dice lunga (Marco che guarda la ragazzina graziosa invece che ascoltare) piuttosto su don Giussani che su Marco: e se Marco guardasse proprio ciò che non pensa che possa dargli alcun ragionamento? Vero è che non è leale poi pretendere di avere o dare un giudizio, ma in genere le persone in Italia, almeno la generazione incontrata dal Gius quando iniziò la sua attività sacerdotale, non ascoltava più la Chiesa, perché quest’ultima non aveva davvero interesse per loro (gli uomini di quella generazione) e i loro problemi…Sinteticamente: „ il centro del problema è realmente una posizione giusta del cuore, un atteggiamento esatto, un sentimento al suo posto, una moralità“ (ibid. 46). Ma si dovrà pur tener presente che spesso il clero stesso o la casta meretrix non aveva una posizione giusta del cuore, una moralità, cosa che non credo don Giussani mettesse in dubbio, perché credo sia stato un uomo molto leale…Alla fine ancora una parola sulla giovane speranza e sulla vecchia rassegnazione: io credo con Peguy che la prima corrisponda di più all’ontologia del dono dell’essere come amore gratuito; Dio donandoci gratuitamente l’essere ci dona anche quella speranza giovane che non ci fa disperare. Dice il Papa: „ la speranza cristiana non illude {se non illude significa che in essa vi è anche uno spazio per la rassegnazione; R} e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dell'amore divino {cioè dal dono dell’essere come amore gratuito; R} .Non cede nelle difficoltà: si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita“. Ed in fondo questo è ciò che vogliamo tutti, se l’esperienza non ci ha del tutto indeboliti: „andare avanti nella vita“ VSSvpM!
(2.6.24) Nota sulla moralità del conoscere in dialogo con Luigi Giussani (cf. Senso religioso, III, 6). Riflettendo questa mattina sulle frasi di un vescovo tedesco nel mio diario a riguardo del sacerdozio delle donne, ma anche in genere dell’atteggiamento conoscitivo di molti vescovi tedeschi su diversi temi, ho affermato che sono prigionieri del mainstream, cioè della cultura dominante, che certamente incontrano come pastori nel volto di tanta loro gente e non in un manuale ideologico. Quindi ovviamente dovrei essere più cauto nel giudizio; allo stesso tempo vivere per 34 anni in una terra, senza che - a parte qualche rara eccezione - mi si incontri per quello che sono, cioè un’anima filosofica ed ecclesiale, ha provocato ferite in me. Ma torniamo al problema stesso: se l’oggetto della nostra conoscenza è la Chiesa cattolica è del tutto necessario che la regola della conoscenza sia „l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle opinioni che già ci siamo fatti su di esso“ (Giussani, edizione citata, 47). È una questione di onestà intellettuale che don Giussani chiama „moralità del conoscere“. Giustamente il sacerdote lombardo specifica: „Anche la moralità ha una dinamica diversificata“. Un conto è essere insegnante, un conto è essere un impiegato in uno sportello dell’ufficio postale; un conto è essere diplomatico, un altro essere contadino, etc. Per quanto riguarda la conoscenza non è possibile conoscere qualcosa senza un interesse per l’oggetto che si ha - in fondo su questo non vi è una grande differenza tra Habermas e Giussani, solo che Habermas si muove a livello di una molteplicità di interessi, dovendo distinguere all’interno di questa molteplicità, mentre Giussani porta anche in gioco una dimensione specificamente cristiana ed umana: si conosce ciò che si ama! Qui bisogna stare attenti a due dimensioni, una vale forse più per gli altri (per i critici della Chiesa cattolica, anche al suo interno), l’altra più per noi stessi, che crediamo di avere un sentire cum ecclesia. Se si vuole conoscere davvero la Chiesa cattolica sarà necessario superare le opinioni della cultura dominante (che tra l’altro per Giussani non è solo quella autocratica, come ho