sabato 19 settembre 2020

Homo Abyssus. Il rischio della domanda ontologica - Ferdinand Ulrich

 Ferdinand Ulrich, Homo abyssus. Das Wagnis der Seinsfrage, Einsiedeln, 1961, 1998 

(I diritti della mia traduzione (delle prime 62 pagine del libro) appartengono alla Johannesverlag. Interrompo la traduzione pubblica alla pagina 62 e proseguirò in privato. Le parti tradotte fanno comunque vedere lo spessore filosofico di questo libro di Ferdinand Ulrich) 

Il saggio di padre Jacques Servais SJ, che porta il titolo: “Montrer aux Hommes le chemin qui mène au Christ“  (Artège Lethielleux, 2020) fa vedere sia l’importanze reciproca, spirituale, teologica, filosofica ed amicale, tra Balthasar ed Ulrich, ma anche quale compito abbia visto il teologo svizzero nella filosofia del libro che stiamo traducendo. HA è un aiuto per superare la dicotomia fatale tra filosofia e teologia, aiuto che nasce da una comprensione dell’essere come amore gratuito, un amore che diventa ed è l’unica vera „crisi“ per l’uomo: sarà capace, nella sua vita, di entrare in quella logica di gratuità che per l’appunto ha una sua dimensione ontologica ultima? Il cammino della nostra vita non è una questione sentimentale, ma neppure di interpretazione generale del mondo, ma di reale, concreta ed esistenziale definizione di cosa sia l’essere e della bontà ontologica ultima di cui è similitudo. In essa si trova la  sua sovraessenzialità, cioè quel „di più“ della sua natura che non lo violenta, ma lo invita ad un intimità di un altro mondo, ma senza la quale il mondo è destinato al nulla nichilistico che oggi ha ripreso la regia del mondo. Solo il nulla ontologico della gratuità è la crisi ontologica che dobbiamo  drammaticamente affrontare e che nella sua impotenza è più potente di ogni forma di nichilismo passato e presente. RG


(24.12.20) "Nel terzio millennio ineunte, gli scritti di Adrienne von Speyr (si stanno) a poco a poco rivelando una fonte di luce e di saggezza per molti fedeli, giovani o anziani, sposati o consacrati, uomini e donne alle prese con i doveri domestici e soprattutto professionali, offrendo con il loro insegnamento un sostegno alla preghiera personale, nonché uno stimolo ad un impegno svolto da cristiani decisi a perseverare nella fedeltà quotidiana in un mondo sempre più secolarizzato" (Jacques Servais SJ, Introduzione. Dal I al III simposio internazionale in Adrienne von Speyr. Una donna nel cuore del Ventesimo secolo, Lugano-Siena, 2020, 15).
Con l'inizio della traduzione di Homo Abyssus di Ferdinand Ulrich molte delle mie energie nel "tempo libero" vanno in questo lavoro, ma ho cominciato a leggere con grande attenzione gli atti del III simposio internazionale su Adrienne (tra l'altro io ho partecipato a tutti i tre i simposi di cui parla Padre Jacques Servais SJ) e non ho mai smesso, una volta alla settimana, di leggere i testi di Adrienne, come si può vedere in questo gruppo dedicato a lei (si tratta di un gruppo chiuso in Facebook dedicato ad Adrienne in cui una volta alla settimana offro una meditazione sui suoi testi).
Vedo tra il piccolo pellegrino di Gesù, come si amava chiamare Ulrich e Adrienne una consonanza ultima, anche se Ulrich non parlava quasi mai di questa donna nel cuore del Ventesimo secolo. Ulrich ha pensato alla filosofia stessa, "come Ancella del Signore" (questa dimensione mariana è decisiva per il filosofo di Ratisbona), "in costante ascolto del Verbo" e come per Adrienne tutto il pensiero di Ulrich nasce da un si a questo Verbo incarnato, senza per questo non prendere sul serio "l'autonomia richiesta dagli obblighi famigliari e dagli impegni professionali", o dagli impegni che la filosofia stessa richiede.
Per tutti e due vale che si sono "lasciati fare", nella discrezione e nel nascondimento a volte (spesso). In una "discreta caritas", in un "farsi indifferente" (Ignazio), in un'indifferenza d'amore".
L'incontro con entrambi è stato per me decisivo ed anche un momento di correzione fraterna per la mia appartenenza alla fraternità di Comunione e Liberazione, che tende a volte troppo ad un protagonismo nella storia. Di fatto se noi ci lasciamo fare da Gesù o meno, non è possibile vederlo totaliter pubblicamente, neppure qui in Facebook. Perché ciò che davvero conta è un "faire sans dire".
La scelta religiosa interiore non è un'alternativa all'autonomia della nostra presenza nel mondo (Scuola, Facebook...) ma il suo ultimo sale! Come tra l'altro sapeva e sa il servo di Dio don Luigi Giussani.

Roberto, un piccolo amico di Gesù




Premessa 

(19.09.20) Nell'opera seguente appare la parte principale della mia abilitazione (in Salzburg): "Versuch  einer spekulativen Entfaltung des Menschenwesen in der Seinsteilhabe" (Tentativo di uno sviluppo speculativo dell'essere umano nella partecipazione all'essere)(1958). 

In essa tentai di far vedere, che essere e uomo si appartengono originariamente e che l'essere, proprio in relazione all'uomo, rivela la propria sovraessenzialità (Überwesenhaftigkeit) anche ed in modo particolare in riferimento all'essere dell'uomo. 

L'uomo si è appropriato questo tema della "crisi sovraessenziale dell'essere" come suo compito originario. Egli è, concretamente, il grazie sostanziale del concepimento dell'essere in persona, la linea orientativa e la figura elementare della differenza ontologica dell'essere in paragone all'essente e finalmente il tema inteso da Dio della partecipazione dell'essere. 

L.-B. Geiger nella sua opera, "La partecipation dans la philosophie de S. Thomas d'Aquin" (La partecipazione nella filosofia di san Tommaso d'Aquino) ha accennato a questo pensiero: "...il faut répondre, nous semble-t-il, que la théorie de la partecipation est fondée en chacune de ses partie sur la conscience de notre nature humaine à la fois spirituelle et corporelle" (p. 453). 

Nella sequela di questa cosa ho superato l'ontologia nell' antropologia e questa nella cristologia. 

Sono del tutto cosciente che una tale impresa possa provocare avversione e false interpretazioni, in modo particolare oggi dove il pensiero comincia di nuovo a riflettere, a partire dalla carcerazione secolare in pseudo theologumena, in forza della semplice domanda ontologica, nel cammino che gli è stato assegnato; dalla speranza sperimentata in modo più   profondo si compie la differenza tra essere ed essente, nel suo "non ancora" che non può essere mai concluso da noi.  

La logicizzazione (Logisierung) dello Spirito di Dio, il raggiungimento riflessivo dell' Eschaton in un'incarnazione del Logos resa passata, accaduta ha sedotto il pensiero alla sostanzializzazione dell'essere nella res posta, o detto altrimenti nell' essenza e ha portato la ragione sotto il dominio di una ratio scatenata. La sostanzializzazione dell'essere vive del pseudo theologumenon di una natura sottomessa alla grazia, che non opera, proprio con questa stessa natura, alcuna storia. 

(La prima pagina di HA ci presenta da subito alcuni temi chiavi della filosofia di Ferdinand Ulrich: in primo luogo il legame intimo tra ontologia, antropologia e cristologia. E ci avverte immediatamente di alcuni pericoli: in primo luogo quello della sostanzializzazione dell'essere: l'essere è un atto d'amore e non una cosa, di cui possiamo lamentare la perdita o di cui possiamo festeggiarne un possesso  Poi il pericolo della logicizzazione dello spirito - lo spirito che diventa "educazione del genere umano" (Lessing), ma che non è più lo Spirito del Padre vivente.  Infine la questione della pseudo teologia: argomenti che sembrano essere teologici, ma in vero non permettono una storia d'amore con la natura dell'uomo. RG) 

(27.9.20) Da questa identificazione gnostica iniziamo oggi a liberarci lentamente, cominciando di nuovo a porci la domanda dell'essere in quanto tale. A condizione che in ciò ci si riveli il "non ancora" della differenza ontologica dell'essere con l'essente, ci si apre di nuovo il gioco della grazia con la natura, proprio in forza della "passata" incarnazione del Verbo di Dio. In questo inizio della domanda ontologica la natura viene liberata per un nuovo incontro con la grazia, laddove noi in apparenza "paganamente cechi" e rinunciando alla rivelazione sovrannaturale, ci apriamo nel pensiero all'essere in quanto tale. 

Ciò non accade contro la rivelazione nel Logos attraverso lo Spirito Santo, ma nel modo più profondo a partire da essa. La scoperta copertura di natura e grazia libera lo spazio per l'esperienza speculativa della differenza ontologica, ma ovviamente con l'indice di una nuova tentazione,  che ci induce di sacrificare il "passato" dell'incarnazione al futuro che accade del "dio divino" (Heidegger) - o pensato nel compendio della differenza ontologica: ipostatizzando l'essere contro la sua mediazione concreta, già a sua volta accaduta, in una sussistenza, "attraverso" l'essenza, nella dimensione di qualcosa che a sua volta sta giungendo. 

Questo apriori speculativo determina a sua volta una nuova sostanzializzazione dell'essere. Così rimarrebbe il mito dell'essere come unica conseguenza; perché ciò che il mito racconta, non accade mai come fatto, accadendo continuamente di nuovo come il "passato". Per questo motivo l'assolutizzazione della storicità, nel senso di un futuro dell'essere che accade pian piano, implica una totale dissoluzione della storicità autentica. 

L'apriori speculativo di un essere percepito pian piano nasconde in vero la chance di una nuova autentica esperienza dell'essere-rinviato dell'uomo al mondo concreto dell'essente, in cui è da sempre coinvolto e in cui ha il suo inizio irraggiungibile riflesso  nel ritorno a se stesso. Questa esperienza dell'essere a disposizione nel mondo si dissolve nel "futuro dell'essere" da compiere pian piano nel pensiero, se non viene compresa a partire dalla positività di Dio, accanto a cui l'essere non può tenersi in sospensione, per darsi successivamente, come ipostasi dell'essere, all'essente. Questo essere ipostatizzato non poteva donarsi per nulla, perché negava lo strappo verso la differenza ontologica e perché avrebbe anticipato la sua mediazione in una sussistenza concreta in una idealità che valga assolutamente.  

(Ulrich vede in quello che Heidegger chiamava la necessità, la struttura e la priorità della domanda ontologica una chance ed una tentazione. La chance è un nuovo incontro fecondo tra natura e grazia, nella concreta esistenza storica La tentazione è quella della ipostatizzazione dell'essere: l'essere diventa una "persona" di cui lamentiamo la mancanza - ciò è simile alla riduzione dell'essere in una cosa. E la speranza non consiste più nel fatto dell'incarnazione già accaduta, ma in "un dio divino" che deve ancora accadere. In questo senso il programma di Heidegger è simile a quello dell'educazione dell'umanità di Lessing, come imparo da Massimo Borghesi, di un'educazione in cui il Logos è definitivamente passato e lo Spirito deve accadere come superamento di esso. RG Questa spiegazione si riferisce al passaggio del libro tradotto il 27.09.20)  

(04.10.20) Vediamo insomma a quali tentazioni mitiche è esposta la questione ontologica. Anche lo storico "Sich-Zu-schicken" (adattamento) dell'essere non ci aiuta ad uscire dalla sfera di influenza dell'invecchiamento mitologico. La fissazione del pensiero sull'essenza statica ed a senso unico non verrà superata con la "trasposizione" della filosofia in una situazione veterotestamentaria di attesa o nel "non-ancora" della metafisica greca. 

In questa situazione critica si trova oggi la filosofia. Non dimensioniamo per questo motivo le nostre affermazioni nella rivelazione sovrannaturale, insomma per compiere una informazione pseudo-teologica della metafisica, ma per fondare proprio in questo modo lo stato proprio della filosofia a partire dall'essere come tale e ciò significa svelare i theologumena di cui la metafisica moderna è impregnata; perché essi hanno portato alla dissoluzione del pensiero ontologico sovraessenziale e al compimento di questo processo con Hegel. Il nostro lavoro si trova quindi in dialogo critico  con la metafisica moderna, in primo luogo con Hegel. 

In forza di un intento puramente metafisico la filosofia viene trascesa nella rivelazione sovrannaturale, poiché accade la liberazione del pensiero nel cammino, attraverso l'essere come tale: nel "non ancora" della grazia con la natura, proprio al cospetto "del compimento del tempo" nel suo (della natura) "essere-già-stato" (Gewesenheit).  

Il superamento della ragione, dall'essente all'essere, è svegliato sempre di nuovo attraverso l'accadere della disposizione della natura in direzione della grazia, che non si dischiude nell'incarnazione assolutizzata del Logos divino, cioè in un accordo e superamento semplicemente passato della natura attraverso la grazia, così come l'essere "risulta dai principi della natura" (Tommaso), ma proprio in ciò rivela la sua sovraessenzialità. 

(Ulrich riconosce un problema proprio alla filosofa da Hegel ad Heidegger: il superamento di una essenza fissa, che insomma non sia "soggetto", ma vede anche le tentazioni mitologiche di queso superamento: una sovra accentuazione del "non ancora" veterotestamentario e greco. La salvezza viene da Cristo che ci ha amati per primo e per grazia, non da un'assolutizzazione dell'Antico Patto o della Grecia. L'incontro con Cristo aiuta la filosofia ad essere se stessa e quindi liberarsi da pseudo theologumena (cortocircuiti teologici che non sono al servirzio dell'amore gratuito. L'avvenimento di Cristo, non come assolutizzazione del passato, apre la strada ad un vero e fecondo incontro tra natura e grazia. E permette alla filosofia di comprendere la dimensione sovraessenziale dell'essere, cioè di superare la riduzione dell'essere ad una sostanza, ad un'essenza, ad una pseudo persona, come abbiamo già visto. Certo l'essere è anche materia, sostanza, essenza, persona, ma anche più di tutto ciò esso è amore gratuito.  RG)  

(10.10.20) Il ritorno immanente del "Signore", preparato attraverso la conclusione della differenza ontologica a favore del sapere assoluto, come Hegel lo compie, in modo particolare in entrambi i due ultimi capitoli della "fenomenologia dello spirito", la identificazione dell'essere come tale con l'essente concreto: come "paradiso terreno" di una già mediata "visio beatifica" del finito nel suo assoluto fondamento, in forza del quale Dio stesso viene depotenziato ad essere servo del dominio antidivino della contraddizione assoluta nell'ipostasi dell'essere "accanto a lui", erano solo conseguenze di questa appropriazione teologica della essenzializzazione dell'essere in una cosa. 

Giacché la liberazione del pensiero in forza dell'essere come tale oggi è percepita dappertutto e influisce sui pensatori non sarà risparmiato a questo nostro tentativo il rimprovero di essere teologia illegittima. In primo luogo la sfiducia che riappare di continuo e l'avversione contro la teologia si sentiranno provocati. Io so, però, che mi trovo senza dubbio in unità con le persone che sollevano questo rimprovero, con la motivazione spiegata. Forse lo sforzo di questi pensatori, appare, in questo che tentiamo di esprimere in parole, in una luce ancora più nitida, perché i motivi, in forza dei quali è sorta la loro intenzione, vengono riflettuti fino in fondo. 

Questo lavoro, in modo molteplice, trova una sua ultima grata fonte nel pensiero di Tommaso d'Aquino. Questo pensatore ha affermato che "non si fa filosofia per sapere cosa gli uomini hanno inteso, ma per sapere quale sia la verità delle cose" (In de caelo et mundo, 1.1.10) e nella Summa Theologica si esprime così: "Non enim pertinet  ad perfectionem intellectus mei, quid tu velis, vel quid tu intelligas, cognoscere, sed solum quid rei veritas habeat" (Th. 1.107.2).

Per questo motivo mi sono sforzato di condurre la discussione a partire dalla cosa,  di mettere l'errore al servizio della chiarificazione della verità e quindi di ringraziare in modo sincero anche chi si è sbagliato (cfr. Met. 2.1), giacché nell'imperversare e nelle colpe dell'errore si rivela la misura sempre più grande della verità e dell'amore che apriori lo ha reso possibile: "non vincit nisi veritas; victoria veritatis est caritas" (Agostino, sermone 358). Non dire tutto ciò sarebbe una falsa umiltà! 

È possibile che questo lavoro non si muova in ciò che ci è abituale, ma questo accade perché siamo in cammino; chi è in cammino spesso si trova da solo in ciò che non è abituale. Questi pensieri sono maturati nella contemplazione. Portano la copiatura della loro origine in sé e sfidano quindi il lettore con una comprensione che si muove in cerchio, che ripete e contempla. Spero che si intendano queste mie parole come preghiera, non come pretesa. 

Quanto più la verità si esprime in parole in modo davvero originario, tanto più essa coinvolge chi pensa nel giudizio del silenzio, dal quale la parola origina, dal quale vuole essere pesata e concepita nel ringraziamento. Ho potuto sperimentarlo proprio in questo cammino che ora alla "fine", che rimane anche sempre inizio, posso abbracciare con uno sguardo d'insieme. Una tale esperienza necessita un concludere ascoltando (Auf-hören) e ci arricchisce in questo nella speranza di un dire più maturo della verità.

I pensieri fondamentali di questo lavoro sono stati esposti dapprima nell'ambito della terza comunità di lavoro sulla filosofia di Tommaso d'Aquino nell'ottobre del 1956, nell'accademia "Alberto il grande" dei domenicani tedeschi (Walberg presso Colonia). Ciò che è stato esposto allora e qui ha potuto maturare. Lo avevano preceduto le seguenti analisi più grandi: "Essere e essenza" ("Sein und Wesen",1954). In questo lavoro mi sono sforzato di sviluppare un'"ontologia antropologica". Il "Tentativo di uno sviluppo speculativo di una dottrina originaria antropologica" ("Versuch einer spekulativen Entfaltung einer anthropologischen Urgrundlehre, 1955) si trova in una discussione filosofica con Anton Günther. Anche la mia dissertazione (Monaco 1955), nella quale cerco di interpretare e porre in dialogo la concezione di materia di Fr. Suarez, Duns Scotus e dell'Aquinate, a partire dall'esperienza specifica dell'essere di questi pensatori, è un pezzo di questo cammino filosofico.  

(In questo passaggio dell'introduzione di HA mi colpisce molto l'atteggiamento filosofico di Ulrich che non è per nulla arrogante, senza per questo essere falsamente umile: certo si fa filosofia per servire la verità e non per condiscendere le opinione degli uomini o le loro idee, anche se sbagliate. Ma anche gli errori nascono dalla verità, sono una riduzione della verità, per cui è possibile incontrarli con gratitudine (perché dall'errore possiamo risalire alla verità) e con la sapienza di Agostino: non può che vincere la verità e questa nella sua ultima evidenza è amore. Per quanto riguarda il contenuto: Ulrich non ha alcuna tendenza ad esaltare pseudo theologumena, che di fatto non reggono nello scontro con la verità. La vera teologia libera la filosofia a comprendere davvero la realtà finita, come dono e non come un essere accanto e concorrente di Dio, RG)   

Nella seconda lettera ai Corinzi (10,3-6) (1) Paolo dice che noi siamo in cammino nella carne, ma che non combattiamo secondo questa condizione. La "carne" sostanzializza l'essere ed erige accanto a Dio l'ipostasi dell'essere. Essa non vuole ritener per vero che l'essere è amore che si dona, vuole giungere attraverso la riflessione ad un essere che tenga fermo-a-se-stesso (2) ed attraverso la magia del "concetto assoluto" rivelare il se-stesso intimo dell'essere come amore con la forza dell'uomo. La "carne" vuole sottomettere tutto al "sistema assoluto", lo violenta, lo calcola, non lo lascia-essere. Non è raro che questo pathos dell'intolleranza festeggi nel pensiero filosofico le sue nozze. Si sente, in forza di un apriori pseudo speculativo della "pienezza del tempo", autorizzato a concludere la differenza ontologica, capace di una deduzione assoluta. Continuamente il pensiero corre il rischio di scivolare in un'identità falsa di natura e grazia per farsi vedere attraverso ciò perenne (per-enn). Paolo ha superato lo stordimento del pensiero, causato da pseudo theologumena, nel passaggio citato della sua lettera ai Corinzi, in questa frase: "Rendiamo ogni pensiero prigioniero all'obbedienza di Cristo" (2 Cor 10,5). Questa prigionia del pensiero nell'obbedienza a Cristo è la sigillatura ultima della sua libertà, in forza dell'essere come essere: "Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà" (2 Cor 3,17).

Ratisbona, Pasqua 1961                        Ferdinand Ulrich

(1) 2 Cor 10, [3] In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, [4] ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, [5] distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo. [6] Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta. NdT

(2) Che consideri se stesso un privilegio. NdT

(11.10.20) A. L'ESSERE E L'ESSERE DELL'ESSENTE

I. Il cammino del pensiero speculativo come compimento ontologico della speranza

1. Il movimento del pensiero e l'essere

Tommaso d'Aquino disse: "La nostra conoscenza è così inconsistente che nessun filosofo ha mai potuto studiare completamente la natura di una sola mosca" (1: Thomas, In sum. post.1.) Di fronte a questo fatto non è un'impresa del tutto vana, voler dire ed esprimere qualcosa  sull'essere dell'essente? Ovviamente lo scienziato della natura conosce molto di ciò che è una mosca, ma per quanto possa approfondire (hinein-lesen: leggere dentro un fenomeno;NdT) profondamente cosa sia questo essere vivente, per quanto possa interpretare (zusammen-lesen: mettere insieme ciò che si è letto in un fenomeno; NdT)  la molteplicità in esso, non potrà mai spiegarlo in modo definitivo (auslesen: leggere fino in fondo; NdT); poiché "la physis ama essere nascosta" (Eraclito).  

Ancor più si sottrae allora l'essere, dal quale tutti gli essenti sono chiamati tali, dal quale si origina anche la natura della piccola mosca, alla nostra conoscenza - come potremmo finire di leggere (auslesen) o comprendere (begreifen) l'essere? 

Piuttosto si potrebbe immediatamente domandare: esiste davvero un cammino della conoscenza, sul quale si possa sperare di arrivare là dove l'essere si riveli senza veli al guardare della ragione? Possiamo davvero metterci in cammino, muovendoci in fretta (2:Cfr. V. 15.1.)  da un essente all'altro, nella speranza, una volta, appunto dopo una lunga camminata, di trovare ciò per cui eravamo partiti? Dove si trova l'inizio di questo percorso? Questa impresa audace non ci porterà in luoghi così impraticabili, così che noi diventati muti, saremmo consegnati ad un'irrazionale mancanza di parole? 

Essendoci messi in cammino allora ci muoviamo e ciò con ogni passo in direzione della meta, perché questa "meta" è l'essere e "all'essere non si può aggiungere nulla che gli sia estraneo, cum ab eo nihil sit extraneum, nisi non-ens, quod non potest esse nec forma nec materia" (P.7.2.9.). Non possiamo fare alcun passo che sia al di fuori dell'essere..., sarebbe intrapreso nel non-essere. Siamo insomma sempre coinvolti nell'essere, pur essendo stati licenziati da esso nel bisogno e lo siamo in un rischio dei passi che non può essere mai calcolato temporalmente. Non siamo mai stati al di fuori di questo movimento verso l'essere come tale iniziando nell' "elemento del nulla", anche se la "meta", da se stessa, sembra per così dire esigerlo. Possiamo avere l'essere come meta, se la ragione è diventata vuota e si è liberata (ent-worden: si è liberata dal divenire; NdT) dall'apparente ricchezza degli essenti evidenti. 

(Dopo il paragone con la mosca, che comunque è anche un essere vivente che partecipa all'essere, Ulrich ci aiuta a comprendere una cosa decisiva: tutti i passi che noi facciamo, nel pensiero e nell'azione, si muovono nell'essere come dono d'amore. Perché nulla è estraneo a questo dono e non vi è una generalità, più universale, di questo dono. Ovviamente dovremmo capire meglio come mai ci troviamo nel bisogno (malattie, guerre...), ma questa comprensione non si trova fuori dall'essere come dono d'amore; al di fuori di esso vi è il nulla. Quando Papa Francesco insiste sul fatto che tutto è grazia - non che tutto diventerà, ma che è grazia, dice a livello teologico una cosa simile a quella che dice Ulrich a livello ontologico. Tutto si muove nell'essere, che è intimamente legato a quella grazia teologica di cui parla il Papa. RG)

(14.10.20) Che noi non giungiamo mai con il pensiero, come i brutalmente "abbandonati" al di là dell'essere, all'essere stesso, significa: la ragione conosce l'essere "per sua natura", "naturaliter". (Nota 4: G.2.83:: V. 11.1.3: "Ratio ipsius entis nobis ignota esse non potest"). Ciò a cui miriamo nel corso del pensiero, in forza del quale si passa attraverso e si risolvono tutte le domande, è l'essere. (Nota 5: "Terminus resolutionis ultimus est consideratio entis", In de Trinit. 6,13 ( = q 6.1.Co 22)). Noi cominciamo come coloro "che pensando sono stati da sempre presso l'essere" e per questo motivo incorriamo facilmente nella tentazione di credere di aver il lavoro del cammino dietro di noi, quasi come se l'essere già "avuto" rendesse non necessario i nostri passi. Per chi ha afferrato la meta, è il cammino fino ad essa già passato, già stato? 