sottolineato più volte; lui ha vissuto in un paese democratico); ma per noi cattolici sarà necessario essere davvero „poveri di spirito“, cioè non voler difendere nulla a livello autoreferenziale, neanche la Chiesa cattolica, che con diversi scandali ha messo a dura prova la possibilità di una moralità del conoscere a suo riguardo, come quella proposta da don Giussani. - Comunque il tema riguardante la moralità del conoscere non ha solo a che fare con la Chiesa cattolica: vale anche per il giudizio sull’EU, sui 75 anni di costituzione democratica tedesca, sulla guerra in Ucraina e sull’invasione israeliana di Gaza…Nella mia esperienza personale ho visto tante persone che pensano di essere morali a priori e che non riconoscono la possibilità di una diversa narrazione degli eventi da quella loro, anche con l’argomento del tutto debole di essere stati nel luogo in questione, etc. Questa mattina mia moglie mi raccontava di un episodio della storia greca del V secolo in cui un politico di nome Aristide aiuta un analfabeta a scrivere il nome di uno politico di cui si richiedeva l’ostracismo; ed anche se gli argomenti dell’analfabeta erano del tutto deboli, il politico scrisse sulla tavoletta il nome richiesto; il politico era Aristide stesso, che ha amato più il suo interlocutore e la democrazia che se stesso. Beh, questo ha anche a fare con la moralità del conoscere…
(18.6.24) Sugli Esercizi di Rimini, primo passo. In primo luogo vorrei dire che a me ha sempre commosso dire le „Lodi“ con tante sorelle e fratelli a Rimini, quindi non ho una vera obiezione all’invito a venire in presenza fatto da Prosperi. Ovviamente anzianità, distanza sono argomenti veri, ma non è il motivo mio, non è il motivo per il quale io al momento non posso andare ai gesti in presenza in Germania. E se anche i miei argomenti fossero unici, rimangono quelli legati alla mia persona. 1) Ma ora arriviamo al tema della speranza che mi sembra un tema di importanza vitale, anche per me che in questi giorni non sto bene, ma anche in genere; è possibile occuparsi della „profezia della pace“ solamente se si prende sul serio questo tema, che stupisce anche Dio, come ci ha suggerito Peguy, che spesso fa parlare Dio Padre con una congenialità davvero unica, come aveva notato anche von Balthasar. „Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano e che credono che andrà meglio domattina“ è davvero fonte di stupore. Da giovane sono stato affascinato dal filosofo dell’utopia e della speranza Ernst Bloch, ma non è questa la speranza di cui parla Peguy, che a differenza del filosofo tedesco ha visto il cuore misericordioso del Padre, non quello tirannico condannato da Bloch. 2) Sulla „banalità delle comode espansioni“: conosco dall’interno „la smania di postare sui social le immagini dei viaggi e dei cibi“ che fa parte del nostro tempo, e la conosco anche come „smania“ (il desiderio che uno riconosca la grandezza del mio Selbstsein), sebbene in me abbia anche un carattere „missionario“, proprio non volendo fare alcun gesto di proselitismo. Penso sia un gesto in cui cerco di mettere in pratica il primo passo della Trilogia di Balthasar: il trascendentale della bellezza come primo passo di una riflessione ontologica. Conosco, però, anche la tentazione che mons. Paccosi descrive con il termine „loop della scarsità“ (un giro chiuso in cui ci si distrae con immagini e video). O quella delle „piccole giustificazioni immediate“ che sostituiscono il grande desiderio di conferma ontologica, ben più profondo di quello delle „conferme sociali“. L’incontro con Bruno Brunelli e il suo amore per la fotografia mi avevano insegnato a porre attenzione alle foto che condivido…3) Noi siamo sempre in tensione, ma non in quella utopica del non-essere-ancora dell’essere (Bloch), ma quella cristiana che parte dal dono dell’essere, donato semplicemente e completamente, anche