Vero è che l'essere non è meta fondamentale del pensiero, nella modalità di un noi inteso come i continuamente impotenti e nel senso che noi nel cammino verso di esso saremmo tragicamente separati dall'essere o dobbiamo esservi posti unicamente attraverso un salto della volontà cieca verso il puro inizio, nella sua idealità mai raggiungibile. L'essere invece concede, all'interno di se stesso una differenza, la differenza liberante della meta nei confronti dei passi del pensiero, nella dimensione della molteplicità dell'essente. Questa differenza ci pone nel  "non ancora" della speranza, che come elemento vitale del pensiero speculativo impregna il suo ambito più intimo. 

(Per quanto l'analisi della nostra epoca come epoca nichilista sia giustissima, non il nulla del nichilismo, ma l'essere come dono d'amore gratuito è connaturale al pensiero e all'azione. Non é mai data una sicurezza del successo, ma è sempre data la certezza del dono avvenuto e che avviene. Per questo non siamo disperati, neppure come filosofi, ma certi di una certezza che ci si offre nella modalità della speranza e non del successo. RG) 

(17.10.20) Il puro intelletto, con le sue distinzioni e divisioni (prae-cisierende) e per questo nel suo essere immobilizzante, distrugge questo elemento della speranza nel lavoro della ragione, fissandoci nell' "essere-già-sempre-stati-presso-l'essere", facendo tramontare l'accadere del "futuro dell'essere" nel pensiero come passato, rendendolo per l'appunto del tutto accaduto e così invecchiato e senza alcun "avvento", oppure immobilizzandoci come gli abbandonati nel cammino, ci spinge in un futuro (come "privilegio" dice Paolo nel famoso inno di Filippesi, di una divinità che non si dona; RG) che tiene-fermo-a-se-stesso, un futuro che non si dona mai e ci getta in un inizio vano. 

(Nota 6: La vera differenza ontologica, che convince il pensiero nell'elemento della speranza, supera l'impazienza dell'intelletto immobilizzante e così lacerante nella "pazienza umile" della creatura che accetta se stessa. In questo modo si compie il rapporto attraverso la distanza, perché entrambi sono redenti, nella "pazienza che spera". In lei il pensiero è posto, lasciando il puro "passato" e il futuro che non avviene mai, nell'ora dell'"esserci" (della esistenza, RG). "Contro l'impazienza delle assolutizzazioni laceranti si impone piuttosto la "pazienza" dello stare in un "tra" realmente creaturale..." (E. Przywara, Essenz- und Existenzphilosophie (filosofia dell'essenza e dell'esistenza), Scholastik 14 (1939), p. 515-544; ibidem p. 541.))

Si rivela quindi, a partire dall'essere che apre la differenza ontologica, che sono gli essenti e non l'essere che ci accoglie: noi ci muoviamo nell'essere, essendo in cammino nella molteplicità dell'essente. 

(Qui Ulrich ci aiuta a trovare una posizione filosofica (con conseguenze anche teologiche) davvero "cattolica", davvero "creaturale" al di là degli estremi del tradizionalismo e del progressismo. L'antinomia tra un solo passato e un solo futuro non si sviluppa in una contraddizione conflittuale, ma trova il suo terreno fertile nella pazienza del "tra".RG)

Solo che noi volevamo giungere all'essere come tale! La nostra meta era di arrivare dove l'essere come essere "c'è"...Ma forse non esiste questa dimensione dell'essere come tale per sé? Non ci è stato da sempre dato l'essere nel e attraverso gli essenti? Non lo abbiamo percepito da sempre negli essenti, leggendo in essi, poiché in vero tutto l'intelligere della ragione è un intus-legere?

Si, da sempre abbiamo percepito l'essere; poiché "quod primo intellectus concepit quasi notissimum, et in quod omnes conceptiones resolvit, est ens" 

(Nota 7: V 1.1. Nel seguito del lavoro sarà più chiaro come mai traduciamo qui ens con essere. )

Per questo motivo siamo già da sempre nella "meta". 

La domanda che ci ha mosso si pone ancora una volta: in ciò non è cancellato ogni movimento dentro la meta? Non siamo prigionieri in questa impresa di un'impotenza del non poter trovare le parole adeguate per esprimere l'essere come essere? Non siamo stati imprigionati per così dire nel nostro "essere-da-sempre-giunti-alla-meta" in un passato che non ci permette di proseguire il cammino? 

Non siamo nel nostro intento, nel più vero senso del termine, senza speranza (aussichtslos, letteralmente: "senza vista". RG)? Non siamo spinti semplicemente a rinunciare al nostro cammino verso l'essere come essere e di accontentarci di quello che ci troviamo davanti, da cui da sempre siamo coinvolti (eingenommen) e spesso anche stravolti ("benommen")? Non vogliamo accontentarci del nostro mondo abituale, assicurato e "registrato"? Non siamo piuttosto presso l'essere come essere se ci muoviamo nel terreno dei nostri affari quotidiani e dei fatti?

O esiste un movimento verso l'essere come essere che come tale è un movimento radicale e allo stesso tempo, proprio nel suo essere movimento, ha da sempre il suo cammino dietro di sé e in questo senso si trova alla meta? Ciò sarebbe un movimento del pensiero, che secondo l'interezza del suo compimento è stato affidato da sempre all'origine e alla meta ed è stato inviato nel cammino in forza del movimento preteso dal mistero dell'essere. 

(Traducendo mi accorgo come il linguaggio di Ulrich, che contiene ovviamente anche termini tecnici filosofici, è fondamentalmente quello quotidiano. E in questa "piccola via" del quotidiano è precisissimo. RG)

2. Il "pensiero circolare" 

(18.10.20) Si, esiste un pensiero che si muove nel modo descritto. È il pensiero circolare, che nel cammino, ma proprio in questo suo passo, già da sempre è raccolto nella e giunto alla meta, nel centro del cerchio, ha unito in antecedenza e da sempre tutti i passi e il procedere da uno all'altro. 

(Per evitare associazioni false vorrei precisare che questo pensiero circolare di Ulrich non ha nulla a che fare con il pensiero sferico criticato da Jorge Mario Bergoglio/Papa Francesco e a cui il Papa contrappone il pensiero poliedrico. Ulrich ha già chiaramente detto che il pensiero della differenza ontologica si muove nella molteplicità poliedrica, per così dire. Il pensiero circolare non è un pensiero di "teologia o filosofia politica" che crede che tutta la realtà si muova intorno al proprio centro politico, ma un metodo ontologico in cui il procedere del pensiero non è arbitrario, ma un ripetere spostando il discorso in avanti. RG)

Il pensiero circolare anticipa se stesso nel movimento: "Motus circularis est perfectissimus...quia finem conjungit principio".

(Nota 8: Met. 1.1-5; cfr. per questo anche V. 8.15.3; ebenso Th. 2-2.180.6.2: Il "movimento circolare dello spirito amante"..."indesinenter absque principio et fine sicut motus circularis"...)

Così l'essere sarebbe il centro di questo pensiero, un centro che come tale non è mai "avuto", all'infuori che nel cammino che avanza nella molteplicità dell'essente - così come il procedere di questo pensiero non può essere assolutizzato, ragionando nella modalità di un binario unico e cadendo così nel vuoto, piuttosto è "conservato e superato" (traduco con due parole il termine tecnico filosofico: "aufghoben". NdT) nel centro, come sua origine e meta. Il raggio di questo cerchio è tuttavia la differenza ontologica, nel cui elemento è presente la speranza. A partire da questa il pensiero giunge nel suo cammino e viene lasciato entrare, nel suo rapporto con il centro, nel "luogo" che accade di volta in volta nella sua esistenza, e in questo modo viene determinato dalla pienezza dell'origine.  

Detto questo siamo confrontati con una nuova domanda: se il raggio del cerchio è la differenza ontologica, quest'ultima non viene ad essere determinabile in modo "lineare" e raggiungibile nella riflessione, nella situazione puntuale del pensiero, nella svolta della circonferenza? No! 

Se il raggio della differenza fosse raggiungibile razionalmente, allora la speranza, il non-ancora, il rischio dei passi sarebbe dissolto e ridotto a passato e trasformato nel "pensiero assoluto", che in modo lineare, "discursus de uno in alio" (cfr. V 15.1), sarebbe insomma piegato e calcolato in un centro del cerchio, fissato una volta per tutte. 

Dobbiamo considerare una modalità triplice della "conservazione" e del "superamento" (come ho già detto traduco con questi due termini, quando è possibile, il termine hegeliano "Aufhebung"NdT) che il pensiero circolare esperimenta nella differenza ontologica. 

Il pensiero è conservato e superato perché nel centro calmo esprime se stesso come movimento e in questo modo, in un certo senso, cancellato come movimento - e tuttavia non annullato del tutto, piuttosto proprio così "conservato" (aufgehoben), nel senso appunto di una conservazione e per questo anche di un essere dimesso, lasciato-essere, non trattenuto nella conservazione stessa, piuttosto attraverso di essa incitato, attualizzato, in modo più proprio come movimento, insomma "superato" in se stesso. 

In questo movimento del pensiero la cogitatio rimane come co-agitatio interamente ciò che essa è: un guardare dei sensi che si esprime nella molteplicità e diversità delle cose che appaiono , "nel cui guardare essa si raccoglie in sé e si estende, ritornando in se stessa, verso l'unica e semplice  verità" (Nota 9: Cfr. Th. 2-2.180.3). La cogitatio è nello stesso tempo co-agitatio, come intelletto che divide e connette, nel colligere del intus-legere, che conduce il discursus. "Il "percepire dei sensi", le immagini immaginate, il discursus della ratio" (Nota 10: ibidem) appartengono al colligere.  

(19.10.20) Ma questo procedere nella molteplicità, nel pensiero circolare si trova raccolto in riferimento a qualcosa di semplice: "l'intuitus della ragione" 

(Nota 12: Th. 1.79.8; V 15.1. Il movimento del pensiero che dapprima ci si è rivelato nella verticalità della differenza ontologica, si fa vedere ora, nell'orizzontalità, come compimento conoscitivo dello spirito che ha un corpo. Nell'avanzare espressivo nel mondo, sulla via dei sensi, e nel ritorno spirituale che si raccoglie in se stesso. L'intimità più interiore dello spirito e l'esteriorità più esteriore dei sensi non si lasciano unire e calcolare con una retta "lineare" tra due punti, come non è possibile determinare la differenza dell'essere nei confronti della molteplicità dell'essente come "raggio lineare". Possiamo già qui vedere che il movimento circolare dovrà essere compreso, in un certo senso, in modo più profondo. Non sarà possibile fissarlo come centro del cerchio, piuttosto aprirà la "linearità" del raggio.) 

In questo si rivela la modalità particolare di questo pensiero circolare. È originariamente meditazione. "Meditatio...est intuitus animi" - ma nella costituzione finita del suo essere in cammino - "in veritatis inquisitione occupatus" 

(Nota 13: Th. 2-2.180.3; cfr. Th.2-2.2.1: "...Cogitatio proprie dicitur motus animi deliberantis nondum (il non-ancora della speranza!) perfecti per plenam visionem veritatis.")

In modo molteplice tuttavia, corrispondentemente alle via via diverse dimensioni dell'esistenza, all'interno delle quali la cogitatio si raccoglie pensando, l'intus-legere della ragione si interpreta come "gioco" del pensiero circolare. Gioca, perché nel suo movimento è sufficiente a se stesso. Ci sono, però, diversi generi degli ambiti del reale, "quae interius latent, ad quae oportet cognitionem hominis quasi intrinsicus penetrare" (Nota 14: Th. 2-2.8.1). "Cognitio autem intellectiva penetrat usque ad essentiam" (Nota 15: ibidem), perché l'intelligere è capace di leggere nella natura dell'essente: "dicitur enim intelligere quasi intus legere" (Nota 16: ibidem). Così, nei diversi generi di ciò che sono dati di fatto, nella profondità della natura e dell'essere del reale che via via si nasconde, anche l'intus-legere della ragione si giocherà in modo diverso. 

Poiché una volta si nasconde "la natura sostanziale delle cose dietro gli accidenti" (Nota 17: ibidem), "e al contrario dietro le parole si nasconde ciò che esse indicano" (Nota 18: ibidem), verso la meta, però, è aperta ogni parola giustamente percepita ed espressa: "poiché la parola ha con il reale, che viene espresso con essa, più coincidenza nella sua natura che con con chi la pronuncia, anche se riposa in chi parla come nel suo portatore" (nota 19: De nat. verbi intellectus, 1.)  Tommaso continua: "Sub similitudinibus et figuris latet veritas figurata: res etiam intelligibiles sunt quodammodo interiores respectu rerum sensibilium, quae exterius sentiuntur, et in causis latent effectus et e converso" (Nota 20: Th. 2-2.8.1). Dobbiamo considerare attentamente questo "et e converso", perché dice che al contrario anche gli accidenti, nei quali si afferma la natura delle cose, nel suo produrre e rappresentare, possiedono una modalità di nascondimento nella natura sostanziale della cosa stessa, come anche le parole in ciò che in esse si rivela;  infine viene detto che le immagini sono nascoste nella natura delle cose, che insomma l'exterius possiede un interius, che nelle cause si nascondono gli effetti e sono "originariamente" identici con le loro cause. 

(Questo passaggio rivela la verità ultima del "pensiero debole" (Gianni Vattimo) postmoderno che ha rifiutato di pensare in modo essenzialistico; anche Ulrich, seguendo e interpretando nuovamente Tommaso, fa vedere che gli accidenti rivelano nascondendola la verità e che il pensiero è una meditazione in cammino, non un sistema chiuso che ci presenta una volta per tutte l'essenza delle cose, pur non negando che essa esista. RG) 

(20.10.20) Nell'esteriorità della cosa che si rivela e si visualizza viene svelata l'interiorità in modo tale che proprio l'essere rivelato accade nella modalità del nascondersi: ciò significa un ritorno nell'interiorità, che è propria al motivo elementare della cosa stessa (Grund = vorrei evitare di usare la parla "fondamento", per motivi di linguaggio cui ho accennato qui sopra nei giorni scorsi. Ed anche perché ciò di cui qui si tratta è una questione elementare e non  elitaria fondamentale. RG). Il motivo ultimo può venire fuori, nel suo apparire e nel suo operare, solamente in questo intimo essere-raccolto. Tommaso continua così: "Et respectu horum omnium potest dici intellectus" (Nota 21: ibidem). All'interno di questa differenza tra "exterius und interius", nella quale si interpreta la differenza originaria dell'essere nel non-ancora della speranza, gioca il suo ruolo la ragione umana. 

Nell'uscita e nel raccoglimento l'intelletto compie sempre la differenza ontologica: nel rapporto tra "accidente e sostanza", "parola e significato", "immagine e verità", "essere sensibile ed intelligibile" e finalmente nel rapporto tra "causa ed effetto". Dappertutto la ragione è liberata camminando nell'"exterius" e proprio leggendo nell'interius e percependolo in quest'ultimo. Così essa si muove nella "inquisitio della coagitatio". Discurrens de uno in aliud.  In questa ricerca che spazza (auskehrende Suche) via ciò che non è proprio alla cosa è sempre raccolta (eingekehrt) nell"interius" e nel ritorno riunificante si trova nel motivo essenziale ed è in esso è cammino. Così l'intelletto è nell'intuitus "in veritatis inquisitione occupatus" (Nota 22: Th.2-2180.3). Si è espresso nell'"exterius", come allo stesso tempo è raccolto ed unito nell'"interius" dell'intus-legere. In questo modo il pensiero procede nel suo cammino in modo circolare e proprio in questo ambito conflittuale, che non può essere riportato a casa riflessivamente, "superato e conservato" nella modalità triplice, che abbiamo già tentato di spiegare. 

(21.10.20) La ragione ha come meta la natura della cosa (Wesen der Sache), poiché il suo oggetto è: "quod quid est" (Nota 23: Th.2-2.8.1). Ma si stende al di là di questo oggetto, in una dimensione più profonda, poiché la natura della cosa, è determinata a partire da un motivo elementare ancora più originario , che anticipa ogni "interius" dell'essere vivente (Wesens). Questo motivo elementare è l' "intimum cuilibet rei": l'essere (das Sein). "Esse autem est illud, quod est magis intimum cuilibet rei et quod profundius omnibus inest, cum est formale respectu omnium, quae in re sunt" (Nota 24: Th. 1.8.1) Di questo intimum di tutto ciò che è interius e exterius, però, Tommaso afferma che è "il primo effetto che anticipa ogni cosa. Esso, però, non presuppone nessun altro effetto (o alcunché di ottenuto)" (Nota 25. P.3.7.). L'essere è "intimior omnibus alias effectibus" (Nota 26: P. 3.7.). 

(Qui facciamo i primi grandi passi per comprendere cosa Ulrich intenda con esse (Sein): si tratta di un primerear, per usare la parola creata da Jorge Mario Bergoglio. Non vi è nulla di più generale, più formale, più intimo di questo essere che è amore donato gratuitamente. RG)

(22.10.20) Abbiamo appena visto tuttavia che la ragione entra in gioco nel rapporto tra effetto e causa (e viceversa). In questo possiamo parlare di un intus-legere nella causa, "poiché tutto il reale opera alcunché a lui simile" (Nota 27: P. 7.2.3). In questo modo in tutto ciò che è stato operato è presente l'immagine della causa operante, nella quale si nasconde l'effetto. Nell'effetto, però, si può leggere la causa. Perciò deve valere l'intus-legere, anche in un senso ultimo, tra il primo effetto e la sua causa. Il rapporto deve valere tra l'essere, come "immagine della bontà divina" (Nota 28: "Esse est similitudo divinae bonitatis", V. 22.2.2), e Dio stesso. Anche qui si rivela la verità: "L'effetto si nasconde nella sua causa e viceversa". Allo stesso modo nel rapporto tra il primo effetto e la sua causa deve entrare in gioco l'intus-legere, nel suo percepire. 

(Per Ulriche e Tommaso l'esse non è alcunché di neutrale o solo generale: è "similitudo divinae bonitatis", è immagine della gratuità dell'amore amore assoluto e gratuito. Il mistero dell'amore divino si rivela e nasconde nel mistero dell'essere donato per amore. RG) 

Cerchiamo dapprima di interpretare più da vicino l'espressione: "e viceversa". Allora la frase significa: "causa latet in effectu": Dio si rivela e si nasconde nell' essere, nella sua immagine massima. Come dobbiamo comprenderlo? Tuttavia in questa domanda ne appare immediatamente un'altra! C'è qualcosa come una similitudo vicendevole del primo effetto di Dio, che è l'essere, con Dio e viceversa? O non dovremmo dire piuttosto: così come l'immagine è simile all'uomo e non viceversa, l'essere è immagine di Dio e non viceversa? E se viene posta una "similitudo mutua", non sarebbero Dio e l'essere, che non è Dio, resi pari, l'uno con l'altro, in un ordine più generale? L'essere non sarebbe ipostatizzato accanto a Dio e Dio determinato dal suo primo effetto, in cui sarebbe senza dubbio risucchiato? Non presupponiamo tutto ciò dicendo che Dio si nasconde nell'essere?  

(Queste domande sono di importanza capitale, sia per la teologia che per la filosofia. Per la teologia, perché senza la differenza tra Dio (ipsum esse subsistens) e l'essere (ipsum esse) essa corre il rischio di essere risucchiata verso il basso. Per la filosofia invece è in gioco la tentazione contraria: di non essere per l'appunto più ancella, ma domina. RG) 

3. L'essere come "centro" del pensiero speculativo nel suo svolgimento 

Abbiamo affermato che l'essere è il centro dello svolgimento speculativo della ragione, nel movimento circolare del pensiero. Ora proprio questo centro diventa incerto. Esiste davvero questo centro? Si lascia l'essere fissare come centro così che la differenza ontologica possa essere conclusa nella riflessione, a partire dal centro fino al giro più ampio circolare di cui stiamo parlando?  

Tommaso dice: "Ipsum esse est actus ultimus, qui participabilis est ab omnibus: ipsum autem nihil participat" (An.6.2). Consideriamo, però, che Dio non è l'"actus ultimus". L'actus ultimus è piuttosto il primo effetto di Dio e non coincide, in un certo senso, che dovremmo ancora spiegare, con Dio 

(Nota 31: Lo stesso afferma Heidegger: "L'essere... non è Dio..." (Humanismusbrief (lettera sull'umanesimo), cfr. Martin Heidegger, Gesamtausgabe (opera omnia), I. parte, volume 9, 331, Francoforte sul Meno, 1976. Solamente che l'essere non può essere costituito come un "atrio" di Dio, che ci conduce nell'assoluto santuario di Dio. Questa ipostatizzazione dell'idealità dell'essere come essere è stata compiuta in ogni filosofia dello spirito, con necessità speculativa, laddove si trattava di lasciare aperta la dimensione mediatrice dell'essere come essere, per superare la creatura, che si chiude in se stessa nominalisticamente come res fattuale, nel fondamento (Grund:  qui ha senso tradurre così. NdT) assoluto, cioè di depotenziarla nello stato di autonomia che si è arrogata. L'univoco ens commune di Duns Scotus trova qui le sue radici, cioè nella sua indifferenza al riguardo dell'ens infinitum e finitum (cfr. Quod. 14.13). Lo stesso vale per maestro Eckhart: "Perché l'essere è presente laddove Dio vive come nel suo atrio...la ragione è il tempio di Dio"; nella predica su Jesus Sirach  50, 6 sg. )

C'è insomma una differenza tra l'ipsum esse e Dio o meglio: una differenza che accade nell'infinità di Dio. Per questo si può dire: nell'essere stesso si nasconde Dio.  

(23.0.20) Solamente che l'ipsum esse è "nulla" tra Dio e ciò che è creato, poiché Dio supera ogni "terzo" come istanza intermedia - il che non significa: come "mediazione pura" - tra sé e la creatura; "non potest aliquid esse medium inter creatum et increatum" (Nota 32: V.8.17). L'altro, nei confronti dell'essere sussistente è "nulla". Questo "nulla" è la differenza tra ciò che è creato e Dio. Giacché tutto ciò che è intermedio è cancellato, l'actus ultimus è il primo effetto di Dio, nella sua assoluta potenza della sua causa, nascosto in Dio. E questo significa che l'essere come essere non esiste come un intermedio tra Dio e le creature. Se ci domandiamo quale sia la sua sussistenza come essere, essa è Dio stesso. 

(Questo passaggio è di notevole importanza per comprendere che cosa intenda Ulrich con la parola "nulla" - non sta parlando del nulla nichilista, ma del nulla dell'amore gratuito, quella realtà che rivela anche il linguaggio: la risposta che diamo a chi ci dice grazie è "non fa nulla", "non c'è di che". RG) 

(24.10.20) Vediamo ora in modo più chiaro come si nasconda, a partire dalla differenza dell'essere e di Dio, da una parte quella dell'effetto nella causa, ma anche quella della causa nell'effetto.L'intelletto non può leggere, quindi, affatto "nell'" essere, come il primo effetto di Dio, (Nota 33: P. 3.4) la causa, perché egli non può sostare nell'intermedio tra Dio e ciò che è creato. Se prendesse per sé l'essere come "primo effetto", allora non giungerebbe in alcun "Interius". 

Così la ragione giunge solamente nell'"inizio", essendo già da sempre in cammino "da una cosa all'altra", sebbene gli essenti non siano il primo effetto di Dio. Solamente quando la ragione si apre all'essere in modo tale che sperimenta il centro del cerchio circolare come "nulla" che possa essere fissato accanto a Dio e così essendo da sempre in cammino nella molteplicità dell'essente, è capace di toccare Dio, nell superamento del finito, la cui massima immagine "è" l'essere. 

(Certo vi sono tanti autori cristiani che intuiscono ciò senza esprimerlo, ma l'esprimerlo è importante per evitare ogni forma di filosofia elitaria che pensa, ragionando ontologicamente, di essere più vicina al mistero del reale. RG)

La ragione non può quindi costruire l'essere come centro, anche se essa non potrebbe esercitarsi come tale, se fosse separata da questo "centro". Il procedimento circolare si illumina da un "centro" che attualizza e incita tutto il pensare e tuttavia non è permesso al pensiero di essere movimento intorno a questo centro:  in questo modo si distruggerebbe come pensiero. Così sperimenta la ragione, nel suo esercizio circolare intorno al "centro dell'essere" una continua contraddizione

Si muove intorno ad un centro che non "è" un centro. Non può costruire questo centro come luogo dell'inizio speculativo o trattenersi in esso. Se si fissa in questo centro, ipostatizza l'essere e cade nella contraddizione: "l'essere è nulla", "il nulla è l'essere". 

La ragione finita può tentare la dissoluzione di questa contraddizione in diversi modi, perché ciò per essa rappresenta una tentazione potente. Per esempio: l'essere stesso non "è"...; in questo caso il pensiero ricade nell'impotenza dell'intelletto puramente discorsivo che vaga nell'uno accanto all'altro degli essenti e la forza di percezione della ragione, che è aperta al motivo elementare ed unificante dell'essere, viene sostituita con la posizione della potenza costruttiva di una razionalità concettuale "unificante", che è estranea all'essente. Dio diventa postulato come la meta unificante ultima.  

Un'altra tentazione: l'essere non "è". Si spalanca così tra gli essenti finiti e Dio (la "res" assoluta) l'abisso del nulla. Il finito non è più conservato e superato nella ragione infinita di Dio. La luce dell'essere mediante si è oscurata. Quindi all'inizio deve trovarsi la volontà d'azione dell'assoluto, non il Verbo che procede in Dio nel modum intellectus. L'essere come primo effetto di Dio è diventato una volontà di potenza che pone il reale. 

(Che lo pone, impone appunto, non lo dona. RG) 

Una tentazione più profonda, forse la più grande, attira il pensiero nel "luogo della contraddizione" stessa. Giunta in questo luogo la ragione sperimenta che l'essere è "nulla". Subito viene spinta in questo luogo, in cui l'essere non è più "essere vuoto", cioè nulla, ma piuttosto come essere mediante è essente,  dalla contraddizione stessa. La cancellazione della contraddizione deve accadere in due modi, giacché l'essere da sempre è essere infinito o finito. Insomma la ragione nella dissoluzione della contraddizione viene nello stesso tempo (!) cacciata via nel finito e nell'infinto e questo a partire dal "centro" dell'essere in una sola mossa, così Dio stesso viene determinato, nell'incarnazione dell'essere vuoto, nelle sue inferiora. L'essere è degradato in una potenza capace di determinazioni.  

(Con un linguaggio filosofico, quotidiano e preciso nello stesso tempo, Ulrich ci fa vedere alcune delle tentazioni del pensiero, quando esso si chiude in un sistema, invece di essere aperto. Il pensiero circolare diventa una priorità dello spazio sul tempo, per parlare con il linguaggio di Bergoglio, mentre esso proprio nel suo movimento dovrebbe esprimere la priorità del tempo sullo spazio. Non si tratta di occupare spazi interpretativi come volontà di potenza, etc. ma di mettersi in cammino. E per camminare ci vuole tempo, un tempo che evita che il pensiero sia chiuso o solo contraddittorio. Il pensiero circolare deve imparare a cercare quell'unità del reale come dono d'amore, invece che di cadere nella tentazione di una unificazione solo concettuale. RG) 

(26.10.20) In tutto ciò la cosa più importante è dapprima l'esperienza che la ragione non può insediarsi nell'essere come essere e a partire da esso, come ratio discurrens, rielaborare il paesaggio immenso dell'esistenza. L'essere accanto a Dio o sugli essenti (preso per sé) non è un fondamento (Grund) che abbia un terreno per se stesso. L'essere è senza-fondamento (Abgrund: abisso). (Traduciamo qui con fondamento la parola Grund che ho anche tradotto con motivo elementare, per riprendere, per quanto possibile, i giochi di parole del tedesco di Ulrich e perché in questo contesto la traduzione è sensata. NdT). Con altre parole: Non nell'essere come primo effetto di Dio "relucet similitudo causae" (Nota 34: Cfr. Th. 2-2-180.3.2.), in caso contrario l'essere sarebbe sostanzializzato come un essente e posto per sé. In verità l'essere stesso è "similitudo divinae bonitatis" (Nota 35: V.22.2.2.). Come similitudo risplende sulle creature e a partire da esse: "Res inquantum sunt, Dei similitudinem gerunt" (Nota 36: G.3.65.). Possiamo vedere già ora in quale pericolo e in quale tentazione ci muoviamo, volendo dire qualcosa "sull"'essere come essere. Ci muoviamo nella tentazione di fissare l'essere come "centro", di cercare nel primus effectus la similitudo divinae bonitatis e di sacrificare l'essere, per questo motivo, alla dialettica della "contraddizione assoluta". 

(Come nella teologia politica, in cui dalla teologia si esplicitano direttamente posizioni politiche, il pensiero sferico non permette di rispettare la realtà molteplice e poliedrica, tanto meno lo può nell'ontologia. Non possiamo impossessarci del dono gratuito d'amore per farne una gnosi che interpreti la complessità del reale. Come nella politica non esiste un centro legittimo, fissato il quale si capisca quale sia il bene per l'uomo, così non esiste una gnosi che permetta all'uomo di  impossessarsi dell'essere. RG) 

Non c'é nell'essere stesso alcun inizio, se non si vuol far salire sul trono della ragione la contraddizione. L'essere stesso "è" come essere similitudo, e guardando in profondità Tommaso dice che l'essere è "similitudo divinae bonitatis" (Nota 37: V.22.2.2) che non rappresenta alcuna espressione di una realtà che "dapprima" tenga-ferma-se-stessa (che considera se stessa come un privilegio. NdT)  o di qualcosa che non si esprima. L'essere non può mai, neanche in un momento di una pura determinazione riflessiva, essere fissato in se stesso, per poi potersi esprimersi o detto altrimenti per rendere possibile alla ragione lo sviluppo della differenza ontologica. L'essere, nella sua emanazione, che è del tutto dono, non comincia nel donarsi "in se stesso". Se fosse così l'essere non sarebbe donato completamente. Per ora ci limitiamo ad un accenno provvisorio al tema. 

Nonostante ciò la ragione necessita l'essere come "centro", ma così che essa è sempre ragione in cammino, cioè intelligenza. Si, la ragione arriva ad essere in cammino, come vedremo, solamene a partire dalla dimensione della sensualità originata in essa. Lo stordimento della ragione, però, nel "centro" dell'essere sostanzializzato rende inconsistente la "piccola via", nella pienezza imprevedibile dell'essente materiale, cioè la rende "passata". 

(La "piccola via" è il metodo esistenziale e teologico della piccola Teresa del Bambin Gesù e del Volto Santo; essa è anche il metodo filosofico di Ulrich: una posizione ontologica che ipostatizza l'essere, nel modo sopra visto, stordisce il pensiero, non lo rende aperto alla realtà nella sua complessità. Questo è possibile solamente nella piccola via dei sensi e della materialità donata. Il cammino al vero, in modo particolare al vero ontologico, è  un'esperienza. Non è un caso che Ulrich abbia sentito Giussani come un vero fratello nella fede. RG) 

(27.10.20) Nel movimento del pensiero circolare viene alla luce la differenza dell'essere nei confronti dell'essente, che da sempre è già realmente posto. Questa è determinata dalla differenza dell'essere con Dio, che rimane la sua profondità normativa. La differenza ontologica stessa è il "radius" che non è possibile concludere linearmente e nel quale tutto il movimento del pensiero finalmente si trova nel suo "centro". Il "progresso lineare" della ragione non può essere mai trasformato in un cerchio chiuso intorno a questo centro. 

(Il "pensiero aperto", come fa vedere Stefan Oster nella sua dissertazione sull'eucarestia, in dialogo con Hans-Georg Gadamer, è un esigenza ineliminabile della filosofia; in questa critica di Ulrich del progresso lineare della ragione viene offerta la motivazione ontologica del pensiero aperto. RG)

(28.10.20) La ragione guarda alla causa "attraverso" l'effetto. Non guarda, però, Dio "attraverso" il suo primo effetto, l'essere. Sebbene in ogni effectus brilla e risplende  la similitudo della causa, il primo effetto stesso è del tutto similitudo che brilla già da sempre negli essenti reali. Tommaso, però, dice: "Videre autem aliquid per speculum est videre causa per effectum, in quo eius similitudo relucet. Unde speculatio ad meditationem reduci videtur" (Nota 38: Th.2-2.180.3). Il pensiero circolare è nel modo più profondo speculativo. In modo speculativo la ragione scopre gli essenti orientandosi all'essere, senza poterli mai ridurre linearmente all'essere stesso. Guarda nella luce dell'essere, senza potere legare a sé l'essere come essere o percepirlo. Perciò proprio la ragione speculativa viene necessitata dalla luce dell'essere, perché questa non si fissa su se stessa o lascia giungere al suo termine la ragione "accanto a" Dio, di superare l'essente nel suo motivo elementare (Grund). Questo atto libera la ragione illuminata dall'essere, nello stesso modo, per la luce della verità assoluta, come la ragione, proprio attraverso ciò, giunge, sulla "piccola via" alla varietà del finito.

(Nota 39: Qui giace nascosta la verità di cui vive la cosiddetta "contraddizione", cioè che il pensiero non si lascia fissare nell'essere, ma lo spinge di volta in volta al concreto essere, infinito o finito che sia). 

(Tra Martin Heidegger e Ferdinand Ulrich vi è certamente anche una grande differenza nel modo di pensare ed affrontare il reale, ma tra questo inizio del HA e l'inizio di "Essere e tempo" vi è anche una similitudine: entrambi cercano la "cosa stessa", cercano un accesso fenomenologico al reale, non si vogliono installare nella "scienza" o nella "filosofia", ma pensano che la più grande sfida ontologica si giochi nella quotidianità e nella sua interpretazione. RG)

(31.10.20) Nella luce-buio del contatto razionale con Dio quindi il pensiero ha misurato la differenza ontologica, il raggio del movimento circolare del pensiero, nella modalità triplice del superamento-conservazione che abbiamo già esposto. Ha toccato l'essente positivo e finito nel suo motivo elementare e in questo modo ha scoperto la figura del suo essere causato, nella differenza di essere ed essente, cioè nella dimensione della partecipazione dell'essere. Poiché, però, all'interno di ciò ha anche sperimentato, allo stesso tempo, la differenza tra l'essere e Dio, dalla quale si chiarisce che non sussiste l'essere come essere accanto a Dio, così la scoperta della dimensione della partecipazione non viene infilata nell'essere "come tale", piuttosto si apre, nello stesso tempo, alla comunicazione dell'uomo con tutto l'essente, nel quale brilla l'unificante "vis concretiva" dell'essere come amore. Questo accade attraverso la ragione capace di percepire l'essere. Per questo motivo possiamo leggere in Tommaso: " omnes causae create communicant  in uno effectu qui est esse, licet singulae proprios effectus habeant in quibus distinguuntur" (P. 7.2) 

(Questo significa che tutte le distinzioni necessarie per comprendere il reale non accadano al di fuori, ma all'interno della partecipazione al dono dell'essere come amore. Ieri nel servizio della Parola che ho tenuto a scuola per il ragazzo che si è ucciso, all'inizio della settimana, ho cercato di mettere in pratica ciò che sto imparando da Ulrich: il suo essersi ucciso non è un atto d'amore né di partecipazione all'essere come amore, ma quest'ultimo è il contesto ontologico in cui si può, almeno un po', comprendere anche quel gesto disperato. RG) 

II. Spiegazione provvisoria della "crisi dell'essere" a partire dalla bonitas 

1. Sforzo e tentativo del pensiero nell'esperienza del senso dell'essere 

Si obbietterà che noi, nonostante quanto che abbiamo precisato, tentiamo continuamente di trovare nell'essere stesso l' "inizio puro" dello sviluppo speculativo. Noi, come Hegel nella sua Logica, poniamo l' "inizio" nell'essere. Ciò che, però, per noi conta è di smascherare questo essere nella sua "pseudo sussistenza" e in questo modo di scoprire la contraddizione, che è stata innalzata ad elemento del pensiero speculativo. 

Ma se il movimento del pensiero mira all'essere come essere, cadrà allora infallibilmente nella contraddizione, che sembra essere necessariamente posta con un tale inizio? 

Vero è invece che la contraddizione, anche se l'inizio è audace, sarà superata. È già dissolta quando il pensiero segue l'esprimersi dell'essere, poiché la ragione non si lascia fissare nella pseudo ricchezza di un centro ontologico sostanzializzato, piuttosto viene invitata con insistenza nella povertà della "piccola via". Nell'obbedienza nei confronti di questo invito insistente il pensiero consiste nella differenza ontologica e supera la tentazione della contraddizione: "l'essere è nulla". Il superamento della contraddizione riesce solamente se il pensiero si è messo già da sempre in cammino "al di fuori" di questo "luogo" critico, come pensiero finito. In esso legittima che l'essere è "similitudo divinae bonitatis" (Nota 40: V. 22.2.2.) La ragione che sta nell'ordine dell'amore assoluto, desostanzializza la "sospensione dell'essere" (Seinsschwebe), non può fissarsi in essa, si orienta radicalmente alla molteplicità del finito. Ha per così dire Dio sempre "alle spalle", ma questa "assenza di Dio", questa oscurità e lontananza sono testimonianza della sua vicinanza. L'essere "accanto a lui" c'è lo estranierebbe davvero. La "mediazione pura" dell'essere, che è "nulla", rivela l'infinita presenza d'amore di Dio.

(Nota 41: Qui si dovrebbe ricercare in quale modo venga vissuta l'esperienza ontologica della "lontananza di Dio" nell'"ateismo" moderno. Non è in fondo questa la chance di un'esperienza più profonda dell'impossibilità dell'ipostasi dell'essere accanto a Dio? Anche Hegel aveva, attraverso "la ragione pneumatica", attraverso il pneuma (amore!) che dona energia allo "spirito" tentato di rivelare l'uso medesimo di essere e "nulla", nella sua "Logica", per giungere alla deipostatizzazione dell'essere e in questo senso anche per giungere alla mediazione del finito nell'assoluto. Come mai questa impresa, non riuscì sarà più chiaro nel procedimento di questo lavoro). 

(Bisogna distinguere tra la contraddizione nichilistica tra "essere e nulla" e "il medesimo uso di essere e "nulla": questo medesimo uso ha a che fare con la gratuità del dono d'amore, che viene donato per nulla, cioè gratis et frustra. RG) 

Qui l'affermazione speculativa "sull'" essere non viene imprigionata in una pseudo sussistenza a misura della ragione finita, come "medium inter creatum et increatum" (Nota 42: Cfr. V. 8.17). 

A partire da questo "inizio" si compie il movimento radicale del pensiero, che attraverso l'essere, che non è l'essente, giunge all'accordo pensante con il mondo del creato come anche all'incontro con il Dio nascosto nell'essere stesso. 

Lo sforzo che ci viene imposto significa: pur in tutta la tentazione e tutto il bisogno nel "luogo" dello sviluppo speculativo, dove sembra essere cacciato tutto il pensiero nella dialettica della contraddizione, è possibile superare la tentazione della pseudo sussistenza dell'essere: nella subalternità al senso necessario dell'essere, che cancella ogni pseudo sussistenza e nullifica il "luogo" in cui l'essere nella sua positività assoluta: Dio o essente finito, si rivela. 

(Nota 43: a partire da questa obbedienza ontologica , che sperimenta il suo "dolore e serietà" nell'impossibilità dell'ipostatizzazione dell'essere, o nell'essere come "nulla", cioè nella negatività stessa, cresce il pensiero, attraverso il dono dell'essere, che similmente all'origine, non si fissa su se stesso (non considera se stesso un privilegio o un tesoro: NdT), nell'essere-con cosmico dell'interezza del reale). 

Poiché, però, l'essere come similitudo divinae bonitatis non può trattenersi nella sospensione (Schwebe) accanto a Dio e proprio in ciò sorgerà in noi il senso necessario dell'essere, così quest'ultimo, che libera il pensiero dalla prigionia  dell'ipostasi dell'essere, ha le sue radici nella bonitas divina, che tutto ciò che da lo dona "del tutto". 

(Non essendo in grado di pensare la contraddizione ontologica di cui stiamo parlando, cioè di comprendere cosa sia il nichilismo si cade in pseudo radicali alternative apocalittiche che rivelano solo l'incapacità di un trovarsi a casa, pur nella comprensione del dramma e del teodramma, nel mondo finito. Vi è un'ultima secondarietà  (R. Brague), un'ultima subalternità (F. Ulrich) obbediente al senso dell'essere che è davvero capace di superare il bisogno e il dramma in cui ci troviamo. La parola tedesca "not-wendig" (necessario = ciò che gira, supera il bisogno) è geniale. Il pensiero nella "piccola via" sa di essere obbediente al senso necessario dell'essere, a quel senso che può superare il dramma. Per questo superamento è necessario "tempo", non primariamente un "luogo".  RG) 

2. Cosa significa "senso dell'essere" in riferimento alla bontà divina? 

(7.11.20) Che cosa significa: "senso dell'essere"? Domandiamo davvero qualcosa ponendo questa domanda? Non si tenta con essa nuovamente di spiegare, fissandolo per se stesso, l'essere come essere come un intermezzo tra Dio e le creature? Come e perché avrebbe questo essere "come tale", in riferimento a Dio e alle creature, un "senso"? Non si proietta qui l'essere verso un telos, che non si trova in se stesso, così che dovrà dapprima raggiungersi e trovarsi in un "altro"? Se poi diremo che che l'essere è o Dio o la creatura, il senso dell'essere non dovrebbe trovarsi, nell'intendere se stesso , nell'essere Dio o la creatura e come univoco "ens indifferens", a partire dalla sospensione dell'essere, affermarsi così, con una mossa e allo stesso tempo, come Dio e mondo? Non si pone in questo mondo anche la domanda sul "senso" di Dio? Non deve perdersi Dio in questo essere in modo tale che nella determinazione di questo "essere ancora indeterminato", per quanto riguarda la meta, attraverso la negazione dell'indeterminatezza e attraverso la sua concretizzazione, - attraverso la quale l'essere realizzerebbe il suo senso - mediando se stesso, troverà  il suo senso? Non scade così Dio, però, nell'essere dell'essente e in questo modo nella finitezza come tale? Ma se si vedrà il senso dell'essere in questo modo, non dovrebbe allora Dio, come "Dio in divenire", trovare il suo senso creando il finito per necessità? E se in oltre l'uomo, come spirito con un corpo, è capace dell'essere e comprende la differenza ontologica speculativamente, non è allora egli colui che da all'essere il suo senso, compiendo per mezzo delle comprensioni e interpretazioni attuali della differenza, allo stesso tempo, la determinazione dell'essere indeterminato e conducendolo nella mediazione concreta? Non si dovrà tenere conto che in questo compimento l'uomo supererebbe e conserverebbe in se stesso, come soggetto, il sostanziale "in sé" dell'essere astratto e vuoto?

(8.11.20) Solamente dovremo ricordarci che non è possibile "dapprima" fissare l'essere nella sua pseudo-sussistenza, in modo tale che poi (!) possa essere posta la domanda sul "senso dell'essere". Senso dell'essere può unicamente significare, che la ragione nello svolgimento speculativo del pensiero, obbedendo all'essere, non lo apprende come un non-essente accanto a Dio, insomma che l'essere , sebbene "actualitas omnium actuum et propter hoc perfectio omnium perfectionum" (nota 44: P. 7.2.9.), è tuttavia un "non subsistens",  

(nota 45: P.1.1. "Or l'être n'est pas un être, une réalité distincte de toutes celles qui sont, de quelque manière. Il n'est point d'autre part en elles un aspect déterminé, commun à toutes", L.-B. Geiger: "La partecipation...")p. 356,; p.323: "'L'être des êtres n'est pas un être' a-t-on pu dire très justement." Oppure: "En vertu de sa communauté même, l'existence est une notion abstraite. C'est pourquoi l'existence n'existe pas." E. Gilson: "Limites Existentielles...", L'Existence, p. 69. Nel seguito dovremmo esporre in modo più esteso perché il "nulla", di cui qui parliamo, può essore facilmente una tentazione per il pensiero a svuotare l'essere in un "puro concetto".)

che esso come "actus ultimus" (nota 46: An.6.2.), non sussiste, ma da sempre è Dio - "oppure" creatura. Questo tipo di decisione non ricopre mai l'essere a partire dal proprio terreno. Perché allora in fondo sarebbe fissata-in-se-stessa e chiusa nella "gloria" della sua ipostatizzazione, prima di ogni alienazione (Entäußerung, "alienazione", forse nel senso di uscita-da-sé. Fino a questo punto avevo tradotto con "espressione". NdT). L'alienazione dell'essere sarebbe solo una finzione, una pseudo-obbedienza, nella quale tutto è già in antecedenza assicurato, superato e reso "passato". La negatività della non sussistenza dell'essere non sarebbe presa sul serio . L'essere attraverserebbe i suoi modi solamente in modo apparente. La storicità e finitezza si rivelerebbe però in ciò come pungiglione e materiale dimostrativo di questo essere sostanzializzato, concepito in modo panlogico. 

(14.11.20) Poiché l'essere "fuori" di Dio è da sempre essente finito, la ricerca della inerenza dell'essere "nell'" essente finito è già il toccare Dio con la ragione, la deduzione trascendentale dell'essere da Dio. Come l'anticipazione dell'essere come essere non rappresenta nessuna sublimazione lineare dello stesso dall'essente, così anche la differenza dell'essere come primo effetto di Dio con Dio non si può stabilire in modo lineare dall'assoluto, come suo luogo di partenza. "Esse quod rebus creatis inest, non potest intelligi, nisi deductum ab esse divino" (Nota 47: P. 3.5.) L' "inest dell'esse"  ci autorizza dapprima alla "deduzione". Tutto il dispiegarsi nel senso del "deductum", se non è autorizzato dal peso dell'"esse, quod rebus creatis inest", sbaglia strada. Quest'ultimo è il "peso" del posizione creativa degli essenti. 

La subalternità (Hörigkeit: in questa parola tedesca, mi sembra, echeggia sia l'apparenza che l'ascolto; NdT) nei confronti del senso necessario dell'essere significa perciò che l'uomo è compreso in forza di questo motivo (Grund), dal quale può essere solamente dispiegato in modo speculativo, cioè deipostatizzato: la bonitas divina. "Bonum autem est diffusivum sui." (Nota 48: Th. 1.5.4.2). Per questo la subalternità  che percepisce il senso necessario dell'essere significa: dispiegare l'essere, come per l'appunto questa similitudo divinae bonitatis, nella differenza unificante, in modo duplice: nei confronti del finito e nell'infinito dell' "ipsum esse subsistens", senza fissare questo luogo di partenza come speculazione, ponendo la contraddizione all'inizio.

La comprensione trascendentale del buono e dell'essere come amore permette questo inizio, speculativo, senza legarlo all'ipostasi logicizzata, calcolata razionalmente della sospensione dell'essere (Seinsschwebe). L'essere come essere non emana "da sé". È davvero l'immagine (Gleichnis: parabola, allegoria. NdT) massima di Dio e significa un "completum et simplex"- ma "non subsistens".

(Nota 49: P.1.1. Quello che ci interessa e non da ultimo è un dialogo con Hegel, che come faremo vedere in un lavoro successivo, ha completato il cammino del pensiero moderno, che si trova nel destino dell' ipostatizzazione dell'essere. Qui non ci possiamo riferire a questa problematica nella sua interezza, perché un tale tentativo supererebbe il limite di questo lavoro).  

La subalternità al senso necessario dell'essere rivela, in seconda istanza, che non è lecito ipostatizzare l'essere in forza della sua assoluta emanazione nell' "ambito della speculazione", perché non può essere partecipato e separato nel finito, come una parte chiusa in se stessa accanto a Dio. Quest'ultima è la tentazione dell'interpretazione della partecipazione dell'essere come partecipazione attraverso il mettere insieme l'essere con un soggetto recipiente. 

(Pian piano ci muoviamo verso la intuizione centrale di questo libro che supera l'alternativa non feconda tra un'ontologia debole e forte. L'essere stesso, nel modo spiegato da Ulrich, è debole e forte allo stesso tempo, ricco e povero, completo e non sussistente. E per quanto riguarda il filosofare stesso, non esiste una filosofa cristiana accanto alla preghiera o peggio ancora come alternativa speculativa ad essa. La filosofa cristiana è da sempre preghiera e meditazione, e sfocia o origina dalla preghiera in senso stretto. RG) 

(15.11.20. Sant'Alberto Magno; prima domenica di Avvento nella liturgia ambrosiana). L'essere viene partecipato, a partire da Dio, "secundum diffusionem processionis ipsius".

(Nota 50: Th. 1.75..5.1. La non sussistenza dell'essere rende impossibile l'emanazione panteistica di Dio secondo la processio del suo primus effectus, l'esse come completum et simplex, ma si rivela come la pienezza del dono di Dio per eccellenza, che come "mediazione pura" supera la scissione deistica tra Dio e il mondo verso l' essenza assoluta e la res finta.)  

L'emanazione non comincia per questo mai accanto a Dio, come anche Dio stesso non media sé da un momento di puro non-ancora-essersi-espresso (in sé) di un'essenzialità chiusa in se stessa, piuttosto la natura divina è da sempre comunicata nel compimento intradivino. Così l'essere si rivela nell'origine come "pura mediazione". 