se in modo non sussistente (Tommaso, Ulrich). Lo già spiegato molte volte: l’essere finito non è sussistente; sussistente in modo assoluto è Colui che dona l’essere, e in modo relativo o relazionale chi lo riceve. Ma la completezza e semplicità di questo dono non è in nessun modo costruibile, fattibile. La struttura in tensione della nostra anima è dono, perché l’essere stesso donato è dono! Questo dono è un fatto, per questo motivo bisogna stare attenti a non chiamare sempre „fatti“, questioni riguardanti il mondo che sono piuttosto narrazioni di fatti. E vorrei ricordare anche in questo contesto una frase che disse don Giussani ad Andrea Anziani, quando da Milano partirono per Siena: „L’importante è che siate uniti tra di voi, dalla vostra unità nascerà quello che dovrà nascere“ (Mereghetti, Peluso, 40). Mi sono bisticciato anche io con dei confratelli di CL, ma sempre, credo, per difesa: perché loro nella mia bacheca dicevano dell’immondizia sulla mia narrazione del reale, in riferimento alla „profezia della pace“. 4) Il testo di don Giussani del 1961, che è il filo rosso degli Esercizi di Mons. Paccosi, ha una grande consonanza con il tema dell’esperienza nel senso religioso, cui ho dedicato un post nel mio blog: „Vivere il reale“; si tratta dell’esperienza come cammino al vero, o espresso con il titolo del saggio del 1961: del cammino dalla speranza alla pienezza della gioia; noi siamo in cammino verso un compimento che è la prospettiva futurica del dono dell’essere, passato e presente, ma sarebbe meglio dire… che è la prospettiva ontologica e teologica del dono dell’essere passato, presente e futuro. Siamo mendicanti! Lo siamo perché, e in questo hanno ragione Leopardi e Pavese: nulla corrisponde all’ampiezza del desiderio che è in noi, ma anche del dono che ci è stato fatto, così che ci stupiamo che ci sia qualcosa invece che nulla. La tentazione di vedere il „nulla“ come orizzonte ideologico ultimo (Leopardi) è da un certo punto di vista la più ovvia storicamente parlando; e senza la grazia ontologica della percezione del dono dell’essere, in cui ci viene donato un altro „nulla“, ben più profondo del nulla del nichilismo, il nulla della gratuità dell’amore, non potremmo che rimanere legati alla superficialità del nichilismo stesso, alla banalità del male (Arendt) e del bene (Walzer). 5) Chi crede ha fatto l’esperienza di „una simpatia inesorabile con il proprio essere e la vita“ (Esercizi 2024, pdf, 18). Ma piano piano Dio nella nostra vita diventa sempre più un’invenzione di cui abbiamo bisogno (Feuerbach) e solo il tema della speranza, quando è posto come un dono teologale e ontologicamente reale ci introduce, dice Paccosi con grande profondità: „nella dimora, nella dimensione eterna, infinita di Dio“ (Esercizi, 10). Una teologia senza ontologia è semplicemente un discorso che vale per chi in qualche modo la teologia la succhiata con il latte materno; un’ontologia senza teologia scade prima o poi, piuttosto prima, nel nichilismo ontologico. Prendere sul serio la luce, l’aria, le piante, gli animali e le persone che incontriamo come doni, come messaggeri di speranza, significa aver fatto almeno un piccolo passo nella percezione di quel paradosso che esprimiamo con le parole „non aliud“ e „tu“. Dio è non aliud, cioè luce, aria, terra, fuoco, persone…, ma anche un tu che dona l’essere come amore gratuito. Un invenzione? Ma per l’amore di Dio, io non sarei neppure capace di inventare uno dei frassini che si trovano qui davanti a me, figuriamoci tutto il reale e la sua fonte ultima…La speranza ci introduce nella dimora di Dio, perché Dio è dimora, è casa, e il non aliud delle nostre dimore e delle nostre case. La speranza che il reale abbia un senso ci apre la dimensione eterna ed infinita, non quella del „cattivo infinito“ (Hegel, Freud), ma quella di un incipit vita nova che ci sorprende sempre di nuovo.