(Nota 51: Anche G. Siewerth intravede questo nel suo "Il tomismo come sistema di identità", pagina 76 (vedi bibliografia, NdT) : "Come universalità pura e semplice l'essere non è perciò mai una realtà accanto a Dio, piuttosto è necessaria un' 'idea', la cui realtà cade nel pensiero divino stesso. La sua struttura, però, è quella di essere una mediazione ideale."  Al contrario l'essere sostanzializzato e fissato nella sua astratta e non mediata identità è solamente immagine di un Dio senza vita e solitario, della essentia infinita, che ha bisogno del regno dello spirito per mediare se stessa. In vero "licet angeli et animae sanctae sempre sint cum Deo, tamen si non esset pluralitas in divinis, sequeretur quod Deus esset solus vel solitarius", Th. 1.31.3.1. ) 

(Traducendo questo testo nel mio diario è legittimo prendere posizione anche sull'attualità, senza perdersi completamente nei meandri di stoltezze, che attraverso i diversi luoghi digitali (Facebook, YouTube...), vengono comunicate (ovviamente vengono comunicate anche cose buone).  In questo passaggio si trova il motivo ontologico e teologico ultimo per cui forze sedicenti conservative e ultra tradizionaliste non comprendono Papa Francesco. Il loro Dio è un'identità astratta ed isolata che non si occupa dell'uomo e dei suoi problemi (povertà, disastro ecologico, necessaria fratellanza umana), per questo hanno bisogno di una continua mediazione delle loro parole e delle loro lotte: solamente che Dio non è un'identità astratta e chiusa in stessa, ma da sempre è comunicazione di amore gratuito, all'interno della Trinità e "poi" nel mondo, che ha così amato...RG). 

3. La bontà di Dio come necessità della "mediazione pura" dell'essere. L'inizio della tentazione speculativa

(21.11.20) Abbiamo appena detto qualcosa di decisivo per quanto riguarda l'ampliamento o l'anticipare speculativo della ragione in direzione dell'essere come essere. Il compimento speculativo comincia nell'essente, che ci sta dinnanzi e dal quale da sempre siamo coinvolti e nel mezzo del quale noi ci troviamo a nostra volta come essente. 

(Nota 52: Cfr. Louis Lavelle: "La Présence Totale", p. 11: "...Elle (intesa è la conscíence) saisit l'acte dans son exercice même, non point isolé sans doute, mais toujours lié à des états naissants et à des objets apparaissants".)

Se noi insomma cominciamo da ciò che si trova d'innanzi a noi come dono, allora l'anticipazione  dell'essere come essere, in un certo senso, è un ri-guardo (Rück-sicht) dell'essere (un rispetto che abbiamo al cospetto dell'essere. NdT), inforza del quale l'essente è chiamato essente. Questo sguardo all'indietro (speculatio) non si muove fissandosi nell'essere come tale. Il passaggio nell'essere non finisce in un ultimo allungamento sublimato dell'essente, nel quale la ragione deve porre l'essere necessariamente sul terreno del finito, fissarlo ed in questo modo consegnarlo alla contraddizione. L'anticipazione speculativa si trova nella necessità della deduzione proprio di questo essere a partire da Dio e ciò significa nel giudizio della non sussistenza dell'essere. Il compimento speculativo oscilla così nell'atto: "indietro" nella dimensione dell'essere come essere e  "avanti" nella pretesa della non sussistenza dell'essere, nella dimensione del mondo dell'essente. In questo avanti ed indietro l'essere è manifestato come "pura mediazione" e per nulla dissolto come "actus essendi", qua actus del concreto. In questo modo è anche superata la tentazione di indurire l'essere come apice ultimo di un sicuro e finito elemento fondamentale della sostanza, su cui riflettere. 

Essendo però dall'altra parte la considerazione speculativa dell'essere come essere, nell'anticipazione analettica, in direzione dell'essente finito,  la stessa cosa come il "deductum ab esse divino" catalettico, per parlare con Tommaso, allora nello stesso momento in cui all'essere, come un "in sé", di cui si viene a capo con la ragione, viene gettato addosso, a partire dall'essente, il "velo sostanzializzato", l'essere divino viene ridimensionato sul terreno del finito  come ad un suo originario fondamento vitale.  Sia la sublimazione lineare dell'essere dall'essente, come suo ultimo orizzonte di comprensione e che finisce nella fissazione dell'essere "vuoto", come anche la deduzione dell'essere da Dio, accanto al quale l'essere si irrigidisce, sono in fondo la stessa cosa. Se l'essere viene ipostatizzato allora questa postura esige un Dio senza amore, avido ed incapace di creare, che chiuso in se stesso non è capace di consegnare l'essere, che esclude l'uscita-da-sé (Entäußerung) dell'essere e per questo motivo deve cedere il campo allo pseudo Dio dell'ipostasi dell'essere, sulla quale la ragione finita si getta in questa impresa. L'amore di Dio è congelato in un blocco-essenza assoluto. La ragione allora si deve mettere all'opera per introdurre di nuovo la negazione (il non-subsistens sparito), per redimere così nel vortice delle negazioni l'essere-fissato in-se-stesso e con esso l'in-sé di un Dio irrigidito come essenza.  Ma anche questa acrobatica della contraddizione assoluta non ci porta da nessuna parte.

Cominciamo ad intravedere ciò che in modo più profondo sperimenteremo come la tentazione speculativa del pensiero ontologico.

(Sia in Hegel che in Heidegger, anche se in modo diverso, vi è una grande tentazione: quella di voler superare la teologia ed ancora peggio la fede semplice nella filosofia. Cristo, non i filosofi, ha salvato il mondo. Il filosofo ha un suo contributo specifico - anche a lui saranno chieste le cose di cui si parla nella scena del giudizio in Matteo 25 - ma per lui la fame e la sete a cui deve rispondere con un dono d'amore sono anche la fame e la sete delle tentazioni filosofiche, che non possono che essere superate filosoficamente. Certo potrebbe anche il filosofo  a cominciare a produrre la sua narrazione del mondo senza pensare più all'essere come dono d'amore gratuito (senza formulare un'ontologia), ma in questo modo comincerebbe ad ululare con i lupi del mondo; allo stesso tempo, pur dovendo formulare un'ontologia, non può fissarsi in una che dimentichi che "il cammino al vero è un'esperienza" (Luigi Giussani) che viene donata dal Mistero ed a Lui ritorna (Adrienne von Speyr). L'ipostatizzazione dell'essere, quasi che sia una persona accanto a quella di Dio, è la grande tentazione della filosofia ontologica, pensare di superarla con un mero "diventare concreti" è altrettanto una tentazione, perché il reale è fatto anche di idee, che uno le pensi o non le pensi e queste possono buttarci nella contraddizione assoluta di pseudo fatti che non siamo più capaci a comprendere, perché abbiamo perso l'unica cosa necessaria: la gratuità dell'amore ontologico. Ed in un certo senso, come impariamo ogni giorno dal papa filosofo - Francesco -  si può essere filosofi anche senza comprendere un linguaggio tecnico filosofico, ma dallo sforzo del pensiero non si può liberare nessuno. RG)  

(Hi, Roberto:

Thanks for this. I wonder whether you couldn't say that there are two great temptations: both that of forgetting that created being is non-subsistent--and that of forgetting that it is complete and simple. 

What do you think?

Warmly,

Adrian

Dear Adrian, I think that in friendship with you ( and not only in stay with me) it will be possible to take the two temptations seriously. I always and only live of the dialogue with my few friends. Yours, Roberto )

/ III. Essere e "nulla": la tentazione del pensiero 

1. L'esse come "completum et simplex, sed non subsistens". Il "medesimo uso" di essere e "nulla". 

(28.11.20) L'ipsum esse è l' "actus ultimus" (Nota 53 An.6.2.) e come tale "actualitas omnium actuum" (Nota 54: P.7.2.9.) e "perfectio omnium perfectionum". È "actualitas omnium rerum et etiam ipsarum formarum" (Nota 55: Th.1.4.1.3) Non può "esserci nulla al di fuori (dell'essere) a parte il non-essere, quod non potest esse nec forma nec materia" (Nota 56: P. 7.2.9.). L'essere come "primo effetto di Dio" è nella sua attualità infinita "similitudine di Dio". 

In questa attualità l'essere, però, non si accanisce in se stesso; non è, per usare un'immagine, ossessionato e imprigionato dalla sua gloria (Herrlichkeit). L'essere non è un'attualità nella modalità di una causa efficiente ("efficiens") perché opera come "similitudine della bontà divina". "Bonum autem dicitur diffusivum sui esse eo modo quo finis dicitur movere" (Nota 57 Th. 1.5.4.2.) e nel seguito dice Tommaso: "Ipsum igitur esse habet rationem boni" (Nota 58: V.21.2) giacché "quod invenitur habere rationem finis, habet et rationem boni" (Nota 59: ibidem). Così l'essere non è altro che attualità che fluisce da se stessa. Ma non sussiste nulla tra Dio e le creature. Per questo motivo afferma Tommaso: "Esse significat aliquid completum et simplex, sed non subsistens" (Nota 60: P.1.1.) L'essere come mediazione pura non "è" un essente. 

Che cosa significa allora "ens"? "Ens est quasi esse habens, hoc autem solum est substantia, quae subsistit" (Nota 61: Met.12.1) L'essente è un avente-essere (alcunché che ha l'essere; NdT). L'essente ha essere, ma ens come esse habens è unicamente e solamente la sostanza, che sussiste, poiché la sostanza "est proprium susceptivum eius quod est esse" (Nota 62: G.2.55.). Se allora Tommaso dice che la sostanza, nel senso proprio, viene chiamata "ens", allora si può concludere che l'essere, che non sussiste, "è", in un senso particolare non ens.  L'essere come non ens non indica qualcosa come "pura potenzialità". Dell'essere vale piuttosto: "actus semper est perfectior potentia" (Nota 63: P.7.2.9.). Oltre a ciò si comprende che né la forma né la materia sono esteriori all'essere. Non possiamo intendere l'essere stesso, nella sua non sussistenza, in alcun modo come potenza e lo chiamiamo per questo: "nulla". Non deve solo essere detto che l'essere è un non esente, piuttosto che è "nulla"! Per questo motivo non vediamo nessuna contraddizione nel chiamare l'esse come un completum et simplex "nulla", se in ciò viene espresso il "non subsistens".

Qui non facciamo nessuna propaganda per il nichilismo. Al contrario seguendo  tentazioni speculative particolari scopriamo che il nichilismo moderno ha le sue radici nella sostanzializzazione dell'essere come tale e che in questo cammino anche il "nulla" (non subsistens) è stato portato alla "sussistenza". Noi intendiamo qui con l'affermazione che l'ipsum esse non subsistens significa "nulla" neppure ciò che Heidegger intende come "nulla", anche se egli sembra aver presente il "non subistens", quando afferma: "Essere e nulla non esistono l'uno accanto all'altro. L'uno viene usato per l'altro in una parentela di cui non abbiamo ancora considerato la pienezza essenziale... L'essere "è" tanto poco quanto il nulla".

(Nota 64: "Zur Seinsfrage" (Sulla questione dell'essere), pagina 38. Nel nostro senso interpretiamo le seguenti affermazioni: "Sicut non possumus dicere quod ipsum currere currat, ita non possumus dicere, quod ipsum esse sit", Tommaso, In de Hebdom. "Non proprie dicitur quod esse sit, sed quod per esse aliquid sit"; Div. nom. 8.1. "Quod est commune multis, non est aliquid praeter multa nisi sola ratione: sicut animal  non est aliud praeter Socratem et Platonem et alia animalia nisi intellectu, qui apprehendit formam animalis expoliatam ab omnibus individuantibus et specificantibus;  homo enim est quod vere est animal, alias sequeretur quod in Socrate et Platone essent plura animalia, scilicet animal commune et homo communis, et ipse Plato. Multo igitur minus et ipsum esse commune est aliquid praeter omnes res existentes nisi in intellectu (!) solum", G. 1.26. Sia qui osservato che la scissione moderna orizzontale e l' "stratificazione" degli esseri viventi nelle dimensioni "portanti" e chiuse in se stesse di ciò che è inorganico, vegetativo, sensitivo e "intellettivo", e che si cristallizzano, per così dire, negli individui, hanno il loro motivo nella fissazione dell'essere e così di tutto ciò che ci circonda di generale, in intellectu. La dimenticanza della non sussistenza dell'essere, dalla quale sorge la nitidezza della sussistenza concreta dell'essente, ci conduce alle forme astratte, cioè unilaterali del biologismo, dello psicologismo, della filosofia della vita, etc. ) 

(Questa di Ulrich è un intuizione geniale sulle radici del nichilismo moderno ed odierno: quando si perde il senso dell'essere come dono gratuito d'amore e lo si riduce in una "cosa", in una "sostanza", allora ne consegue che il nulla stesso viene sostanzializzato. Il "nulla" invece di essere espressione della gratuità dell'amore, diventa un macigno che minaccia la vita di noi tutti uomini, animali, quindi anche della "nostra casa comune". La fissazione dell'essere come una "cosa" conduce anche a forme unilaterali ed astratte di biologismo, psicologismo, etc. La non sussistenza dell'esse commune rivela l'esse come dono gratuito. In esso vi è il motivo ultimo di tutta la dottrina sociale cattolica (non solo romano-cattolica, ma cristiana). Per quanto riguarda poi la mia vita, nel matrimonio, nelle amicizie, nella scuola, in rete e ne "Il Sussidiario" in questa intuizione si trova il motivo ultimo del mio agire e pensare. Se "il cammino al vero è un'esperienza" (Luigi Giussani), tanto più lo è la gratuita dell'essere, non come buonismo o sentimentalismo, ma come realtà ontologica. Questo significa il pensiero di Tommaso, che l'esse è similitudo divinae bonitatis. La bontà di questo dono gratuito dell'essere è nulla, ma senza questo nulla tutto diventa senza alcun senso.  RG) 

(29.11.20) Quanto più originariamente viene compreso l'essere come pienezza comunicata tanto più intensa risplende la sua non-sussistenza. L'intimità assoluta dell'essere, in ciò che è creato, come "dono" massimo di Dio esclude la fissazione-in-se-stesso, in una sospensione ideale dell'essere (in einer idealen Seinsschwebe). Qui si rivela nuovamente che la depotenziazione del Dio creatore in un blocco-essenza chiuso in se stesso, implica l'impossibilità di percepire l'essere come "dono". Così scompare dallo sguardo speculativo l'indifferenza dell'uscita di sé (Entäußerung) dell'essere, anche come sua non-sussistenza.

Proprio perché non può esservi nulla di esteriore all'essere come pienezza, a parte il non ens (Nota 65: P.7.2.9.), in quanto Dio nella sua comunicazione dell'essere "nulla"presuppone  come un principio materiale (mater!) e ricevente, l'essere non è contro il finito (come contro l'"Altro" da sé), piuttosto come dono che non-si-fissa-in-se-stesso (cfr. Filippesi 2,6; che non considera se stesso come un privilegio (traduzione CEI del testo del 2009) o  un tesoro ( traduzione CEI del testo del 1974); NdT) e come pienezza non sussistente, nulla "aliquid praeter res existentes" (Nota 66: G. 1.26). L'ipsum esse nella sua pseudo-sussistenza invece possiede solamente una pseudo-pienezza, che in realtà non può essere donata. 

Poniamoci la domanda ancora una volta in tutta serietà! Come si possono usare l'essere e il "nulla" l'uno per l'altro, se questo non ens da sempre è diviso dall'essere, poiché "nihil dividitur ab ente nisi non ens" (Nota 67: In de Trinit. 4.1.) e all'essere "non vi è nulla di esteriore a parte il non-essere"? (Nota 68: P.7.2.9.) Si potrebbe piuttosto dire: in modo tale che si possa davvero giungere ad una divisone tra essere e non essere , dovrebbero "dapprima" essere usati, l'ens e il non ens, l'uno per l'atro, nel medesimo modo; questo medesimo uso concede così dapprima la condizione della possibilità di una divisione! Ma non è posta in questo modo nuovamente la contraddizione assoluta come inizio?  

(Perché rischia Ulrich così? Perché rischia che anche pensatori realmente cattolici lo considerino contraddittorio? Perché non vuole perdere di vista "il medesimo uso di essere e "nulla"", se Tommaso stesso vede l'essere e il nulla come contraddizione? Che cosa è in gioco in questo "rischio"? E che parentela c'é tra il rischio educativo di Luigi Giussani e il rischio ontologico di Ferdinand Ulrich? In gioco è un superamento serio del nichilismo (un superamento che lo superi dall'interno, per così dire), nel sacerdote italiano come attività educativa ed ecclesiale e nel filosofo tedesco come attività ontologica ed ecclesiale. Per entrambi il "cammino al vero è un'esperienza", l'essere come dono non è nulla al di fuori delle cose e delle persone esistenti. Entrambi, negli anni cinquanta, quindi prima del Concilio Vaticano II, comprendono che Dio non è un blocco-essenza chiuso in se stesso, incapace di donarsi. "Abbattere i bastioni" (Hans Urs von Balthasar) significa per entrambi: superare il depotenziamento di un Dio e di una Chiesa chiusa in se stessa. Si facevano allora i primi passi di quella "Chiesa in uscita" di cui parla Papa Francesco. Sia a livello educativo che ontologico si doveva superare una concezione dell'essere e di Dio che erano solamente una pseudo ricchezza e una pseudo pienezza. Autori come Romano Guardini e Hans Urs von Balthasar, saranno per entrambi fratelli su uno stesso cammino e su una stessa intenzione; entrambi sono autori che non si possono mettere nel cassetto tradizionalista e neppure in quello progressista. Né a livello educativo né a livello ontologico credono che una "sospensione ideale dell'essere", cioè un essere che non rischia, possa salvare ancora qualcuno. Vorrei aggiungere infine che a livello linguistico Ulrich usa la parola "Schwebe" (sospensione) in modo diverso da Balthasar; per quest'ultimo e per Adrienne von Speyr, "Schwebe" è il movimento dal Padre al Padre di tutta la realtà, mentre per Ulrich essa è una fissazione (sospensione) dell'essere in una pseudo idealità. Vero è comunque che tutti questi autori, ancora prima del Concilio Vaticano II, avevano visto che la posizione tradizionalista era forte solo in apparenza. "La depotenziazione del Dio creatore in un blocco-essenza chiuso in se stesso, implica l'impossibilità di percepire l'essere come "dono""(Ulrich), implica l'impossibilità di comprendere la gratuità assoluta dell'essere come amore. Che poi, in modo diverso, negli anni posteriori al Concilio abbaino fatto vedere anche le contraddizioni di una certa traduzione "progressista" del Concilio stesso, non toglie nulla a questa intuizione originaria, tanto meno oggi che come ha fatto vedere Massimo Borghesi il pericolo più grande per la chiesa viene da un blocco reazionario e tradizionalista che vede il Papa come l'anticristo. RG)

2. Chiarificazione originaria del medesimo uso di essere e "nulla" e la situazione greca del pensiero 

(05.12.20) La domanda che abbiamo appena posto è di grande importanza. Essa ci costringe ad approfondire il tema. Presentiamo così brevemente un tratto fondamentale nel percorso del pensiero occidentale, che ha influenzato in modo essenziale questa domanda: il processo dell' "incarnazione" della idea platonica compiuto da Aristotele. 

Finché l'idea è stata concepita "essenzialmente" come l'essente in verità era necessariamente contro il nec quid, nec quale, cioè contro la non-essenzialità della materia, posta e fissata insomma al di là del caos, dell' "apertura incontrollata" della materia. Venendo quest'ultima fondamentalmente compresa come principio della molteplicità e della contingenza dell'"essente"(inteso qui come le cose materiali del mondo), così il carattere ontologico dell'idea ha dovuto proteggersi con il suo 'essere contro la molteplicità di ciò che è meramente finito, già in forza del suo essere-essente. L'idea non era stata ancora mediata da Platone come forma dell'essere sovraessenziale. Pensata perciò essenzialmente non può manifestare la sua potenza completamente nel "superamento-conservazione" (Aufhebung) della materia. Superamento-conservazione della materia da parte della forma significa allo stesso tempo il comunicarsi della forma, come anche raccolta della molteplicità materiale nella struttura della sostanza. La negazione della negatività della materia non poteva favorire la positività dell'idea intesa ancora in modo essenziale. La forma non da ancora l'essere nella sua interezza e la materia è costituita come alterità contro l'idea. Per la positività dell'idea l'alterità non è ancora "nullificata" e  per l'appunto rivelata in questo essere-nulla. 

Così l'essere esentata dell'idea porta con sé un'ambiguità: la sua potenza ontologica (Seinsmächtigkeit)  prende le distanze dalla materia sebbene proprio la potenza ontologica, anche se in modo velato, è capace di "nullificare" l'alterità della materia, di superarla e conservarla e trasformare così la distanza in intimità. La completa nullificazione della materia in un non ens di potenzialità pura è così null'altro che il dissolversi dell'idea dalla dipendenza della materia e della propria struttura essenziale. In questo legame l'idea non è ancora positivamente se stessa, mediata in se stessa; è per così dire solamente, sebbene in senso eccellete essente, se stessa in un'identità astratta e non ha per questo motivo ancora in sé l'alterità negata completamente come suo limite. Nonostante ciò nella trascendenza e nell'essere-se-stessa dell'idea è data implicitamente la nullità dell'altro come altro.

(Ci dovremmo ricordare che la nullificazione, exinanitio per Ulrich è un atto d'amore; il discernimento consiste nel comprendere cosa sia una nullificazione amorosa ed una pseudo-nullificazione che porta solamente ad un'identità astratta, solo "essenziale" dell'idea e della forma. RG) 

(7.12.20) Anche se sembra, dopo un primo sguardo, che l'idea assicuri se stessa contro il meramente finito, fissandosi in questa positività in una contromossa nei confronti del negativo (alterità), a condizione che essa non sia capace, nel compimento di sé, di negare il finito come negazione, in vero è proprio la sua trascendenza nell'essere-stesso (Selbstsein) ad essere la condizione, nella sua fase di inizio incoativo, della possibilità di un'intimità dell'essere con il finito, che viene affermato ultimamente come finito in forza della positività dell'essere che non si fissa-in-se-stesso. La negazione della negazione, sia della dimensione materiale, sia della strutturazione essenziale dell'essere, si svela come l'affermazione originaria del finito come finito, per mezzo dell'essere nella sua propria e particolare autonomia (Selbstand).  

(8.12.20. Immacolata concezione) L'idea diventa dapprima "scorrevole", capace di incarnazione, se la si pensa in direzione dell'essere e come uscente da un'identità, legata ad un'alterità non negata ed astratta, ciò significa se essa viene "de-idealizzata" o de-ipostatizzata. Allora i limiti essenziali non respingono più il nec quid, nec quale della materia. Proprio questo viene affermato dalla frase che all'essere non può essere aggiunto nulla che gli sia esteriore, a parte il non ens. In questa apertura il "meramente finito" è derubato per così dire di tutte le forze (non ancora negate) recalcitranti e che colpiscono l'essere. In questo superamento-conservazione tuttavia il finito non è dissolto, ma assentito dapprima e come tale, attraverso l'intimità dell'essere nei suoi confronti, resa ora possibile. L'incarnazione dell'idea, l'accentuazione delle cause secundae, il superamento-conservazione del finito (nella negazione della negazione) nell'infinito, come anche la presenza di Dio nel finito: immediata, non opprimente, piuttosto liberante e lasciante-essere, si implicano a vicenda. L'incarnazione dell'idea nel finito e il superamento-conservazione del finito nell'assoluto sono due facce del medesimo processo. 

Ovviamente questo passo verso la sovraessenzialità dell'essere non è riuscito del tutto neppure ad Aristotele, nonostante la sua mossa radicale verso l'essere in quanto essere, nella quale la hyle nell'etere, l'uomo nel nous, che viene da di fuori, e l'ordine intero del mondo si superano all'interno di Dio (esemplificata con l'idea del comandante, che è in se stesso autarchico e allo stesso tempo è presente come ordine dell'esercito). 

(Ulrich ci insegna qui un equilibrio che non può essere prodotto, ma che ci viene donato tra un autentico impegno nel mondo e superamento-conservazione in Dio. Il dono dell'essere (nella sua intimità con il finito), nella sua sovraessenzialità (l'essere non è una cosa, una persona, ma un atto gratuito) non è stato pensato neppure da Aristotele, perché solo Cristo, che è la filosofia stessa, la verità-amore, ha potuto donarlo, incarnandolo sul palcoscenico del mondo. RG

Aristotele pensa a partire da questa dimensione dell'essere come essere. L'ha risparmiata nella dimensione mediatrice della metafisica "tra" la fisica e la "teologia". Sebbene essa stessa non fosse esplicitamente espressa, tuttavia è stata iniziata. Soltanto a partire dalla "pienezza del tempo", nella quale Dio, nella sua assoluta positività, si è rivelato come Dio trinitario nell'assoluta automediazione, era superata-conservata la dimensione essenziale dell'idea come medium inter creatum et increatum nell'essere come essere e superata la sospensione ideale dell'essere, che la ragione temeraria è tentata di porre (Nota 69: cfr. su questo ciò che abbiamo esposto nel capitolo precedente). 

Tuttavia sorse poi nel "più tardi" la grande tentazione, a partire dall'Apriori teologico della rivelazione sovrannaturale, di ridurre l'apertura dell'essere a qualcosa di "passato", insomma di fissarla per così dire in una deduzione della sua intera estensione, per poi a partire da ciò superare il principio inconsistente dei greci, che, come si diceva, pensavano "in statu naturae lypsae". Questa apertura dell'essere come essere fissata e ridotta a qualcosa di passato condusse ad una nuova sostanzializzazione dello stesso nell'idealità e così in un nuova "situazione greca" del pensiero, in un assorbimento dell'essere nella res, o detto altrimenti nell'essentia, (Nota 70: il come e il perché la ipostatizzazione dell'essere coincida con la sua essenzializzazione, verrà trattato nel prossimo capitolo), a partire dalla quale "la res ha il suo nome" (Nota 71: V.1.1.).

Per Aristotele la forma rimane  nella cosa l'unico "essere". Dalla materia viene la contingenza. Per l'essere come essere, liberato e proposto al pensiero a partire dalla "pienezza del tempo" tuttavia  l'alterità o la negazione della positività dell'essere viene determinata in un altro senso. L'essere come essere proposto nega totalmente la negazione. L'altro non è più lasciato "fuori". Questo accade quando e se la potenza dell'essere non cresce al di là dell'idea platonica fissata in se stessa e permane in un'identità astratta e non mediata. Ora però l'atro nel modus del non-essere "è integrato nell'essere", tuttavia non come qualcosa che irriti l'essere o lo determini. La categoria dell'alterità viene compresa in modo nuovo. La molteplicità delle idee, la loro "koinonia", che vale per il mundus sensibilis e intellegibilis (Nota 72; Cfr. Platone, Sophistes ( (Σοφιστής), 248-249), viene fusa nell'essere, nella "perfectio omnium perfectionum". La pienezza delle idee si raccoglie nell'essere come "simplex et completum"  per eccellenza, l'alterità però non si contrae in un'alterità accanto al "simplex et completum". Questo annienterebbe proprio la negazione della negazione, cioè il suo superamento-conservazione nell'idealità dell'essere e depotenzierebbe di nuovo l'essere in una dimensione determinata dall'alterità. No, l'alterità si svela nel "non subsistens", cioè questo "completum et simplex", che non si fisserebbe mai accanto a Dio, ma che "giunge a se stesso", è presso se stesso o sussiste solo nella molteplicità e varietà del finito. Il non-essere-Dio dell'actus actuum significa per l'appunto: non sussistere accanto a Dio come sospensione dell'essere (finitezza), così come il non-essere-essente del "completum et simplex" significa:  non-finitezza, essere  ipsum esse per se subsistens, cioè Dio.  

(La definizione dell'essere di Tommaso-Ulrich è decisiva per un pensiero analogico-cattolico davvero in dialogo e non sottomesso a posizioni del "totalmente altro" e dell' alterità eteronoma. Non aver capito ciò non ha posto il pensiero cattolico in dialogo con altri pensieri, ma lo ha sottomesso ad altri. L'alterità può essere poi pensata alla Karl Barth (calvinismo) o alla Emmanuel Levinas (giudaismo) - con queste posizioni si può e si deve essere in dialogo, ma non sottomessi ad esse. L'atto di amore gratuito che è l'essere non è alcunché accanto a Dio e non dipende da alcuna alterità sostanzializzata. In un certo senso il pensiero filosofico cattolico, a livello ontologico, dovrebbe recepire il pensiero di Ulrich e ancor più la sua definizione di essere come "simplex et completum, sed non subsistens" per non cadere in dipendenze che non sono per nulla  superamento del pensiero autoreferenziale. Tanto per fare un esempio: le accuse a questo papa di non essere cattolico, dipendono proprio da questa non comprensione ontologica del suo operare, che non pensa le cose del mondo (natura e la fratellanza umana) accanto a Dio, ma come integrazione dell'alterità nell'essere come amore gratuito. È merito di Massimo Borghesi aver fatto capire che la predicazione semplice di Papa Francesco si basa su un pensiero filosofico e teologico davvero aperto che sa muoversi nella polarità e nelle polarità senza che esse diventino contraddizioni. RG) 

(Per quanto poi riguarda la critica di Ulrich ad Aristotele, e cioè che anche per lui e non solo per Platone la forma rimane l'unico "essere" nella cosa, credo che a livello di agire ecclesiale, non averla capita non ha permesso di comprendere il valore dell'esperienza e cioè del suo essere il cammino al vero (Luigi Giussani, Jorge Mario Bergoglio, Stefan Oster - per quanto conosco io). Se non fosse così, per chi vive in zone del mondo fortemente secolarizzate e senza la possibilità di aver continuamente un supporto di tradizioni cristiane, non sarebbe possibile un reale cammino ecclesiale. Mentre lo è, senza il rischio di autoreferenzialità, sempre implicito in una comprensione dei gesti cristiani, solo formale. RG) 

Massimo Borghesi nella mia bacheca in Facebook: Caro Roberto, hai indicato il punto. Il pensiero "cattolico" presuppone un modello che si distingue tanto dall'<<identità>> quanto dalla <<contraddizione>>. Lo ha colto perfettamente Przywara con il suo <<Analogia entis>>. Per questo il modello della polarità di Guardini, ripreso da Bergoglio, è oggi così importante. Consente di sottrarsi al modernismo borghese (identità Chiesa-mondo) e al manicheismo, ieri di sinistra e oggi di destra (Chiesa contro il mondo).

Caro Massimo, grazie per le tue righe; citando il padre Przywara SJ citi  la fonte filosofica sia di Hans Urs von Balthasar che di Ferdinand Ulrich, anche se entrambi hanno cercato, a loro modo, di superare "il ritmo puro" del grande maestro gesuita. Anche se oggi sembra che la filosofia sia morta, tutti pensano qualcosa pseudo filosoficamente, senza però cogliere più l'unica cosa realmente necessaria: la gratuità dell'amore. E senza così potere superare quel fanatismo proprio alla pseudo filosofia. Tuo, R   

(13.12.20; santa Lucia) A motivo del suo essere-medesima-con-se-stessa l'idea implica ancora l'essere-altro come il resto. L'essere-medesimo-con-se-stesso dell'essere pone la la negazione della negazione per eccellenza; perché all'essere non vi è nulla di esteriore a parte il non essere. La potenza ontologica dell'idea è in questo mondo conservata e superata in una pienezza ultima, ma i limiti essenziali della morphe sono abbandonati. Per questo Tommaso dice del non ens: "quod non potest esse nec forma nec materia" (nota 73: P.7.2.9.).

Il problema, però, se il medesimo uso di essere e "nulla" non dovrebbe precedere la separazione tra essere e non essere, in modo tale che possa compiersi la crisi dell'autoaffermazione dell'essere nella sua positività, nasce dapprima dal destino della metafisica moderna. 

Abbiamo provato ad accennare al fatto che del come l'apriori teologico abbia tenuto aperto l'orizzonte dell'essere come essere e la ragione, che da sempre è "stata" dall'essere, sia stata stabilita  in questa dimensione di una "completa" comprensione. Più tardi considereremo il tutto in modo più profondo. Ma già ora si vede come l'essere sia stato nuovamente ipostatizzato e abbia ricevuto in questo modo ultimamente il carattere di un "essente", con la conseguenza che il compimento della trascendenza in direzione dell'essere come essere, nel quale movimento si trova la metafisica greca, sia ricaduto nell'inizio "greco", ora però nel medium dell'apriori teologico. La non sussistenza dell'essere era scomparsa dallo sguardo speculativo. Per condurre l'essere fuori da questa nuova ed astratta identità è stato di nuovo introdotto il "nulla" (non subsistens). Così l'alterità era diventata recentemente l'elemento determinante dell'essere. Il "non subsistens" è stato posto come pungiglione accanto all'essere e fissato con esso nell'idealità. L'essere stesso non ha ancora affermato se stesso positivamente. E Dio viene intaccato dalla nullità dei possibilia nella ragione divina. 

La creazione appare come negazione della negazione e in questo modo come autoliberazione di Dio dalla determinazione del finito. La contraddizione è stata fatta inizio dello svolgimento speculativo. 

(Sia Robert Spaemann che Ferdinand Ulrich sanno che un apriori teologico di per sé non è una difesa contro la reificazione dell'ontologia. Si può in nome di Dio privare la natura umana del suo senso ultimo e "teleologico" (Robert Spaemann) oppure come nel caso qui descritto riproporre un'identità ideale astratta e sistematica che non permette di comprendere che ciò che è veramente ed unicamente necessario sia l'amore gratuito di Dio e dell'uomo. Questo apriori astratto non può che capovolgersi in nichilismo (la conseguenza dialettica di Hegel è il nichilismo postmoderno). Una volta persa la natura teleologica dell'uomo e della natura come nostra casa comune (Robert Spaemann, Papa Francesco) rimane solamente il paradigma tecnologico ed utilitaristico analizzato in modo geniale nell'enciclica "Laudato si'"; Ulrich fa, nei confronti di Spaemann, un passo ancora ulteriore in quel  mistero dell'essere come essere che è la gratuità ultima che permette che la teleologia stessa non sia interpretata a sua volta in modo utilitaristico. Non è un caso che Papa Francesco insista così tanto sul "tutto è grazia".

Per quarto riguarda la ricaduta nella dimensione greca (Hölderlin, il mio amato poeta tedesco, ne è il tentativo per eccellenza, ha diluito anche lo specifico cristiano nel mondo greco, dice con ragione Balthasar) esso è comprensibile come liberazione dal formalismo dogmatico che ci minaccia sempre, ma è anche una tentazione, quasi che il Logos universale e concreto della "pienezza dei tempi", Gesù, non basti per integrare e discernere tutto, anche la dimensione greca. L'articolo di Gianni Valente del 2017 su Charles Peguy (La Stampa, 27.9.2017: Francesco, Peguy e lo supporre di Dio)  è un tentativo giornalistico geniale di comprendere in cosa consista il formalismo dogmatico di cui sto parlando: un tentativo clericale (sia dei clericali clericali che dei clericali anticlericali) di rudere la grazia in forma. Solo che da ciò non ci libera Hölderlin, pur nella sua genialità ed autenticità, ma per l'appunto Peguy, che rivela il cuore ultimo di Dio, come misericordia e padre della "speranza bambina"  RG) 

(14.12.20; san Giovanni della Croce, carmelitano scalzo) Se Dio avesse, così si profila la grande tentazione, escluso da sempre il "nulla", allora dovrebbe irrigidirsi in un blocco-essenza, dovrebbe ridurre a "passato", attraverso la negazione della negazione, il compimento della sua assoluta affermazione e sprofondare nell'identità astratta con sé, che ha l'alterità fuori di sé.

Dalla parte del finito questa tentazione significa: l'essere deve irrigidirsi nella res, se quest'ultima non viene continuamente dischiusa nella dimensione dell'essere come essere, che non "è", per cui attraverso la ragione, che apre questo uso medesimo di essere e "nulla", viene ininterrottamente concretizzata come res. La ragione quindi deve dischiudere l'in-sé della res nella contraddizione, per, attraverso di ciò, portare l'in-sé nel suo compimento di vita: nel superamento-conservazione della verità come sostanza nel soggetto!  

(Come abbiamo visto Dio non è un blocco-essenza e l'essere come dono non è una cosa, ma merito di ciò non lo ha la ragione. RG)

Questa dinamica della negazione, che si compie nella metafisica moderna e che era stata concepita dall'intenzione della de-essenzializzazione dell'essere, si trovava essa stessa nel destino dell'ipostatizzazione dell'essere. Poiché la negazione della negazione presuppone Dio in una identità astratta come essenza "pura": senza libertà nei confronti della sua alterità, così come la sostanza, provvisoriamente fissata come res pura, nella quale è scomparso l'essere sovraessenziale, che ora devo essere redento dalla sua prigionia. In entrambi i casi l'essere è, come non positivo, se stesso, cioè messo come "potenza" determinabile in direzione della sua positività assoluta. Proprio questo era il destino della sostanzializzazione dell'essere "praeter res", che immancabilmente era condannato al muoversi dell'essere come concetto nella ragione; poiché l' "Ipsum esse commune" non è "aliquid praeter omnes res existentes, nisi in intellectu solum" (Nota 74: G.1.26.). Per questo la sostanzializzazione dell'essere, o detto altrimenti la scomparsa dell'essere nella cosa, significa sempre allo stesso tempo la sua concettualizzazione nella ragione. Questo essere logicizzato, ereditato da Hegel, non poteva per questo motivo, nonostante il suo medesimo uso per il "nulla", proclamato da Hegel nella sua "Logica", essere sperimentato come pienezza e pensato in modo concretamente speculativo. L'uomo rimaneva da solo come esecutore della contraddizione assoluta dell'essere logicizzato. L'uomo permette l'avvenimento, nella riflessione del sapere assoluto, dell'εσχάτον della mediazione del finito nell'infinito.

(Questo passaggio è molto importante: per quanto sia decisivo il medesimo uso di essere e "nulla", esso non è un opera della ragione, come la gratuità dell'essere come amore non é gnosi. RG)

(19.12.20) In questo modo la ragione si è fissata nel luogo di ogni dispiegarsi speculativo e realizza, a partire dalla sospensione ontologica univoca dell' ens indifferens, il finito come l'infinito in se stessi e "permette loro di essere".

Qui si presenta in modo perverso una "similitudo" tremenda di ciò che prima abbiamo espresso sulla differenza duplice ed unica dell'essere nei confronti dell'infinito e del finito. Dio ora ha trovato, nella differenza ontologica dell'essere con l'essente, che ora comincia nella contraddizione, la sua auto-mediazione. Poiché l'essere accanto a Dio è stato sostanzializzato dalla ragione, l'assoluto è stato colpito da alcunché contrario al divino. L'exinanitio dell'essere, a partire dalla contraddizione ("l'essere è nulla"), è l'atto della dissoluzione di questa affezione e dell'auto-compiersi di Dio in libertà assoluta. 

Vero è unicamente che la exinanitio dell'essere non è una continuità lineare dell'essere fino all'essente. Questa verità ci scopre il senso necessario dell'essere. In quanto stiamo descrivendo la contraddizione assume la funzione del senso necessario dell'essere (cioè la dinamica dell'essere come amore) e distrugge con la sua dialettica la continuazione, propria alla ragione nella sua linearità, dell'essere nell'essente. 

(Penso che le esagerazioni apocalittiche che si presentano nei nostri giorni nascano da questa mancanza dí comprensione della vera situazione apocalittica in cui il vero viene scimmiottato dal pseudo vero (per esempio la Trinità da una pseudo trinità); la exinanitio (la dinamica dell'amore che agisce per nulla, cioè gratuitamente) viene scimmiottata dalla contraddizione nichilistica in cui l'essere viene per l'appunto identificato con il nulla nichilistico. La gnosi non ci tenta con un limpido bianco-nero, ma con toni che sembrano essere quelli veri. RG)

3. La continuazione duplice e falsa dell'essere e dell'essente

Vero è unicamente che non esiste una continuazione-superamento della ragione dall'essente finito all'essere. Una tale impresa significherebbe semplicemente un'allungamento univoco dell'essente, una sublimazione, che rende impossibile la trascendenza autentica.  

Se la ragione cade in questa tentazione allora le sarà "possibile" di "condensare" l'essente in modo tale che la stabilità di ciò che è creato verrebbe dissolta nel liquido di un fondamento che lo reggerebbe, con la conseguenza tuttavia che, qualora si faccia sul serio con il "non subsistens", tutto l'essere sarebbe sacrificato al "nulla" nichilista. Una volta che l'essere è fissato nella sospensione , in questo modo viene anche fissato il "nulla". Se l'essere viene ricondotto a questo fondamento, allora esso si dissolve nel "nulla".  

(Ulrich è un pensatore che ci permette di comprendere le tentazioni del pensiero; la tentazione qui descritta è quella del pensiero liquido, del nichilismo che nega la stabilità della cosa, delle cose, delle persone che sono come sono, che sono davvero dono di un'atto d'amore. La sovra-accentuazione del "non subsistens" ha ridotto la dinamica dell'amore in una contraddizione nichilistica. La liquidità del pensiero è un scimiottare il movimento amoroso. RG)

(20.12.20)

Dall'altra parte non esiste neppure alcuna continuazione dell'essere nell'essente del tipo che il finito possa venire definito come ultimo allungamento, cristallizzato e concretizzato, di un essere generale che emana indifferentemente. Poiché questo essere nella totalità dell'essente avrebbe raggiunto il perimetro completo del suo essere-medesimo, la differenza ontologica sarebbe in questo modo fondamentalmente riflettuta e conclusa, così che a partire da questo Apriori speculativo risulterebbe solamente il mito ontologico dell' "eterno ritorno dell'uguale". Anche in questo caso, se si volesse far sul serio con il "non subsistens", tutto l'essente sarebbe abbandonato al "nulla" nichilistico.

Come "actualitas omnium actuum" e "perfectio omnium perfectionum" (nota 75: P.7.2.9.) l'essere è "formale respectu omnium quae in re sunt" (nota 76: Th.1.8.1.1); ma non viene affermato solamente come "formale respectu omnium quae in re sunt, ma anche che "est actualitas omnium rerum" (nota 77: P.7.2.9.). Se la sostanza, però, viene detta in senso proprio ens, allora la differenza dell'essere con l'essente rende accessibile il "rapporto" del non-sussistente ipsum esse con la sostanza, che viene chiamata in senso proprio ens: "nam ens simpliciter dicitur id, quod in se habet esse, scilicet substantia" (nota 78: Met. 11.3.). Così si può dire che l'essere nella sostanza è se stesso e che la differenza ontologica si scopre come la "via dell'essere" nella sussistenza: in un ritorno inteso in modo sempre più profondo nel "proprio", cioè in se stesso, nell'essente finito.  

Il finito quindi è reso disponibile ontologicamente nell'evoluzione a partire dall'avvenimento (Er-eignis: non so se Ulrich volesse con questa separazione della parola sottolineare che è qualcosa proprio all' egli (er).  - Parlando con mia figlia, che è germanista, mi ha spiegato che nella parola Ereignis vi è certamente il significato di "proprio", ma l' Er è un prefisso che non ha nulla a che fare con il pronome personale della terza persona singolare maschile; nello sviluppo della lingua tedesca certe parole, che prima venivano esplicate con un suffisso, sono state in seguito espresse con un prefisso. NdT) dell'essere verso la sostanza, nel suo ordine cosmico. Questa disposizione ha come meta l'uomo, che come spirito corporale, nel ritorno verso se stesso, è capace di piegarsi all'indietro: dall'apparenza più esteriore dell'essere-nel-mondo nell'interiorità più intima della sua natura spirituale e così di misurare l'"intero" lasso di tempo della differenza ontologica dell'essere che avviene nella sussistenza finita. Poiché l'uomo nel compimento di questa sussistenza-avvenimento non compie solo la differenza dell'essere con l'essente, ma anche la differenza dell'ipsum esse con Dio, così in questa recapitulatio, attraverso se stesso, interpreta la presenza amorosa ed infinita di Dio come destino di tutto ciò che è creato. Questo compimento viene però nullificato attraverso la continuazione duplice e falsa dell'essere e dell'essente. 

(Ulrich ci aiuta a discernere le tentazioni che nascono da una sovra accentuazione del "non subsistens", in cui l'essere come avvenimento di amore viene reso liquido in una generalizzazione di questo amore o in sua formalizzazione. Questo atto d'amore non è liquido, ma una sussistenza-avvenimento. Solo quest'ultima permette di superare tutto il dramma del mondo e il teo-dramma che ci provocano gli altri e l'Altro perché non sono come noi ci aspettiamo. Questo avvenimento, però, non deve essere a sua volta generalizzato e formalizzato, ma deve compiersi come un reale cammino dall'apparenza esteriore all'intimità del nostre essere-noi-stessi, come corpo, anima e spirito. RG) 

/ 4. L'essere "nella contraddizione" e la contraddizione "nell'essere": la sussistenza come meta  

(21.12.20) L'essere non può trattenersi come essere nell' "orizzonte ideale" della sospensione ontologica. Se viene fissato in essa dalla ragione finita contraddice se stesso come un'attualità "sostanzializzata" ed infinita accanto a Dio. Non la contraddizione dell'essere con se stesso, però, getta l'essere ipostatizzato nella sua sussistenza finita o infinita. Se lo si affermasse perderemmo di vista che la nitidezza speculativa della contraddizione può essere dapprima determinata dalla positività infinita dell'ipsum esse subsistens, o meglio, che l'intera esperienza dell'essere che non tenga conto, prendendo solamente per sé in qualche modo l'essere, della sua appropriata processione fluente da Dio, non comprenderà l'essere nella sua non sussistenza e per questo dovrà sostanzializzarlo. In questo pericolo si trova il pensiero heideggariano.

(In questo pericolo si trova ogni pensiero che veda la filosofia non come ancella della teologia, ma come la forma ultima di salvezza. Noi, però, non siamo salvati da un pensiero, da una gnosi, neppure da uno/una che con ragione sottolinei la dimenticanza dell'essere come essere, ma da Dio (che solamene è sussistente, nella modalità di tre ipostasi). La sospensione ontologica dell'essere nell'idealità è una tentazione molto grande, perché ci permette di aggirare il movimento incarnatorio dell'essere, facendoci degli sconti sul reale. Invece di prendere sul serio la gratuità ontologica dell'essere, nell'esperienza quotidiana, si rimane fissati in un' idea che non si fa carne, ma in vero la realtà ha sempre una priorità sull'idea, per esprimersi con Papa Francesco. RG) 

L'intera difficoltà si trova nella determinazione speculativa dell'automediazione dell'essere. Se non rischiamo (nel senso della parola "rischio educativo" di don Giussani. NdT) il tentativo nella dimensione dell'essere come essere, nel quale esso necessariamente verra compreso-sentito come "nulla", allora il finito si chiuderà in una res posta come fatto, che non è più mediata e deve essere concepita unicamente a partire da una voluntas divina che la pone. Questo in-sé della sostanza sembra possa essere condotto solamente attraverso  l'introduzione speculativa della contraddizione ontologica nella mediazione di un'idealità "viva" e concreta, in  forza della quale l'essere dovrebbe venir svelato, non in una statistica delle essenze (Wesensstatistik), ma come compimento. Questa mediazione, però, presuppone la rovina dell'essere nella res sussistente. 

(Ciò significa che in questa tentazione per così dire "heideggeriana" la concretezza e vitalità della nostra vita non dipendono dall'amore gratuito che ci è donato nell'esperienza, ma da una gnosi che distingua tra "esistenza" ed "essenza". Quando il pensiero "cattolico" (non nel senso di un club, ma dell'universalità concreta del Logos), dipende (non: è in dialogo con - il pensiero di Ulrich è in dialogo con Hegel, Heidegger, Sartre, Bloch..., ma non dipende da questi pensatori)  da un penserò che non può che essergli estraneo si inseriscono nella santità della Catholica elementi che portano alla rovina di ogni suo proprio tentativo di pensiero ontologico dell'essere come dono. L'autoreferenzialità non viene superata da una dipendenza dagli altri, ma da un discernimento a partire da un Logos, universale e concreto, che vuole integrare e salvare tutto e tutti, camminando con tutto e tutti.  RG)

(22.12.20) Ma non dapprima la ragione finita come soggetto trascina l'essere, dalla res, in quella dimensione, nella quale l'essere non può fissarsi in se stesso e per questo motivo, a partire dalla contraddizione si mette in viaggio sulla via che lo porta ad una res, che ora giunge alla mediazione. La sostanza stessa, nel suo essere posta, come vedremo, non può lasciare dietro di sé la dimensione dell'evidenza dell'essere. L'apparente necessità speculativa della contraddizione nell'essere risulta da un duplice indurimento dell'essere nella res e nella sospensione ontologica. 

(L'indurimento nella sospensione ontologica significa l'incapacità di intendere l'essere come dono; l'essere che si perde nella contraddizione è una generalizzazione idealmente astratta. RG)

Una res non mediata implica il "fissarsi-in-se-stesso" dell'essere come essere e quest'ultimo a sua volta conduce ad una res non mediata. Qui realtà ed idealità dell'essere (nota 79) sono spezzate, come è diventato chiaro nella metafisica moderna, che per questo motivo ha dovuto vivere in forza della contraddizione speculativa.  

(Nota 79: In questo possiamo vedere che il potere della contraddizione si realizza quando il bonum (abbiamo parlato della bonitas divina, in cui ha la sua radice il senso necessario dell'essere) si sposta dallo sguardo speculativo e scompare in una realtà o idealità scisse.)