(Blütengrund, Naumburg, il 19.6.24) Comincio da una frase sul nichilismo che mons.Giovanni Paccosi ha espresso incoativamente già il venerdì sera degli Esercizi. il nichilismo non è subito e solo una questione di „demoni“ o „spiriti cattivi“ come Nikolaj W. Stawrogin, ma è già presente nel liberale e lamentoso suo precettore, Stepan T. Werchowenskij, con cui comincia il romanzo di Dostojewskij, che Swetlana Geier traduce in tedesco con il titolo „spiriti cattivi“. Quando il venerdì sera il monsignore italiano accenna al nichilismo ne parla come „aria inquinata“ che sporca „la limpidezza del desiderio“ e che come una „zavorra“ ci riduce alle „tumide istintività“ (tumido significa gonfio, superbo, altezzosi; cf. Treccani online) o alla „banalità delle comode espansioni“, a quella che io chiamo la „tirannia della immediatezza“; non siamo più tesi ad un „orizzonte infinito“, ma affondiamo nella melma dei „loop“, dei „cerchi chiusi“; ieri il tempo non era bello ed alcune ragazze (13-15 anni) sono state a lungo sedute sulla terrazza con tetto del bungalow con me, perché in quello successivo c’erano dei ragazzi che interessavano loro, poi sono arrivati anche altri compagni di classe…io non sono né l’insegnante di classe né le ho a lezione, sono qui solo come accompagnatore maschio, le altre colleghe tra cui mia moglie sono tutte femmine. Le ragazze erano contente di poter parlare con me liberamente di tutto, ma questo parlare è probabilmente un „circolo chiuso“, anche se dall’arrossire del loro volto, dai criteri immediati che usano per giudicare il reale non è del tutto cancellato ciò che io come filosofo chiamerei i „trascendentali“ del bello, del buono e del vero. In un certo senso sono io più „inquinato“ di loro - una ragazza ad un certo punto ha usato la formula „Kopf-Kino“, cioè nella sua testa si creano delle immagini come in un film: „testa-cinema“, sarebbe la traduzione. Un ragazzo è venuto ed ha detto che la ragazza che sedeva accanto a me (15 anni; con una storia difficile; mamma e papà sono separati, come in tantissimi casi dei miei allievi, la mamma le dice che lei costa troppo; il padre le promette di venirla a trovare e non lo fa; adesso le ha promesso un viaggio a Verona, mia moglie ha detto: vediamo) aveva abbandonato il suo ragazzo perché le aveva proposto un rapporto sessule a tre con la sua migliore amica; lei è diventata rossa in viso; io ho detto, perché il giovane aveva appena parlato di pornografia, che questa proposta era pornografica e che un rapporto a tre non riescono ad averlo neppure da amici, figuriamoci in una situazione così esposta; insomma ho proposto un’uscita dal loop. Tra questo mondo in cui io sono, e l’annuncio esplicito o anche discreto di Cristo, vi è un abisso; ma come dicevo ieri, i ragazzi e le ragazze vedono l’unità tra me e mia moglie, ma non credono che sia possibile oggi, cioè spiegano l’unità come una questione generazionale, non di verità. Come tra l’altro fa l’unico ragazzo cattolico che ho a scuola: lui pensa che la mia fedeltà alla dottrina cattolica sia solo perché sono vecchio. Comunque stando nel loop con loro, inquinato lo vengo io, ma credo nel senso che percepisco la vitalità, anche se superficiale, di ciò che desiderano: essere amati, desiderati, senza un censore della loro „testa-cinema“. Dice Aurora Salto nel libro di Mereghetti e Peluso su Aziani che la „febbre di vita“ di Andrea „non nasceva dall’ansia di fare, ma da un amore profondo, da una dedizione completa e costante a Qualcuno, che per lui era tutto. Andrea viveva di fronte a quella Presenza“ (41). Io, che non sono per nulla santo come Andrea, penso che se questa Presenza è Non-Aliud, l’amore non deve essere solo „profondo“, ma anche „superficiale“… mi sono chiesto una volta: perché non c’è il Gruppo adulto a Lipsia? C’è a Monaco di Baviera, a Colonia, che per quanto secolarizzate, sono città con ancora un altissimo numero di battezzati, qui da noi i battezzati, cattolici e protestanti, sono il 16 %; dei quali i cattolici sono il 3%. Qui il loop nichilistico è quasi onnipresente e non è superabile con la sola intensità o la profondità, almeno credo. Essere povero di spirito dice Paccosi, citando Giussani, significa non aver nulla e non aspettare niente, ma avere un’apertura senza confine (Esercizi, 21). Chi non aspetta niente e quindi si lascia anche inquinare dalla superficialità ha forse per grazia una chance di superare il nichilismo: filosoficamente lo spiego sempre con il nulla della gratuità dell’essere come dono versus il nulla del nichilismo…sarebbe bello avere il Gruppo adulto che prega, lavora e non si aspetta nulla a Lipsia e che ci coinvolgessero con una vera amicizia gratuita, fatta di fatti, non di dichiarazioni ideologiche…forse questo potrebbe aiutarmi ad essere meno „superficiale“, ma forse è destino che Konstanze ed io rimaniamo con il nostro parroco alla don Camillo e con il nostro compito e lasciamo perdere tutto il resto come sogno…noi comunque il Papa lo seguiamo alla lettera, nella Chiesa in uscita…in questo non ci siamo spostati nemmeno di un millimetro dalla Chiesa ed anche da quella modalità esperienziale che è CL. Gianni, Renato ed anche Prosperi mi sono presenti come un riferimento che non metto in discussione, tanto meno con moralismi.
(15.10.24) Alcune note sui primi quattro paragrafi del capitolo undicesimo del „Senso religioso“ di Don Giussani: la questione del segno e dell’oltre nel linguaggio dell’Homo Abyssus di Ulrich è ripreso con il termine di „sovraessenzialità“. Non siamo solo provocati dal mare, dalla bellezza di una donna o dalla profondità di un libro, non ne cerchiamo solo la loro „essenza“, ma per l’appunto la loro sovraessenzialità, il loro oltre le essenze intese in un senso solo orizzontale. Un mio vecchio amico di Asti, che non ho più sentito, Luigi Terzuolo, diceva che insistere sull’oltre e sul segno delle cose, vuol dire non amare le cose stesse. Don Giussani propone un’ipotesi di lavoro contraria. Chi non va oltre, non ama le cose stesse. Ed in vero anche il più bel paesaggio marino ci può annoiare; in questi giorni sono affascinato dalla bellezza di Matilda de Angelis, come lo ero qualche tempo fa di Jennifer Lorenz, ma consiglierei, con tutto il rispetto, perché io non voglio offendere nessuno, di guardarsi una foto di Ornella Muti oggi e di confrontarla con l’immagine che abbiamo di lei nei film con Celentano, per vedere che se non ci fosse un „oltre“ all’immediatezza avremmo un vero e proprio problema, perché ciò che ci affascinava ieri, o che ci affascina oggi è possibile che non ci affascini più qualche decennio dopo; allo stesso tempo è bello vedere che vi è una bellezza anche nei seni di una donna invecchiata, che ci permette di vedere il bello non solo nella sua dimensione giovanile, ma ad un certo punto anche ciò che ci affascina in modo più saggio diventa cadavere. Anche l’essenza delle cose ad un livello solo orizzontale diventa prima o poi un cadavere. Dobbiamo „resistere“ dice Clemente Rebora - è molto bello che il teologo Giussani vada sempre di nuovo alla scuola dei poeti - „se resisto…verrà a farmi certo del suo e del mio tesoro“; qualcuno, non qualcosa! Qualcuno verrà, „forse già viene“, „come ristoro delle mie e delle sue pene“. // Nel paragrafo quarto Giussani pone il problema del carattere esigenziale della vita, in quattro passi: a) L’esigenza della verità, che non è riducibile secondo me alla questione della sua „funzione“ (parola usata da don Giussani); piuttosto è meglio l’altra parola che usa: “scopo“ (telos), cioè il rapporto delle cose con il loro senso ultimo. Tra l’altro il senso teleologico delle cose salva le cose stesse e non solo il loro oltre; b) l’esigenza della giustizia, che non è per nulla riducibile ad un’esigenza di legalità rispettata (cf quello che ho scritto nel diario questa mattina sul caso della professoressa Guérot). c) L’esigenza della felicità, come risposta alla domanda: „qui animo satis“? d) L’esigenza dell’amore e di una bellezza con una „traiettoria paradossale“, non „naturale“, perché in quella „naturale“ la traiettoria è l’invecchiamento, mentre nella traiettoria paradossale, qualcuno tanto più è bello, tanta più rimanda ad altro, alla sua sovraessenzialità, che è dono gratuito che supera ogni espressione solo umana, solo essenziale di un fenomeno personale e naturale…Porre il problema del segno, significa porre la questione del „Padre“: le cose, le persone hanno un Padre o sono solo frutto di un movimento casuale (caso)? Infine il Padre non è solo qualcuno che „causa“ qualcosa, ma che lo ama!