All'essere ontologico sostanzializzato e alla res fattuale corrisponde una positività di Dio, non compiuta e non ancora giunta nella sua pienezza. Designata a grandi tratti era questa la situazione della metafisica greca, in cui il finito come finito non era ancora assolutamente mediato in Dio. All'inizio del pensiero moderno si trova, però, la lotta con questa alterità della metafisica greca che irrita Dio e che si cercava di liberare separando l'apriori teologico dallo status della natura lapsa. La res fissa, chiusa in se stessa e contraria a Dio deve essere forzatamente aperta - Scotus pensa alle causae secundae di Aristotele (Nota 80: Cfr. Op. Ox. 1.II.1u.2. Solamente nella negazione della negazione del ricalcitrante finito conquista infine Dio il "potest in quodcumque possibile immediate", per cui lotta già Scotus (cfr. Quodl. 7.12.)). Ma essa (la res fissa)  nel compimento speculativo, che viene ora dinamizzato dall'apriori della rivelazione, è messa come base d'uscita, così che per la mossa del "superamento-conservazione" vale la seguente terna: 1. res (in-sé); 2.  essere fissato-in-se-stesso e non uscito-da-sé - si deve tener conto che all'essere fissato, nella dimensione teologica, corrisponde la disobbedienza dell'uomo nei confronti di Dio stesso, cioè lo "status" di un Logos che "non è ancora" uscito da se stesso - e 3. Dio: diventa determinante un'amore, non ancora rivelato nell'automediazione, che è invece un amore che non ha "nulla" al di fuori di sé. Questa terna implica, come abbiamo cercato di indicare qui sopra, la contraddizione speculativa, che vien così resa possibile attraverso un apriori teologico, che è stato introdotto come sicurezza del superamento del finito nel finito.  

(Ulrich ci introduce pian piano ad una vera comprensione della libertà e dell' incondizionatezza (Massimo Cacciari) che però non vengono intese come uno sforzo della ragione, come "dottrina della scienza", ma come "filosofia dell'essere come amore gratuito". Quest'ultima non ha bisogno della contraddizione del nichilismo per sentirsi viva, ma "discerne" perché si comprenda che la vera libertà nasce da un'obbedienza ultima al senso necessario dell'essere. Non essere condizionati dalla contraddizione nichilistica è il senso ultimo di questa filosofia. E proprio la contraddizione tra il nulla nichilista e il nulla dell'amore gratuito è la chiave ermeneutica con cui cerco di comprendere il pensiero di Ferdinand Ulrich, ma in vero la realtà tutta. RG)  

(23.12.20) La costituzione ontologica del finito come finito era già prima fissata in una res testarda contro Dio e in questo modo l'essente, a motivo della partecipazione all'essere, constatato come alcunché da superare. 

(Nota 81: Questo ovviamente vale anche per le capacità naturali : "...Naturalem (facultatem) dico secundum status naturae lypsae", si esprime Scotus nell' Op. Ox. Prol. I.2.13. 

Al posto dell'essere, che era legato nella res (Nota 82. Cfr. dell'autore: "Inwiefern ist die Konstruktion...", in modo particolare il capitolo I. e II.) - Scotus e Suarez avevano preparato fondamentalmente la teologia riformata - doveva subentrare la grazia mediante, che nel suo approccio poteva unicamente svilupparsi nel medium dell'essere essenzializzato e della contraddizione. Vediamo  quindi, quale storia del pensiero si manifesta nelle tentazioni, che incontriamo nel nostro cammino speculativo. 

(Nota 83: Non possiamo far vedere ogni volta nei passi speculativi singoli la concretizzazione storica già accaduta). 

(C'è un modo magico di parlare della grazia, che non cambia in nulla le nostre strutture di pensiero e di azione. Ovviamente non è una critica all'affermazione che "tutto è grazia" (Bernanos, Bergoglio), ma a queste strutture di pensiero. L'ontologia dell'essere come dono è in vero la struttura filosofica che permette di prendere davvero sul serio anche il pensiero che "tutto è grazia". RG) 

Se prendiamo l'essere seriamente allora dobbiamo dire: la ragione finita determina la contraddizione a livello speculativo solamente nel senso che non fissa l'essere accanto a Dio, piuttosto "secundum diffusionem processionis ipsius" da Dio e presenta così la sua non sussistenza. 

Quello che è in gioco nell'essere è il suo essere-essente, in quanto è partecipato dagli essenti, "secundum diffusionem processionis ipsius" (Nota 84:Th.1.75.5.1.) a partire da Dio. Poiché, però, un essente è solamente ciò che viene chiamato "in se esse habens", "scilicet substantia, quae subsistit", così nell'essere, come atto, è in gioco, nel suo essere-essente, la sussistenza. 

Se facciamo esperienza dell'assoluta positività dell' ipsum esse subsistens, quindi di Dio, allora, come abbiamo fatto vedere, l'essere è svelato come "nulla". Questo "nulla", però, rende impossibile di proiettare il movimento di sussistenza dell'essere in Dio, in modo speculare al finito, così che il movimento di sussistenza dell'essere in direzione del suo-essere-essente , anche Dio giungesse a se stesso, dalla differenza dell'ipsum esse nei suoi confronti, come sostanza assoluta, nel senso di un "essente infinito": nella modalità di una causa sui, che Tommaso respinge, quando afferma: "Licet verius sit, Deum esse super omne ens, quam esse ens" (De nat. gen., cap. 1). 

(Dio non diviene e la confessione del suo essere sopra ogni essente è confessione di qualcosa di più vero di quanto lo possa essere l'essente stesso. Non è in gioco la magia, ma l'unica verità onto-teologica che conosciamo in modo amoroso - quella di Heidegger è invece il programma contrario a questa confessione. Con un immagine di san Giovanni possiamo dire che Dio è più grande del nostro cuore. In questa confessione non vi è alcun pericolo di intendere in modo magico o non autentico la grazia. Perché Dio non è mai un pericolo; pericolosi possono essere i nostri pensieri pseudo teologici che non ci permettono di comprendere né l'esperienza finita né il suo procedere da Dio. 

Autori come Massimo Confessore o Tommaso d'Aquino sono, rispettivamente, per Hans Urs von Balthasar e Ferdinand Ulrich infinitamente più importanti che Hegel ed Heidegger, anche se entrambi i "fratelli nello spirito" pensano alla pari anche con i grandi della filosofia tedesca citati. RG) 

Questa "costituzione onto-teo-logica della metafisica" (Heidegger) (Nota 85: Cfr. "Identität und Differenz"", p. 37 fg.) si fonda nella fissare l'indifferente ens qua ens nella dimensione speculativa della contraddizione. Una tale impresa significa che la ragione è autorizzata dalla negazione della negazione, che accade nell'automediazione assoluta e rivelata di Dio, cioè attraverso l'annullamento del finito, nella totale riduzione all'origine nel senso di un'affermazione radicale del finito stesso. Significa ancor più che la ragione si è posta nell'inizio assoluto di tutto lo sviluppo speculativo, nel quale ora l'essere non legato in se stesso, è usato per il "nulla". A partire da qui la ragione,  spronata dalla contraddizione, porrebbe, nella dimensione dell'infinito l'assoluta sostanza di Dio e in quella del finito la sostanza finita. L'inizio del pensiero non può compiersi nella sfera del "ens ut sic", senza che nell'essere stesso la contraddizione venga fatta assoluta.  

(Come usa dire Massimo Cacciari la filosofia è una lotta, non una diplomazia; bene su questo punto il piccolo pellegrino di Gesù, come amava chiamarsi Ferdinand Ulrich, compie la sua lotta contro la contraddizione nichilistica e la sua posizione all'inizio del pensiero speculativo ed onto-teologico. 

È forse uno dei meriti più grandi dell'attuale responsabile di Comunione e Liberazione, Julián Carrón, aver compreso la  grande sfida del nichilismo. Tutta l'azione pedagogica del sacerdote spagnolo nella guida del Movimento consiste nel porre un freno al fatto che il nichilismo come contraddizione assoluta è entrato nella Chiesa - il vero fumo di Satana -, e quindi anche nel Movimento. Il nichilismo-contraddizione è tra l'altro anche  il motivo delle continue insubordinazioni contro il Santo Padre. A volte a me è sembrato esserci, nella guida di Don Carrón, una "mancanza di governo", ma vero è che di fronte alla contraddizione assoluta del nichilismo e al nostro muoverci sul suo ghiaccio sottile, solo un Dio incarnato nel nostro cuore può salvarci, nessuna misura, per quanto necessaria, di governo. È e rimane vero: solo l'amore è credibile.  RG)

Un passo del genere dopo Hegel significherebbe che alla speculazione filosofica non deve precedere nulla a parte  "la totale mancanza di qualsivoglia presupposto"; ma questa mancanza di presupposto non è null'altro che la posizione assoluta della ragione nella sospensione ontologica. Al pensiero rimane solamente la sua "assoluta semplicità" (esse come completum et simplex!). Per questo motivo Hegel afferma: "Si tratta di quella pretesa che si pone già nella decisione: di pensare in modo puro, compiuta dalla libertà, che in ciò astrae da tutto, e in questa sua astrazione pura comprende il pensiero come semplicità" (Hegel nell'introduzione alla sua Enciclopedia (§78, p. 93,2. edizione). 

(Questa è in sintesi anche la posizione di un pensatore come Massimo Cacciari: la filosofia come dottrina della scienza, come gnosi libera, non ha presupposti. Questa gnosi è una grande sfida per il pensiero, ma anche una grande tentazione, perché nel cammino al vero che è l'esperienza non esiste in nessun luogo, neppure nell'inizio, questa "mancanza di presupposto". RG) 

(24.12.20) Un insediamento della speculazione nell'assoluta contraddizione dell'essere è in se stesso assurda. Presuppone che la contraddizione faccia l'essere ontologico un punto fisso astratto, nel qual modo Dio stesso cade nella dialettica della contraddizione. In questo momento è tuttavia così decisa l'impresa speculativa della ragione, a partire dall'essere ipostatizzato, che è "presupposta" già fondamentalmente nell'essere sostanzializzato e in questo modo ha perso ogni autentica mancanza di presupposto. 

(Ha perso insomma il gratis dell'amore, per una gnosi della mancanza di condizioni e presupposti. RG) 

La semplicità del pensiero consiste perciò nell'obbedienza al senso necessario dell'essere ("esse est similitudo divinae bonitatis"), dalla cui potenza l' "exinanitio" dell'essere toglie (wendet) al pensiero il bisogno della contraddizione, nel quale cade continuamente,  ed interpreta la differenza tra essere ed essente. 

(Nella parola tedesca Notwendigkeit (necessità) si trova la parola Not (necessità, bisogno) e quella wenden (girare, superare, togliere). Così il "senso necessario dell'essere" toglie il bisogno. RG)

La contraddizione che la ragione finita deve porre, fissando l'essere accanto a Dio, - senza mai poter lasciare alle proprie spalle questa dimensione critica in forza di se stessa - è alcunché di sempre già deciso. Invece la pura astrazione del pensiero, compiuta dalla libertà, nella quale comprende la sua semplicità e mancanza di presupposto da tutto, finisce nella contraddizione assoluta.

Nell'accettazione della povertà della "piccola via" della sua finitezza, su cui la ragione si trova già da sempre, si smaschera la temeraria "semplicità dell'inizio"; in questo modo la ragione esce da se stessa, obbedendo all'essere non sussistente. Nel sacrifico di questa uscita da sé risplende la presenza amorosa ed assoluta di Dio, nella quale luce l'impotenza dell'ipostasi dell'essere viene rivelata. 

(La piccola via (Teresa di Lisieux), il cammino al vero come esperienza (Luigi Giussani) sono rivelazione dell'amore gratuito, che rivela anche la temerarietà di una gnosi che si vuole semplice ritorno alla cosa, ma che è in vero caduta nella contraddizione nichilistica. La stessa formula: "medesimo uso di essere e "nulla"" può essere intesa nel senso dell'amore o della gnosi. La filosofia è quel percorso di discernimento che ci permette di comprendere se siamo ancora sulla "piccola via" dal "lasciarsi fare" (Ignazio di Loyola, Adrienne von Speyr) dall'amore o se invece siamo caduti nelle tentazione dell'homo faber, anche e soprattutto a livello ontologico. RG)

(25.12.20. Natale di Gesù) 

5. Contraddizione e movimento di sussistenza dell'essere. L'identità dell'essere

L'esperienza della contraddizione dell'essere "accanto" a Dio e il tema del giungere-a-se stesso dell'essere nel movimento di sussistenza dipendono profondamente l'uno dall'altro. 

L'essere è Dio "oppure" essente finito. Questo "oppure" non è da comprendere al livello di un'orizzontalità speculativa, su cui si troverebbero Dio e il finito. 

D'altra parte non è neppure così che la dinamica dell'inizio sorga dal "luogo della contraddizione", che in primo luogo e a sua volta distruggerebbe questa orizzontalità speculativa. 

L'essere in quanto essere è da se stesso, parlando speculativamente (!), se "obbedisce" al senso dell'essere e se "è" se stesso: nell'unione sostanziale con se stesso. Questo giungere-a-sé nasconde, però, il pericolo della continuazione duplice e falsa dell'essere e dell'essente in sé; d'altra parte nel giungere-a-sé si trova il presupposto del non-ancora-essere-presso-sé dell'essere, ma nella modalità del fissare il medesimo uso di essere e "nulla" nell'inizio assoluto, o meglio del risultato del giungere-a-sé come "divenire", nel superamento della contraddizione. Ci troviamo profondamente in dialogo con Hegel.  

Sebbene ci manchi una parola migliore vogliamo tentare di interpretare la differenza tra essere e ed essente come avvenimento del "movimento di sussistenza" dell'essere, a condizione che, solamente, la sostanza venga chiamata "simpliciter ens". In questo modo l'essere ha la sua sussistenza come "meta", essendo in se stesso. Poiché l'essere viene partecipato dalle creature a seconda del fluire della sua processione da Dio e questa processione da Dio, però, non "scorre" mai al di fuori di Dio, così l'essere, nel suo procedere, è superato-conservato da sempre nell' assoluta e semplice positività di Dio, senza che Dio venga inserito nel processo del divenire. (26.12.20; san Stefano, primo martire) La differenza ontologica è secondo la parola: "In Deo omnia Deus", in Dio come differenza tutto è "fatto" da sempre ed assolutamente nel "modo" di Dio.

(Nota 86: La differenza in primo luogo non viene all'essere dal di fuori e in secondo luogo non nel senso che l'essere al di fuori di Dio, da sé, la lascerebbe procedere. Ecco un testo di Tommaso d'Aquino sul tema: "Non autem Deus perfecte seipsum cognosceret, nisi cognosceret quomodocumque participabilis est ab aliis sua perfectio: nec etiam ipsam naturam essendi perfecte sciret,  nisi cognosceret omnes modos essendi"; così come se bastasse l'esse come completum et simplex, nel quale comunque tutto "è" già piegato al suo interno. - "Unde manifestum est, quod Deus cognoscit omnes res propria cognitione, secundum quod ab aliis distinguuntur", Th.1.14.6. Questa distinctio risulta, però, dall'intero "diametro" dell'essere, a partire dalla differenza ontologica (!) e non dalla scissione dell'essere in "parti avute". Per questo motivo dice l'Aquinate: "Oportet igitur dicere quod (Deus) alia a se cognoscat propria cognitione; non solum secundum quod communicant in ratione entis (!), sed secundum quod unum ab alio distinguitur", Th. 1.14.6.)

Se si presta attenzione più acutamente al "superamento-conservazione" dell'essere nel suo giungere-a-se-stesso, allora è chiaro che ciò rivela che l'essere come essere è "nulla"  che l'"altro" nei confronti di Dio, perché Dio non esce da se stesso nel versare il procedere dell'essere nell'altro, che egli stesso non è.  Se esce da se stesso nell'essere, allora "ciò che è uscito da se stesso" (das Entäußerte) è già da sempre ciò che Dio non è, perché Dio da sempre è ciò che è: ipsum esse subsistens. 

In questo si è svelata a noi l'identità dell'essere nel giungere-a-se-stesso. Nell'identità dell'essere è il "Dio o creatura" già deciso in modo assoluto e l'essere, nel compimento del movimento di sussistenza, medesimo con se stesso, cioè se stesso. 

Non dobbiamo intendere quanto detto come se l'identità assoluta di Dio e l'identità finita della creatura giungessero alla "decisione" nel livello trascendentale della contraddizione. L'identità dell'essere può essere solamente decisa così che la differenza tra essere ed essente, come essa si interpreterà, deve essere superata-conservata nell'assoluta identità di Dio come differenza, in modo tale che l'essere, giungendo a se stesso nella "sussistenza finita", fa si che la differenza splenda nell'assoluta identità di Dio, senza che Dio stesso venga dissolto nel procedimento di un giungere-a-sé.  

(Bisogna stare attenti che la prima mossa del pensiero non ci ponga immediatamente nella contraddizione assoluta, la cui conseguenza ultima è il nichilismo. Una comprensione di Dio solo orizzontale, di un Dio in divenire (Hegel, Bloch), ma anche di un "Dio divino" (Heidegger) ci pone da subito nella contraddizione che porta al ghiaccio sottile del nichilismo: RG) 

(27.12.20; san Giovanni Evangelista, Santa Famiglia) 

Se la ragione finita regge speculativamente la dimensione dell'essere come essere, fa esperienza in ciò della contraddizione, e così svela subito che questa "contraddizione" e con lei la differenza vive in forza dell'identità dell'essere con se stesso. Solamente perché Dio è assolutamente Egli stesso, l'ipsum esse è non subsistens. E poiché il finito come essente in un certo modo e incalcolabilmente, paragonato con Dio, è da sempre se stesso, attraverso la "maior dissimilitudo", l'esse praeter omnes res è solamente in intellectu, cioè completum et simplex e allo stesso tempo non subsistens. 

(Guardando Hegel negli occhi e al cospetto del problema dell'ateismo moderno Ulrich sottolinea la differenza tomistica tra ipsum esse subsistens (Dio) e l'ipsum esse (l'essere finito); sottolinea anche la tentazione gnostica di non prendere sul serio che il cammino al vero è un'esperienza (la conseguenza di ciò è il nichilismo), che accade sulla piccola via. Al di fuori di ciò l'esse è solamente in intellectu, è solamente gnosi. Cosa significa ultimamente ritenere l'ipsum esse "simplex et completum, sed non subsistens"? Significa prendere sul serio il dono dell'essere come amore, non come gnosi che sostanzializza l'essere, ma come cammino al vero nell'esperienza che ci viene donata: questa è sostanziale, l'essere, per quanto decisiva memoria della gratuità dell'amore, è "nulla". RG)

Affermando che l'essere si contraddice nel suo orizzonte ideale e che non si può reggere in esso deriva alla ragione questa "contraddizione", dall'identità dell'essere con se stesso, se quest'ultimo è già da sempre Dio - oppure creatura. È importante in ciò solamente che la ragione non si fissi nella contraddizione, non la faccia diventare l'energia della propria identità, determinando l'identità a partire dalla contraddizione stessa. 

Se l'identità del finito con se stesso permette dapprima l'anticipazione speculativa nella dimensione dell'essere come essere e cosi l'esperienza della differenza ontologica e attraverso di essa la determinazione speculativa del medesimo uso di essere e "nulla", allora lo sviluppo del "movimento di sussistenza" è, per così dire, la "via del ritorno" dell'anticipazione della ragione sull'essere come essere e come tale l'interpretazione dell'identità finita dell'essere, ora, però, "attraverso" la differenza ontologica e per l'appunto come "via di ritorno". (28.12.20; Santi innocenti). Questa interpretazione può essere compiuta solamente se il pensiero si apre "obbediente" (hörig, oggi significa succube, ma nel linguaggio di Ulrich ha a che fare con hören, ascoltare, sentire; NdT) e continuamente all'origine, cioè all'identità sussistente dell'essere come essere o meglio alla differenza nell'identità assoluta di Dio. Questa differenza rompe l'ipostasi ontologica del contro-Dio. Al contrario il blocco-essenza, assoluto ed infinito, non potrebbe che porre un essere in sé fisso, poiché Egli dovrebbe da sé ingurgitare in sé, nuovamente, tutti i doni e la sua assoluta automediazione non splenderebbe nella differenza ontologica. Tommaso ha intravisto questa verità quando ha detto: "...quantum ad ordinem dignitatis et causalitatis illa distinctio (divinarum hypostasum) excellit omnes distinctiones, et similiter relatio, quae est principium distinctionis , dignitate excellit omnes distingues quod est in creaturis, non quidem ex hoc quod est relatio sed ex hoc quod est relatio divina. Excellit etiam causalitate, quia ex processionem personarum divinarum distinctarum causatur omnis creaturarum processio et multiplicatio (!)"...1. S. 26.2.2.2.

(Mi sembra che la differenza ontologica di cui parla Tommaso, in relazione alle processioni divine, excellit nel confronto di tutte le relazioni solo creaturali, per il suo carattere personale. Cosa che non stupisce se si pensa, come ha fatto vedere Robert Spaemann nel suo libro "Persone. Tentativi sulla differenza tra 'qualcosa' e 'qualcuno''" (Personen. Versuche über den Unterschied zwischen 'etwa' und 'jemand', Stoccarda, 1996), che il significato di persona viene alla filosofia dal dibattito trinitario. RG) 

6. Il movimento di sussistenza come "via in ens" nella tentazione del pensiero. Primo sguardo sul rapporto tra tempo ed essere 

È chiaro che il movimento di sussistenza come "via" dell'essere nel suo essere-essente non è un motus. Se si dice: "ens simpliciter dicitur id, quod in se habet esse, scilicet substantia" (Nota 87: Met.11.3) oppure: "ens dicitur quasi esse habens, hoc autem solum est substantia, quae subsistit" (Nota 88: Met.12.1.), allora qui la cosiddetta "via alla sussistenza" non è altro che il compimento all'indietro della dimensione aperta dell' "esse habens"; aperta nell'anticipazione speculativa dell'essere come essere. Questa dimensione è quella della differenza ontologica, nella quale la partecipazione dell'essere è interpretata. Ci domandiamo quindi, come l'"esse habens" si realizzi (zustande kommen: nella parola tedesca messa in corsivo dall'autore, non vi è moto, ma stato; NdT): "dalla" dimensione del ipsum esse non subsistens nel sussistere concreto dell'essente finito e nella sua relativa (forse nel senso di relazionale.NdT) identità con se stesso. 

(29.12.20; Thomas Becket, vescovo e martire) Il movimento di sussistenza descrive l'intera dimensione dell'esse habens, il giungere-a-se-stesso dell'essere, non lineare e non inaugurato dalla contraddizione, che termina nella sostanza, "quia in ea reperitur perfecta ratio entis" (Nota 89: De IV Opp. II. 7.). Se, però, la ratio entis si svela nella sostanza allora si svilupperà in ciò che è, a partire dal movimento di sussistenza dell'essere, meglio nel ritorno dello spirito capace di essere  a se stesso, nella sua concreta sussistenza. 

Ora ci aggredisce di nuovo una grande tentazione, poiché "motus non est ens completum, sed est via in ens" (nota 90: 4. S. 1.1. 4b. Non vale infine questo motus anche per per il giungere-a-sé dell'essere? Non è questo essere, che si usa in modo medesimo per il "nulla", un ens in-completum, che è ora in cammino verso la sua sussistenza, essendo in cammino verso se stesso: come ens? Il movimento di sussistenza non è questa via del motus dell'"esse  in-completum", sulla "via in ens" verso l'ens completum, che è un esse habens? 

(Nota 91: Il motus è in questo senso nella modalità di un futuro: "Semper expectat aliquid in futurum ad perfectionem suae speciei", 4.S. 17.1.5c.1, poiché viene chiamato "temporale" ciò che "expectat aliquid in futurum ad hoc quod eius species  compleatur", V 8.14.12. Qui è in gioco un "tendere in actum" (in VIII, Phys. lect. 10). 

Se viene qui tuttavia intesa la natura ontologica del motus, nella quale il tempo si sviluppa, allora deve essere posta la domanda, se alla fine in ciò essere e tempo non vengano identificati!? L'essere scaturirebbe dal tempo, se la figura temporale non sarebbe altro che la figura del motus e così la radice profonda prodotta dell'essere, che giunge all'essente (nella modalità di ciò che è futuro), ma che  è "in" esso da sempre passato. D'altra parte il tempo procederebbe dall'essere, se il movimento di sussistenza si interpretasse come motus e "via in ens". 

La possibilità di una discussione feconda su questa problematica sembra esserci data e verrà espressa più tardi nel capitolo sullo "spazio-temporalità ontologica". Si vedrà che potremmo imparare molto dalle pericolose tentazioni del pensiero che dovremo superare. 

Ma già ora possiamo dire che il movimento di sussistenza dell'essere non descrive mai la via di un ens in-completum verso la sua sussistenza, poiché l'esse non è un ens, ma un non subsistens, e d'altra parte contrassegna anche un completum et simplex, quindi non un in-completum, poiché ad esso non può essere aggiunto nulla che gli sia esteriore. Il movimento di sussistenza viene compreso allora dapprima come motus, se l'essere riceve come sublimazione massima dell'essente la caratteristica del suo essere-essente e non viene più concepito rigorosamente come "actus quasi primus".

(Nota 92: "Esse non dicit actum qui sit operatio transiens in aliquid extrinsecum temporaliter producendum, sed actum quasi primum",  V. 23.4.7. Rimandiamo qui al capitolo in cui tratteremo  dell' "esse come prima rerum creatarum". Là Tommaso può essere sospettato di ipostatizzare l'essere. Vero è che il porre in risalto l' "actus quasi primus" accade proprio contro una sostanzializzazione dell'essere. Piuttosto Tommaso cerca di evitare una continuazione lineare- logicizzante dell'esser nell'essente, nella quale la differenza ontologica sarebbe chiusa in un'identità totalmente riflessa).  