(16.10.24) Ancora alcuni pensieri sul capitolo undici del „Senso religioso“ (paragrafi 5-7). Come ho sottolineato questa mattina nella mia meditazione in dialogo con Adrienne von Speyr - nel mio diario - c’è una specificità mariana di vivere il mistero che non ha che fare con la conoscenza, ma con la sofferenza (cf. Esperienza di preghiera, edizione tedesca): il Figlio dell’uomo e di Dio riconosce il giungere dell’ora (con questo termine il Vangelo di Giovanni, intende l’ora suprema della sofferenza, che è anche l’ora suprema della glorificazione); la Theotokos invece la subisce come una sofferenza, non „riconoscendo ciò che in essa era promesso, aspettato e compiuto“ (ibid,). Direi che senza questa dimensione della sofferenza subita, non si è mai fatto esperienza del mistero. Il mondo con cui don Giussani parla di quest’ultimo è molto „maschile“, più proprio al „Figlio dell’uomo“ che all’uomo tout court, ma è allo stesso tempo una grande intuizione, che rappresenta forse una delle vette del pensiero del sacerdote lombardo: nel capitolo undicesimo si parla del „segno“, quindi della dimensione dell’“oltre“, come abbiamo visto ieri. Il segno più alto del mistero è il „tu“: „tutto il resto è assimilabile e dominabile dall’uomo, ma il tu mai. Questo è vero già per un rapporto con un tu finito, tanto più con il tu infinito. Scoprilo non è alcunché di irrazionale, ma la massima vetta della ragione; la spiegazione che cerca la ragione non si trova nei limiti dell’esistenza: „ per quanto si dilati questo orizzonte, lo struggimento del perché rimane: la morte fissa irrimediabilmente questa incompiutezza“ (Senso religioso, 155). Quindi don Giussani riassume: „ il mistero non è un limite alla ragione, ma è la scoperta più grande cui può arrivare la ragione: l'esistenza di qualcosa incommensurabile con se stessa. Il ragionamento fatto prima si potrebbe riassumere così: la ragione è esigenza di comprendere l'esistente; nella vita questo non è possibile; dunque fedeltà alla ragione costringe ad ammettere l'esistenza di un incomprensibile“ (ibid. 156); anche su questo punto don Giussani va alla scuola di un poeta, che gli insegna, che „fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco si inabissa ov’è più vero“ (Clemente Rebora) - quindi il mistero si inabissa nella verità, non nella irrazionalità. Anche Maria quando subisce la sofferenza non si trova in una dimensione di irrazionalità, anche se non è capace più in quell’ora a fare un qualsivoglia „ragionamento“ per comprende ciò che accade al Figlio. Che cosa ha il nostro tempo da contrapporre a tutto ciò? Giussani vede bene quando parla del „cinismo della cultura materialista“ (157): si, di fatto le risposte della cultura materialista sono o ciniche o rancorose o risentite (Max Scheler fa vedere che ciò non è vero solo ad un livello psicologico, ma anche conoscitivo: si è risentiti quando un sapere è rivelato, invece che conquistato) o legaliste, ma mai soddisfano le esigenze ultime del cuore dell’uomo, che di fatto non può mai fermarsi ad „ipotesi astratte“, ma che nel suo cammino al vero vuole un’“implicazione esistenziale“. E di don Giussani si potrà dire quello che si vuole, ma certamente non si può dire che non abbia un senso del mistero; anzi forse il „senso religioso“ è solo un’introduzione al mistero, con una comprensione radicale ed esistenziale della teologia negativa: „ i termini con i quali tutta la tradizione religiosa autentica dell'umanità ha segnato il mistero, cioè ha parlato di Dio, sono tutti termini negativi: in-finito, im-menso, non misurabile, in-effabile, che non si può dire, ignoto, il Dio ignoto cui gli ateniesi avevano consacrato un'ara. E anche certe parole che sembrano positive per esempio, onnipotente, onnisciente, omnicomprensivo, sono termini, dal punto di vista dell'esperienza, negativi, perché non corrispondono a nulla della nostra esperienza, sono definizioni solo formalmente positive e per essere intesi devono negare il nostro modo di essere potenti o di sapere“ (157-158).
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