In motus viene allora compreso solamente come passaggio entitativo, cioè è già da sempre infine tramontato ("passato") nell'essente. Come ens in-completum è già in qualche modo anticipatamente già "stato" ciò da cui e verso cui il movimento di sussistenza si apre: l' ens. Il motus ci avrebbe portato solamente alla duplice e falsa continuazione dell'essere verso l'essente e viceversa.  

(Ulrich ci aiuta a discernere in questo passaggio tutto il cammino filosofico fatto a partire da Hegel verso Adorno e Bloch e che giunge fino a noi. Una ontologia del non essere ancora dell'essere perde di vista, credendo di dinamizzare la realtà, che l'essere da sempre è quell'atto ultimo di donazione gratuita a cui non può essere aggiunto proprio nulla (ed in un certo senso cade in contraddizione con la propria volontà di "non ancora", riducendo tutto in "già passato"). Certo il tempo ha una sua dinamica importante e solo con il tempo possono essere guarite certe ferite o si possono risolvere certi problemi , che nessuna occupazione di spazi di potere potrebbe fare (Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco). Ma anche il tempo vive del primerear ontologico di un dono del tutto completo e semplice, anche se non sussistente, che è l'amore gratuito. La neve in un bosco o in un giardino è una metafora eccellente di quello che stiamo dicendo: semplice, completa ma infine non sussistente. RG). 

(31.12.20 San Silvestro) 

IV. La crisi dell'essere e la sua interpretazione, nella differenza di essere ed essente

1. Il movimento di sussistenza e la differenza ontologica

Poiché il movimento di sussistenza incomincia nel medesimo uso di essere e "nulla", così ha già superato e "conservato" nell'essente positivo questo "inizio"; sebbene l'essente risulta dal compimento della differenza, proprio per questo motivo l'inizio come tale, giacché non può essere mai ipostatizzato, è a sua volta già "risultato" dell'anticipazione speculativa della ragione, a partire dall'essente concreto. 

Da qui origina per il pensiero la grande tentazione di intrappolare il risultato dell'"inizio"  nell'assoluta riflessione dell'essente e di rinunciare allo sviluppo ontologico del movimento di sussistenza, se l'inizio, quando la ragione obbedisce alla non sussistenza dell'essere, sembra essere determinato dall'essente concreto. Dalla non sussistenza dell'essere risulta allora la concretezza della res.

Questo, però, implica nuovamente la determinazione dell'essere meramente nella riflessione dell' essenza (Wesen), che "determina" l'essere nella sua esistenza concreta, cioè ne fruisce e lo limita, come si vedrà. L'apertura della differenza ontologica o il movimento di sussistenza sarebbe esclusivamente mediato attraverso l'essenza posta. L'essere si comporterebbe allora  "come l'immediato nei confronti dell'essenza come mediata" (Nota 93: Hegel, Logik III, 116.), il "suo (dell'essenza) movimento stabilisce il passaggio dall'essere nel concetto" (Nota 94: Hegel, Logik I, 484), ciò significa il passaggio della res nel'n-sé, nel suo superamento- conservazione aperto nel soggetto, attraverso la comprensione della differenza ontologica. Ma anche qui non è riuscito il compimento speculativo della differenza ontologica, piuttosto si è compiuta una continuazione logicizzante, che da sola riceve nel vortice della contraddizione un'appartane non essenzialità o una dispensa dalla res. Ma se il movimento di sussistenza deve essere compiuto, allora l'atto speculativo della ragione si trova già da sempre nella differenza di essere ed essente, nella quale la ragione deve appropriarsi il disegno del proprio compimento di vita. 

(La vera non sussistenza, la vera gratuità dell'amore, non si raggiunge con una gnosi, come non è possibile, con un atto di logicizzazione ( = gnosi), appropriarsi il compito che determina in modo libero (nel mistero del medesimo uso di obbedienza e libertà) la nostra vita. Una vita che scorre nella differenza tra l'essere come atto di amore gratuito e la concretezza e molteplicità dell'essente. RG) 

(4.1.21) Il movimento di sussistenza dell'essere verso l'"identità" con se stesso non spegne la differenza ontologica. Bisogna decidersi di fare esperienza della differenza ontologica "nell'" identità dell'essere. L'"inizio" come risultato (dell'anticipazione speculativa) e il finito che risulta dall'"inizio" (del medesimo uso di essere e "nulla") non possono essere pareggiati l'uno con l'altro in una differenza già chiusa. L'essere stesso avrebbe in questo modo lasciato assolutamente dietro di sé la sua "exinanitio" (non subsistens!) e la dialettica della contraddizione spingerebbe solamente questo "già-da-sempre-essere-stato" sostanza nella mediazione. L'identità dell'essere non si media speculativamente così che l'essere e l'essente vengano fissati come punti iniziale e finale del movimento dell'essere. L'identità non è perciò una mossa nell'essere, cioè "all'interno" dell'essere. No, l'essere come "non subsistens" sta esso stesso nella mossa dell'identità. Vive nel suo medesimo uso per il "nulla" in forza dell'identità con se stesso. 

L'identità dell'essere non inizia perciò neppure nella contraddizione del medesimo uso di essere e "nulla". La contraddizione dell'essere non si supera da se stessa nell'identità dell'essere. Questo sarebbe quel comportamento della ragione che si è identificato con l'essere, per dissolversi a partire da qui, pensando la contraddizione dell'essere, nell'identità mediata con se stessa. L'identità non è quindi una mossa nell'essere, che si raccoglie e stabilizza finalmente nell'essente, chiamato tale per via dell'essere o nell'essente che "accade". Se l'identità fosse posta così allora la contraddizione rimarrebbe inevitabilmente "assoluto inizio" della speculazione filosofica. Poiché, però, "la contraddizione come inizio" presuppone la sostanzializzazione dell'essere praeter res, cosa che come condizione della sua possibilità implica l'ingresso dell'essere nel soggetto o meglio la sua concettualizzazione, così rimane solamente la sostanza come res "fattuale", isolata al di fuori del soggetto, in un'identità meramente astratta, cioè chiusa in se stessa in modo unilaterale e non mediato. Per questo motivo sia l'identità infinita, come quella finita non partono dalla contraddizione; se no il rapporto dell'essere sarebbe in contraddizione con l'essere "nell'" assoluta o relativa identità con se stesso come essente! Ma in questo modo si dissolve proprio ed anche come identità relativa del finito in quanto finito. Si potrebbe porre così solamente di volta in volta precariamente, per poi superarsi immediatamente a partire dal suo "inizio" (contraddizione), per, in questo cammino, spingere in avanti il movimento di sussistenza dell'essere in infinitum. Questo progresso infinito è allora solamente "superato" da una ragione capace di essere, che non obbedisce, però, al senso necessario dell'essere, e che rende così da sé già "passato" il movimento di sussistenza, attraverso la sostanzializzazione antecedente dell' ipsum esse.

(Tradotto in modo religioso: "Obbedienza" è un termine spesso frainteso nella cultura odierna. Significa letteralmente "ascoltare profondamente". Nessuno ascolta e pondera la volontà di Dio più profondamente di Maria. "Ella cede a Dio lo scopo e la fine di ogni atto dei suoi sensi. Così i suoi sensi sono uno spazio aperto in cui Dio può manifestarsi in qualsiasi momento... Considera i suoi sensi come un mero prestito del Padre, così che, in ciò che percepisce, riconosce sempre e subito il dono del Padre" (Adrienne von Speyr)" (Kris McGregor, Adrienne and the Mystery of Mary, in Adrienne von Speyr. Una donna nel cuore del ventesimo secolo, Lugano-Siena, 2020, 62). Una filosofia che non obbedisce al senso necessario dell'essere diventa astratta e chiusa nella contraddizione di rendere "passato", tutto ciò che vorrebbe far progredire. Tutto accade in fondo solo in una gnosi astratta, praeter res. Solamente che il "cammino al vero è un'esperienza" (Luigi Giussani) che ci viene donata da Padre (ai nostri sensi e non ad una gnosi astratta). Se l'essere non ci viene donato dal Padre come atto di amore gratuito o meglio se noi non lo percepiamo come tale, non possiamo che muoverci nella contraddizione come "assoluto inizio" di tutti i nostri passi, filosofici e non. RG)

(6.1.21. Epifania del Signore)

/2. La crisi dell'essere e la decisione del movimento di sussistenza

Noi chiamiamo l'"inizio" dello sviluppo speculativo della differenza tra essere ed essente: crisi dell'essere, a condizione che in essa il medesimo uso di essere e "nulla" giunga alla decisione nella sostanza concreta, che ha superato da sempre questo movimento nell'essere positivamente posta da Dio.

Il movimento di sussistenza non descrive così solamente la differenza ontologica tra essere ed essente, ma la interpreta allo stesso tempo nella sostanza concreta.

(Nota 95: Cfr. E. Gilson: "Pour obtenir une vue correcte de l'ontologie thomiste il suffit d'étendre á la notion d'être en tant qu''être le conclusions valable pour chaque substance en particulier" (L'Etre et L'Essence", p. 117. ).

Esso è insomma null'altro che lo sviluppo progressivo dell'"esse habens", dell'ens, della concreta sostanza, cosicché la differenza ontologica verticale diventa tema nuovamente ed originariamente nella dimensione orizzontale del concreto compimento di sé: rappresentazione di sé espressiva (apparizione) e ritorno intimo in se stesso. Questa impresa speculativa è del resto completamente legittima, perché rimane evidente, che tutte le "fasi" di questa interpretazione dell'essere che giunge-a-se-stesso sono superate dall'essere che da sempre è medesimo con se stesso e sussistente e che non sono un mera creatura della ragione, poiché "esse (!) ...est actus subsistentis".

(Nota 96: 1. S. 8.3.3. exp. text. Il sussistere mediato dell'essere nella sostanza concreta e finita è e rimane anche sempre la "base" dell'anticipazione speculativa riguardante l'essere come essere: "Sicut esse secundum rationem intelligendi consequitur principia ipsius entis quasi causam, ita etiam mensura entis se habet ad mensuram essendi secundum rationem causae", 1.S. 19.2.2.3.)

(9.1.21) Ci domandiamo quindi in quali "fasi" l'essere "giunge a se stesso"? Questa domanda corrisponde alla cosa, se tutto il "movimento", tutta la falsa continuazione dell'essere nell'essente si lasciano continuamente estinguere e conservare-superare nel "senso necessario dell'essere". Quest'ultimo rivela che la crisi dell'essere, se in in essa viene deciso il medesimo uso di essere e "nulla", non può essere mai neutralizzata nella pseudo sussistenza dell'ens indifferens e l'essere mai depotenziato in una potenza capace di determinare, cioè nel puro concetto.

Il senso necessario dell'essere afferma nello stesso modo l'essere come un completum et simplex, nel senso dell'attualità infinita, come anche la sua non sussistenza. Con ragione può essere detto, sit venia verbo, che il senso necessario dell'essere nullifica l'essere nella sospensione ideale e svela la sua exinanitio. A partire da questa nullificazione, però, l'essere è già da sempre ciò che è e rivela in questo modo al mero pensiero-ragione, che vuole aggrapparsi ad un punto-fisso sicuro, proprio nella sua apparente impotenza dell'uscita-da-sé (Entäußerung) nella finitezza, la sua positività infinita. In questa "povertà", come ultima sigillatura della sua pienezza, l'essere chiama la ragione all'obbedienza ontologica, nella quale le si apre la ricchezza dell'essere. Mentre l'essere, che si fissa in se stesso e che afferma se stesso nella temeraria ricchezza di una sospensione dell'essere che pretende di comprendere tutto, scade nella miseria di un ens rationis posto in modo meramente razionale: "praeter omnes res existentes: nisi in intellectu solum".

(Nota 97: Cfr. G. 1,26. Ci sia permesso, a riguardo della vita di Gesù, di presentare teologicamente questa esperienza metafisica. Il tentatore gli si avvicina nel deserto e gli dice: "Se tu sei figlio di Dio, allora...". Insomma: "è davvero necessario prendere su di te qui ed ora l'impotenza e la miseria dell'esistenza umana?" Satana tenta Gesù in modo tale che egli ritorni rifugiandosi nella sua Deitas, che Gesù non ritenne come un "privilegio" (cfr. Fil 2, 6; la traduzione CEI del 1974 usava il termine "tesoro" NdT). Era la tentazione del dominio in forza di un fissarsi-in se-stesso nella Deitas contro la exinanitio nella figura di servo (la traduzione CEI del 2009 traduce con "condizione di servo" il greco "morphèn doulou". NdT). Sarebbe del tutto importante riflettere questa dimensione nei vangeli nella loro interezza: il chicco di grano deve morire, si deve raggiungere un profitto con i talenti...La legge è compiuta nell'amore, che a differenza della legge non rimane necessariamente "l'altro", in riferimento al autocompimento dell'uomo, ma che come dono donato liberamene è capace di uscire realmente da se stesso, di diventare uomo: non si rifugia "alla fine" in un fissarsi-in-se-stesso ipostatizzato, ma esce veramente da sé, si "nullifica", diventa così realmente uno di noi, così che Egli chiama se stesso: "figlio dell'uomo". Cfr. sulla tentazione di Gesù anche S. Irenaei Episcop., Contra Haereses, Lib. V. (PG 7, 1180/1181): "Ad illud quidem quod ait: 'Si Filius Dei es...', usus est (Jesus) hac, quae excaecavit eum, hominis confessione, et per paternam dictionem primum eius impetum evacuavit...Denudans eum per hoc nomen, et se ostendet qui erat". )

(10-1-21; domenica ultima di Natale, come "battesimo del Signore"). La "crisi dell'essere" si trova nel potere del senso necessario dell'essere. Essa fa vedere che l'essere, come "similitudo divinae bonitatis", da sempre è positivamente esso stesso. Il come, però, "giunga-a-se-stesso" parla della "via", sulla quale la ragione speculativa supera la contraddizione e in questo modo deipostatizza la sospensione ideale dell'essere. Se l'essere è l'allegoria (Gleichnis) massima di Dio nella non-sussistenza, allora è a partire da ciò un completum et simplex già da sempre nullificato e positivamente esso stesso, senza, anticipando questa nullificazione, essere dato come un accanito essere-fissato-in-se-stesso: "nam ens simpliciter dicitur quod in se habet esse, scilicet substantia" (Nota 98: Met.11.3.3). Non la ragione pneumatica pone a partire da sé la nullificazione dell'essere, per dimostrare la propria identità come impotenza della sua non-sussistenza nel battesimo di sangue del "venerdì santo speculativo" (Hegel)!

(In questo capitolo troviamo temi decisivi della filosofia ontologica e biblica di Ulrich. Temi che sono stati quasi del tutto non recepiti, non solo, come è evidente, dalla filosofia laica, ma neppure da quella laico-cattolica. Per parlare con Charles Peguy: né i clericali anticlericali, né in clericali clericali hanno interesse ad essa. Non è mai un atto pneumatico della ragione, cioè una gnosi, che ci permette di comprendere l'importanza della domanda ontologica, ma un semplice riconoscimento, che accetta l'unica crisi davvero feconda, quella ontologica, di lasciarsi dire che tutto nella vita si gioca in quel cammino al vero che è l'esperienza stessa, in cui "sostanze" e non primariamente "pensieri" cercano il loro senso ultimo, che non viene mai prodotto, ma è donato come amore.

E per quanto riguarda Cristo: Egli ha per amore assunto la "morphèn doulou" (figura di servo): sulla croce ha confessato il peccato del mondo e nella discesa all'inferno è stato immerso nella melma senza speranza provocata dalla nostra disobbedienza e dal nostro peccato (Adrienne von Speyr, Hans Urs von Balthasar). Certo Cristo non è venuto per essere schiantato dal nichilismo, ma il modo con cui lo combatte non è nella modalità del proselitismo (come ci ha spiegato Jorge Mari Bergoglio, Papa Francesco), o di una guerra, ma di un dono gratuito e radicale di se stesso. Questo è il motivo per cui persone come Charles de Jesus, Christian de Chergé, Pierre Claverie, Paolo Dall'Oglio hanno donato la loro vita nel e per il dialogo con l'Islam, che come ci ha insegnato il Magistero, dalla "Nostra aetate" del Concilio Vaticano II fino alla "Fratelli tutti", è una realtà che ci interpella, non un nemico da combattere. Per ritornare all'ontologia: se l'essere è dato come "simplex et completum" non accade nulla nella storia che non abbia almeno in parte analogia con questa completezza. E se Cristo agisce davvero in "morphèn doulou", questo vale anche per tutti gli avvenimenti accaduti dopo di lui. RG)

(16.01.21)

/3. La tentazione nello sviluppo del movimento di sussistenza

Una seconda insicurezza colpisce perciò il pensiero nell'anticipazione speculativa dell'essere come essere. Da una parte sorge nel pensiero un pericolo nel volersi soffermare "dentro" una dimensione "originaria", che non sussiste. Così comincia la tentazione di non compiere per nulla l'excessus speculativo verso l'essere. Ci domandiamo: che aiuto ci da riflettere su questo "completum et simplex, sed non subsistens"? Dobbiamo chiamare, a partire da un tale "nulla", che viene usato in modo medesimo dell'essere, il concreto essente essente? Si può davvero dire: "Hoc nomen ens ab ipso esse" (nota 99: Met. 4.2.) e "ens sumitur ab actu essendi" (nota 100: V.1.1.c.)? Di che tipo di sforzo filosofico si tratta, voler chiamare l'essente, a partire da un un tale "nulla", essente - le stelle, i fiori, i bambini?

Se noi, però, ci tratteniamo nella dimensione della "crisi dell'essere", allora ci domandiamo, se ci è lecito costituire un tale orizzonte ontologico e considerarlo nella nostra riflessione, senza che il pensiero usurpi un ambito, in cui continuamente è sottoposto alla tentazione o addirittura ne sarà da essa vinto, nel quale vuole sollevare questo intimum dell'essente nella sospensione della pseudo sussistenza ed in una originaria volontà di potenza, a partire da qui, sottomettere tutto l'essere ad una "disposizione perfezionante" del soggetto -, se solo una volta viene posseduta la fonte fondamentale di tutti gli atti e di tutte le perfezioni, ovviamene nella modalità di un puro concetto; poiché "esse est actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium perfectionum" (nota 101 P. 7.2.9.).

(Quale è il motivo ultimo per cui pensiamo filosoficamente? La volontà di potenza? La volontà di potenza del soggetto che vuole ordinare tutto ciò che percepisce - le stelle, i fiori, i bambini? Oppure è un servizio di discernimento di cosa accade quando ci fissiamo in "anticipazione del pensiero"? Anticipare il reale è la grande tentazione di tutti, filosofi e non filosofi. Nel mio cammino intellettuale, spirituale ed umano due libri mi hanno aiutato in modo particolare a "discernere le tentazioni" - a livello filosofico, questo libro di Ulrich che sto traducendo, Homo abyssus, e il commento a san Giovanni di Adrienne von Speyr. RG)

La tentazione attira il pensiero continuamente con una ultima "ambiguità" metafisica: se la ragione finita infatti si lascia andare nei tentativi appresi e progettai prima, allora suppone, nel suo cammino, di "essere sempre nel giusto". 

(Il discernimento di questa ambiguità speculativa ("tradizionalista") ci permette molto più del ritmo puro di Hans Georg Gadamer, che ci avvertiva con ragione che dobbiamo tenere conto del fatto che l'altro potrebbe essere nel giusto, che l'altro potrebbe aver ragione, di discernere la nostra più o meno occulta volontà di potenza. RG)

Sembra essere legittimo sia la rinuncia al sostenimento speculativo dell'essere, poiché per l'appunto l'essere è "nulla", così pure sembra essere giustificata la costituzione di un "orizzonte ideale" sussistente, poiché l'essere significa un completum et simplex e si dovrebbe o svelare ciò speculativamente oppure far cadere la mediazione del finito nel finito.

(A seconda se noi ontologicamente, per parlare un altro linguaggio, accentuiamo il pensiero debole (l'essere è per l'appunto "nulla") o quello forte (l'essere è un simplex et completum) cadiamo nella tentazione postmoderna e relativa o in quella tradizionalista. RG)

Più tardi vedremo ancora su quale via il pensiero finisce, quali svolte metafisiche vengono poste al concreto e storico compimento del pensiero, se una volta la ragione si insedia nell'orizzonte della sospensione ontologica. Se questo è accaduto, allora il luogo dello sviluppo speculativo diventa il centro assoluto di potere della produzione razionale-tecnologica dell'essente e della sua verità: insomma accade una produzione dell'essente in un movimento di sussistenza di "secondo ordine", che si trova in un' inquietante analogia con il legittimo ("primo") movimento di sussistenza dell'essere, così che il mondo originariamente sussistente dell' uomo e sovrapposto o addirittura ingurgitato dal mondo tecnicistico di "secondo" ordine, accaduto in forza del "secondo" movimento di sussistenza: perché la "ratio entis ab actu essendi sumitur...esse autem est actus essendi". Al di là di ciò accade una "produzione" della della verità, poiché "l'essere delle cose causa la verità nell'intelletto" (Nota 102: Th. 1.16.2.3.).

(Dovrebbe essere ormai chiaro che con il termine "sospensione dell'essere", "sospensione ontologica" Ulrich intende un pensiero che non è obbediente alla piccola via del cammino del vero come esperienza. Il "secondo" movimento di sussistenza è un atto di gnosi, un atto in cui l'essere non è più dono, ma una ipostasi che si fissa in se stessa. Tutto ciò è inquietante, perché, come abbiamo già spiegato, il male, nella sua dimensione apocalittica, cerca sempre di presentarsi come analogia del bene, come fa vedere san Giovanni nell'ultimo libro della Bibbia. RG)

Poiché, però, l'essere non sussiste, si è davvero consegnato all'essente. Giacché non tiene per sé "nulla", autorizza la ragione ad un'anticipazione radicale di se stesso: a partire dal finito. Non nella fissazione-in-se-stesso rivela l'essere la sua ricchezza, così come anche il dono appropriato nella verità, muove chi la riceve, giacché lei lo libera nella sua propria autonomia (Selbstand), verso l'origine di chi dona e rivela la sua pienezza e positività.

(Nota 103: Si può comprendere senza problemi che nella "crisi dell'essere" è nascosta l'intera problematica dell'autonomia delle causae secundae. Con l'ipostatizzazione dell'essere, con il fissarsi-in-se-stesso del dono, va sempre, lo si potrebbe far vedere in ogni falso pensiero agostiniano, di pari passo il depotenziamento del finito: per la "soli Deo gloria", solo che Dio stesso viene depotenziato, perché il Dio-contro dell'ens indifferens infinito, sostanzializzato si è installato accanto a lui. Solo il fatto che in questo contesto l'essere è presente come concetto ontologico generale nella ragione, nasconde in qualche modo la risurrezione di questo Dio-contro gnostico. Ma anche ciò lusinga la ragione temeraria, poiché ora essa è chiamata ad aiutare il Dio depotenziato dall'altro-da-sé nella sua resurrezione, portando ora nel fuoco della contraddizione l'essere fisso contro Dio nella nullificazione e in questo modo "liberando" Dio.)

(Questo è il modo del tutto cattolico di Ulrich di prendere sul serio il tema della finitezza, che non può essere superata da nessuna pseudo teologia del "soli Deo gloria". RG)

(23.01.21)

4. Movimento di sussistenza e superamento-conservazione della differenza ontologica nell'assoluta identità di Dio

La "via del ritorno" dalla crisi, nel compimento del movimento di sussistenza, non è percorso solamene "da parte del finito". Tommaso dice: "habitudo ad causam non intrat definitionem entis quod est causatum" e continua: "se qualcosa viene chiamato un essente, attraverso la partecipazione, allora ne consegue, che è causato da un altro". (Nota 104: Th.1.44.1.1.). L'essere-causato da un altro, però, non riguarda l'essere, in quanto è essere, altrimenti tutto l'essere sarebbe causato da un altro. 

(Nota 105: G 2, 52 e ebenda viene espresso: "Et sic oportet procedere in infinitum in causis quod est impossibile. Nullum igitur ens causatum est suum esse." Ritorneremo più tardi, quando rifletteremo sul rapporto tra "partecipazione e causalità", su questa affermazione profonda.)

Per questo motivo non accade la partecipazione dell'essere, nella quale si sviluppa l'essere-causato, così che l'essere giunge a fermarsi all'essere stesso, in modo assoluto, nella dimensione della partecipazione dell'essente finito, sebbene esso non sussista e per questo motivo già da sempre è un essente concreto e finito. In modo troppo superficiale la ragione speculativa sacrifica il completum et simplex così radicalmente alla nullificazione, che il "nulla" viene reso la radice della partecipazione. Per questo motivo il "nichilismo" implica una volta per tutte l'indurimento dell'essente in una res- monade e d'altra parte la dissoluzione dell'essere, non più rintracciabile nell'anticipazione della ragione, in un orizzonte concettuale meramente razionale.

(Nota 106: Si dovrebbe una volta riflettere sulla crescita del "nichilismo" a partire dall'essenzialismo della tarda scolastica!)

In questo caso l'essere soccombe alla "finitezza meramente assolutizzata".

(Nota 107: è inquietante vedere che proprio dove l'ens indifferens è stato posto in risalto come orizzonte mediante del finito verso l'infinto, contro la finitezza assolutizzata, attraverso la fissazione ipostatizzante del ipsum esse è ridotto alla completa comprensione dell'essere nella "partecipazione finita" e, contro l'intenzione propria, è decaduto nella "finitezza assoluta".)

Il medesimo uso di essere e "nulla", compreso nel modo giusto, intende tuttavia la partecipazione sempre al di là di se stesso e fa vedere, che la partecipazione ha in ciò la condizione della sua possibilità.

(Bisognerà avere un po' di pazienza nel seguire questa intuizione profonda di Ferdinand Ulrich, che verrà ripresa dall'autore più tardi: l'essere coma atto di amore gratuito non ha nulla a che fare con l'essere-causato, perché per l'appunto è dono gratuito; non avere compreso ciò ha portato a degli squilibri nel pensiero: l'esagerata accentuazione del simplex et completum o la sua esagerata dimenticanza; l'esagerata accentuazione del non subsistens dell'essere o la sua dimenticanza. Una delle conseguenze di ciò è l'essenzialismo. Per parlare con la Arendt: una fissazione nelle essenze (il presunto vero essere) e la dimenticanza della "superficie" (che erroneamente viene vista come solo accidentale); la conseguenza di ciò, contro l'intenzione originaria, è il nichilismo. Il pensiero forte e super tradizionalista dell'essenza versus la superficie genera il nichilismo. RG)

(24.01.21)

La crisi dell'essere non giunge quindi solamene alla sua conclusione in una "mera finitezza", perché l'essere prima di ogni venire-a-sé, è esso stesso e in questo modo in tutto l'essere-causato dell'essere illumina la verità, che l'essere-causato da un altro non caratterizza l'essere, in quanto è l'essere. La partecipazione ontologica si trascende sempre da se stessa. Per questo motivo anche la differenza ontologica, nella quale si interpreta questo compimento causale, in quanto differenza (!), è nascosta al di là di se stessa nell'identità assoluta di Dio. "Rende accessibile" come movimento, l'identità assoluta di Dio nel movimento di una differenza assoluta; ma non in una proiezione riflessa. Poiché quest'ultima pretenderebbe un "centro" fisso speculativo tra Dio e il finito e nella seconda interpretazione della differenza come compimento causale verso l'infinito e il finito consegnerebbe anche Dio nell'essere-causato. La possibilità del superamento-conservazione nell'assoluto sarebbe infine annientata.

La ragione arriva ora nella grande tentazione di negare il superamento-conservazione della differenza in Dio, per, con questa negazione, superare la determinazione dell'automediazione divina, come sostanza assoluta, attraverso l'esplicazione della differenza "finita". Tutto il pensiero ontologico, però, che spinge in avanti, per così dire, questo superamento-conservazione della partecipazione in Dio, per aprirsi in ciò al disegno e al conforto di un "Dio divino" nella sua rivelazione ed "aspettarlo", è nel pericolo inquietante, in questo "aspettare" di porre il "non subsistens" accanto all'essere stesso, di spingere la nullificazione dell'esse in una res già da sempre sussistente e così di ipostatizzare l'essere. La mossa radicale verso la sussistenza sarebbe infatti, così teme il pensiero, quella di accentuare il superamento-conservazione della partecipazione, così che in questo modo l'assoluto sarebbe immancabilmente fissato come "Summum Ens" e il pensiero comincerebbe a sprofondare di nuovo nella "costituzione onto-teo-logica" della metafisica. Sempre, quando viene radicalizzata così l'attesa, che al conforto di Dio "non è ancora lecito" di essere dato con l'essere, la dimensione dell'essere come essere deve essere tenuta aperta per il possibile arrivo del Verbo di Dio. Questo è in sé legittimo, poiché il Verbo di Dio non si lascia già dedurre con l'essere stesso. Tuttavia sorge la tentazione inquietante di neutralizzare l'essere nella sua non-sussistenza (!) e così di evitare la domanda: se Dio non abbia già "concretamente" (!) promesso il suo Verbo (la sua Parola; NdT). Il "non subsistens" viene preso speculativamente sul serio, rimanda subito all'essente concreto e così immediatamente all'epifania del Verbo di Dio diventata possibilmente già avvenimento storico nel mondo dell'essente.

(Nota 108: Qui si dovrà considerare il perché la metafisica greca, come anche la costituzione dell'esistenza vetero testamentaria del Popolo di Dio, in forza della loro struttura della speranza, verso il "compimento del tempo" nell'incarnazione del Logos, non potevano superare necessariamente l'ipostatizzazione dell'essere (ciò che abbiamo cercato di schizzare brevemente per quanto riguarda la metafisica greca). Dio non era ancora appreso-sentito nella fede come assoluta positività amorosa, nella sua autocomunicazione donata liberamente. Anche l'amore "propter mandatum Domini" non porta alla libertà dei figli di Dio, poiché ha, per cosi dire, l'elemento del suo auto-movimento ancora "fuori di sé". Mentre nell'amore, che opera lo Spirito Santo, nega questa negazione, sorge l'amore nella sua sempre più profonda realtà come una fonte, "che scorre nella vita eterna". Per questo motivo Tommaso dice degli uomini liberi: "Vitat malum quia malum...non propter mandatum Domini" (cfr. Tommaso, In II. Cor.3,3). La situazione storico salvifica dell'AT avviene nel medesimo "ancora" dell'essere sussistente, come la metafisica greca dell'essenze, anche se Gerusalemme non deve essere identificata con Atene! La metafisica moderna è, a partire da presupposti teologici, finita nuovamente in una situazione simile.)

(È finita nuovamente in una situazione simile con l'aggravante di muoversi in e generare un' epoca "dopo Gesù, senza Gesù" (Charles Peguy) RG).

Così l'intenzione della "comprensione" dell'essente nell'essere può condurre alla tentazione di un'ultima disobbedienza, nel senso di una radicale non storicità. L'apertura della differenza ontologica riesce in modo giusto, cioè nell'obbedienza ontologica, solamene a partire dalla identità di Dio assoluta, compresa-sentita dapprima (penso al primerear di Jorge Mario Bergoglio/Papa Francesco, NdT) e nella quale la differenza finita in Dio: è Dio stesso. In ciò è superato il pericolo di una copertura "onto-teo-logica" di Dio nella differenza ontologica. Risplende già l'Apriori teologico del pensiero ontologico. Ma questo tema vogliamo approfondirlo più tardi! 

(L'apertura della differenza ontologica è la base ontologica di tutte le "antinomie" di cui parla Bergoglio (spazio-tempo; unità-diversità; locale-universale...) e che con ragione Massimo Borghesi ci ha insegnato a tenere "aperte". Ma questa apertura non è né quella della metafisica greca né quella di un AT chiuso in se stesso: si fonda nell'obbedienza-libertà del dono gratuito dell'essere e nella tensione quieta tra semplicità-completezza del dono e la sua non sussistenza. Quando il pensiero diventa disobbediente, non ad una legge esterna ad esso, ma al "senso necessario dell'essere" accadano tutte quelle tentazioni di cui parla in questo passaggio Ferdinand Ulrich e che portano il nome di grandi filosofi come Hegel, Bloch, Heidegger... RG) 

( 30.1.21) Facciamo un nuovo passo nell'approfondimento della cosa (Sache)! Nel paragrafo "chiarificazione originaria del medesimo uso di essere e "nulla" (che ho tradotto in questo post dal 5.12. al 14.12.20) abbiamo tentato di far vedere  che l'essere, come "completum et simplex", viene usato per il suo "non subsistens", perché non può esserci nulla estraneo all'essere, a parte il non-essere. L'essere non viene, separato da Dio, partecipato ed usato, a partire dall'intimità assoluta di Dio con ciò che è creato, per il "nulla". Per questo motivo il movimento di sussistenza non si sviluppa allo stesso modo dalla parte del finito e dell'infinito, così che all'essente massimo, "Dio", sarebbero opposte le molteplici sostanze finite. D'altra parte l'assoluta automediazione di Dio non ha la sua dinamica a partire dalla differenza ontologica. In un tale caso Dio avrebbe la sua auto-presentazione nel raggiungere e chiudere la differenza dell'essere con l'essente, naturalmente con la ragione finita nel concetto assoluto. 

Poiché tutto ciò che è reale opera qualcosa che gli è simile, per questo il motivo (Grund) della possibilità  della differenza ontologica è nascosto in Dio. Giacché "la differenza stessa è un certo essere" (Nota 109: P.3.16.3), così il motivo della possibilità della differenza ontologica deve essere superato-conservato nella realtà assoluta di Dio, cioè nella realtà di una differenza.  

Chi lo nega deve nello stesso attimo affermare che l'essere non viene partecipato secondo il  fluire del suo procedere da Dio. Se tuttavia l'essere come partecipato è tagliato via da Dio, allora è necessariamente posta  la pseudo sussistenza e in questo modo l'essere è imprigionato nella res, che con l'assoluta volontà, che supera l'abisso del nulla tra Dio e l'essente, è "voluta". C'è infine solamente ancora lo sviluppo della partecipazione nella "finitezza assoluta", nella quale l'essere stesso cade nella definizione dell'essente causato e la partecipazione ontologica  si supera-conserva da se stessa.

(Questo nuovo passo ci fa intravedere la conseguenza di una caduta di Dio e dell'essente nel mondo di ciò che appare, per esprimersi con Hannah Arendt. Quest'ultima cerca di salvare la dimensione del pensiero, nella distinzione tra Verstand (intelletto) e Vernunft (ragione), per avere  un elemento che non ti permetta di essere risucchiato totalmente nelle mondo di ciò che appare e di ciò che è apparenza - pur essendo noi tutti per lei non solo "nel", ma anche "del" mondo. La posta in gioco è alta, perché Arendt pensava che il criminale nazista, Adolf Eichmann,  di cui aveva assistito il processo a Gerusalemme non era apocalitticamente cattivo, ma incapace di pensare. La scienza stessa per Arendt è solo uno sviluppo più raffinato dell'intelletto, ma non è ancora "pensiero" (Denken), ragione (Vernunft), perché quest'ultimo ti rende "straniero e pellegrino sulla terra". Insomma uno può essere un buon scienziato, ma del tutto consono al potere dominante delle apparenze. Solo il "pensiero" può salvare un momento di autenticità nelle apparenze, se comprendo bene "the life of the mind. Thinking, New York 1977,78. Per Ulrich questo compito viene assunto non dal "pensiero", ma dall'amore ontologico che non può essere risucchiato nel mondo delle apparenze, delle cose causate. Né Dio, che non è l'essente massimo tra essenti, ma Mistero, né il dono dell'essere sono "causati" - per questo sarebbe il trionfo della "finitezza assoluta", dell'impossibilità di un reale superamento-conservazione di essa in una gratuità "sovraessenziale" - cioè che non dipende dalle essenze, dalle apparizioni e dalle apparenze. Un dialogo interiore tra Arendt ed Ulrich è possibile perché di fatto entrambi pensano l'essere in quanto essere come "non subsistens". RG)  

5. L'apriori teologico nello sviluppo pseudo-speculativo della differenza in Dio 

E. Przywara afferma nella sua "Analogia entis": "dobbiamo osservare, come le filosofie assolute della modernità sono, anche storicamente, davvero teologie deteologicizzate" (Nota 110: Analogia entis, Monaco 1932, pagina 41[terza edizione, Friburgo 1996, pagina 70]. Proprio qui è il luogo di presentare la dimensione teologica della differenza dell'ipsum esse all'interno di Dio, per scoprire e superare i theologumena che tengono prigionieri ancora oggi il pensiero metafisico. 

Sappiamo: quanto più originariamente viene compreso-sentito l'essere in quanto essere, tanto più si rivela radicalmente come "non subsistens" ("nulla"), e poiché a partire dall'essere l'essente viene chiamato tale, così si svela, in ciò, anche in modo sempre più radicale la negazione della negazione, cioè il superamento-conservazione del finito (Nota 111) nell'assoluta positività di Dio e in questo modo l' "ipsum esse subsistens" stesso. 

(Nota 111: Se qui si intende il finito come negazione dell'assoluto, ciò non significa ovviamene, che in quanto finito esso sia assicurato necessariamente contro Dio, e che poi nella negazione della negazione si dovrebbe "annullare" questa contro-mossa del finito come finito. Il presupposto di questa impresa sarebbe l'identificazione dell'essere con una res/monade chiusa in se stessa.)  

(31.1.21 San Giovanni Bosco) La misura dell'intensità della negazione della negazione è l'intensità dell'assoluto compimento amoroso stesso, positivo e divino! L'impossibilità della chiusura della differenza ontologica, la scoperta della falsa continuazione dell'essere e dell'essente, il superamento della sostanzializzazione dell'essere è resa possibile apriori dall'esperienza dell'automediazione dell'assoluta identità di Dio: nella modalità di una differenza a Lui propria, mentre il movimento di sussistenza compiuto speculativamente a partire dall'essere ipostatizzato, comprende Dio necessariamente come assoluto blocco-essenza. Giacché "omne agens agit sibi simile", così l'automediazione di Dio come amore infinito, che in nessun caso si fissa in se stesso, rende possibile la deipostatizzazione dell'essere, meglio ancora, fa morire la sospensione ontologica. La res finita chiusa in se stessa, l'ipsum esse sostanzializzato e Dio come essenza ostinata in un'identità ( A = A) astratta e non mediata si implicano reciprocamente. L'ipostasi dell'essere esige un Dio avaro come origine, che opera un essere, che è fissato a sua volta in se stesso. E in questo modo Dio è prigioniero di di ciò cha causa. 

In fondo è in gioco qui un depotenziamento del Dio Padre, che si manifesta all'interno della differenza ontologica come tramonto dell'essere nell'essenza. Il destino della metafisica moderna è reso possibile da questa "impotenza della paternità di Dio". Tentiamo di presentare in breve ciò che qui intendiamo.  

(La differenza ontologica tra l'essere e l'essente, tra l'essere come dono gratuito e colui che riceve questo dono, è la base di tutte le altre differenze. Facciamo un esempio: quando Papa Francesco parla di una priorità del tempo sullo spazio (quindi della differenza tra spazio e tempo), intende farci capire che la gratuità del nostro impegno amoroso nel tempo, vale di più che l'occupazione di spazi di potere. Nella chiusura di questa differenza e priorità lo spazio invece di giocarsi nella gratuità del tempo, si fissa in se stesso, così come un essente che non è più disposto a ricevere gratuitamente il dono amoroso dell'essere. Etc. 

Il depotenziamento della paternità di Dio nel destino della metafisica moderna ha a che fare, per esprimersi in modo sintetico, con la sostituzione del Dio vivente e personale con un pseudo essere come "persona" (ipostasi), di cui si lamenta la perdita o se ne celebra la produzione riducendolo ad una "cosa". Ma anche con la riduzione di Dio stesso in un Dio che non è capace a donarsi radicalmente e che per questo è avaro. Vero è però che Dio è amore! E che il suo dono dell'essere è un atto di amore radicale e senza riserve. RG) 

Se il Padre non "può" donare in proprietà l'intera natura (Wesen) divina al Figlio nella processione di quest'ultimo, allora  rimane per così dire un resto "non ancora" comunicato della natura divina stessa, che si manifesta, dal punto di vista Figlio nei confronti del Padre, come resto di una natura divina ancora non raggiunta o per esprimersi altrimenti: la natura divina non è ancora mediata/comunicata personalmente, insomma rimane mera "identità astratta" con se stessa, attraverso il Padre. Il Figlio avrebbe in questo caso la natura (Natur) comunicata imperfettamente ("non-ancora-Dio") come negazione e ciò significa, in riferimento alla natura divina: come finito in sé. L'origine (Padre) sarebbe a sua volta affetta dalla negazione (impotenza) dell'essenza non ancora mediata/comunicata

(Per parlare con il linguaggio di Gioacchino da Fiore e Gotthold Ephraim Lessing, ma con affermazione contraria: il depotenziamento dell'epoca del Padre non può essere superato realmente né in quella del Figlio, né in quella dello Spirito Santo: l'educazione del genere umano origina così da un primo depotenziamento, che non verrà superato da alcun spirito dell'utopia (Ernst Bloch). RG)

In questo modo è posta speculativamente una differenza tra Padre e Figlio che corrisponde perfettamente alla (falsa) differenza ontologica, nella dimensione del finito, cioè alla differenza di una res chiusa in se stessa, che non è ancora completamente mediata/comunicata, con la sua idealità. Questa idealità si svela come un ipsum esse fisso, che non ha ancora preso in consegna completamente il suo medesimo uso per il "nulla" e perciò non ha posto ancora  il "giungere-a-se-stesso", l' "affermare-se-stesso" nella sostanza concreta, quindi come negazione della negazione (non subsistens). Il compimento della stessa si rivela poi come mediazione/comunicazione della res, ma come esclusione della nullificazione (non subsistens) che irrita "ancora" l'essere nella sospensione ontologica. Nello stesso modo l'esclusione della nullificazione del finito (negazione della negazione) che irrita il Figlio, significa in Dio l'assolvere se stesso nella partecipazione completa alla natura divina. 

(Nota 112:  In questo caso, tuttavia, il finito è già a motivo della sua finitezza immediatamente come qualcuno che limita Dio: posto contro Dio e per questo motivo anche nello stato della storia della salvezza è compreso come una "natura lapsa". Contingenza viene identificata con il peccato; la via della storia della salvezza è equiparata e pareggiata con l'esplicazione del finito qua essente. Natura e grazia si coprono a vicenda. L'autonomia della metafisica dall'esperienza della positività dell'essere è radicalmente e definitivamente assicurata da un apriori teologico. Per una storia della grazia con la natura non rimane aperto alcun spazio, cosa che a noi si manifesterà come dissoluzione e legame del Spirito Santo al Logos, o detto altrimenti come verticale assolutizzata dell'incarnazione.)  

Allo stesso tempo in questo atto del Figlio il Padre ha compiuto ciò che a partire da sé non "poteva": la natura divina è completamente comunicata e il Padre ha raggiunto il suo dominio attraverso il Figlio. Dalla prigionia nella natura divina non ancora mediata/comunicata, all'in sé sostanziale, il Padre è liberato nell'offerta amorosa e personale (esse qui come relatio subsistens!). 

(Quando il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono più le persone di un amore assoluto, ma come in tutta "l'eredità spirituale di Gioacchino da Fiore" (Henri de Lubac), un susseguirsi di epoche che si superano dialetticamente o espressione di processioni di potere, si è arrivati ad un apriori teologico perverso, che intende finito e infinito, natura e grazia come fasi dialettiche. Per quel rapporto di amore, per quella storia efficace, ma discreta, della grazia con la natura non vi è più alcun posto. La filosofia di Ulrich, nel senso originario patristico, dell' Ipsa philosophia  Christus (cfr. Hans Urs von Balthasar, "Philosophie, Christentum, Mönchtum" in "Sponsa Verbi", Einsiedeln, 1961, 349),  cerca una via, al di là di questo pseudo apriori teologico, per ritornare/andare al "dapprima" (primerear) dell'amore gratuito di Dio. RG) 

L'affezione (qui intesa nel senso filosofico di depotenziamento. NdT) di Dio attraverso il finito si svela a noi, però, nell'autoaffermazione dell'essere sostanzializzato, accanto alla natura astratta infinita. In questo modo accade la de-sostanzializzazione, è così l' "apertura" della differenza ontologica e allo stesso tempo l' accessibilità della differenza assoluta in Dio come autorizzazione del Padre attraverso il Figlio, nel superamento-conservazione della natura divina con l'autocomunicazione al Figlio. Il Logos è affetto con la negazione dell'Altro da Dio, e in lui come carattere originario dell'essere (omnia per ipsum facta sum) anche l'essere, che come "similitudine di Dio " corrisponde alla "situazione" intra-trinitaria. Cosi il Logos viene fissato in un momento non ancora mediato/comunicato del' "inizio" (!) della negazione della negazione e si trova così nell'assoluta contraddizione. Il Padre è in forza della sua impotenza la radice di questa contraddizione speculativa e la introduce per così dire da subito. Nel Padre stesso è all' "inizio", posta in Dio, la contraddizione di una natura divina testarda non ancora completamente compresa dall' essere (come ipostasi!) e così è depotenziata la paternità di Dio. Questa è la radice di tutta la metafisica dell'essenza: sia quella moderna, come anche quella greca, che cerca affannosamente il Padre. 

(Tutto il pensiero aperto ed antinomico (essere/essente; tempo/spazio; universale/particolare...) può essere risolto in modo polarmente fecondo o in modo contraddittorio. In fondo l'origine di ciò si trova, ci sta spiegando Ulrich, nella comprensione delle processioni della Trinità, intese come affezione di potere o come attrattiva amorosa. Nel primo caso la contraddizione è posta all'inizio: il primerear è scaduto in una contraddizione assoluta. E tutta l'educazione del genere umano è affetta da una contraddizione dialettica, mentre nel secondo caso, in quello di un amore realmente gratuito e di un'attrattiva amorosa, si giunge a quel progetto di fratellanza universale che ci ha proposto Papa Francesco nella "Fratelli tutti".  RG) 

Il Figlio si comunica così in questa fissazione astratta, l'accetta, diventa uomo e nega nella morte e nella risurrezione la negazione che lo limita. Nello stesso modo "l'essere vuoto" accetta la sua non sussistenza, contro quest'ultima, nella sua identità astratta, come mero completum et simplex, e giunge così nella contraddizione e la dissolve nel movimento di sussistenza della sua finitizzazione in una res concreta. Questo processo permette al Figlio di "sedere alla destra del Padre", che attraverso questo atto è diventato padrone di sé. il Figlio si prende la natura divina non comunicata in una contromossa e  per l'appunto contro il Padre impotente, in rivolta contro di Lui, sebbene Egli lo abbia fatto accedere al dominio - così come anche l'essere come essere  fissato e degradato a potenza  "giunge-a-se-stesso", insomma si determina, nella dissoluzione della contraddizione con la ragione. Come il Figlio in fondo si fissa nella sua gloria e per essa compie la pseudo exinanitio, così anche l'essere fissato come ipostasi, in fondo a priori in sé, è campo sostanzializzato della ragione speculativa. In questo modo la comminazione e nullificazione accadono solo apparentemente. 

(Qui viene descritto in modo filosofico preciso che cosa accade quando l'amore cristiano viene ridotto in gnosi o quando la fraternità universale viene ridotta in un'attività pelegiana. La fraternità è un dono (un fatto), non un'invenzione gnostica o pelagiana  "È un dato oggettivo . Lo vediamo bene in una famiglia, in una comunità religiosa. Quando il Papa riprende san Francesco, ricorda che questa oggettività riguarda tutti gli esseri umani e in special modo quelli in difficoltà. In un certo senso la fraternità è un obbligo, ed è un fatto universale. Ma non astratto.  È il compito di amare persone singole" (Padre Adrien Candiard, OP in "Il conto è sempre aperto", intervista di Alessandro Banfi, Tracce, Febbraio 2021, 41.) Quello che il padre domenicano chiama "obbligo", è per Ulrich "il senso necessario dell'essere".  RG)

Il medium, però, per cosi dire l'etere, nel quale si sviluppano sia la differenza ontologica dell'"essere vuoto", nel giungere-a-sé nella sostanza finita, come anche il Dio che assolve ed afferma se stesso, è necessariamente quel principio, nel quale si compie l'autoliberazione del Figlio, nella negazione della negazione, attraverso la quale egli si comunica (et incarnatus est de Spiritu Sancto!), per aiutare il Padre a raggiungere potenza e dignità, attraverso la pseudo obbedienza: cioè lo Spirito Santo. Alla fine si rivela l'assoluto come assoluto nella negazione della negazione, o meglio questa è l'assoluto e perciò "Spirito". Lo Spirito Santo diventa in questo modo l'avvocato della ragione speculativa, contro l'intelletto che fissa ed ipostatizza l'essere, il "funzionario" del Logos che si afferma contro il Padre: lo Spirito logicizzato. La bonitas divina, lo Spirito d'amore,  che procede in Dio per modum voluntatis ed è presente nel senso necessario dell'essere, che annienta l'ipostasi ontologica della ragione ibrida, è diventata il motore di una pseudo-exinanitio, come elemento della "salvezza" del Padre nella rivolta del Figlio contro di lui. 

(Mi sono chiesto se fosse necessario scrivere "Padre", "Figlio" e "Spirito Santo" con la minuscola, visto che si tratta di una pseudo Trinità della ragione speculativa, ma in vero i pensatori di questo movimento di pensiero a partire da Gioacchino da Fiore, passando per Hegel e per giungere, nelle diverse modalità, fino ad Ernst Bloch, hanno pensato questo movimento di pseudo salvezza logicizzata come una reale salvezza, ed anche se io con Ulrich non penso che essa sia autentica o reale, volevo, con le maiuscole, riconoscere la potenza (anche se per me si tratta di una pseudo potenza) di questo tentativo filosofico. RG) 

Non è necessario sottolineare esplicitamente in quale storia del pensiero abbia questa dimensione (di pseudo salvezza; NdT) il suo Apriori speculativo e che proprio in essa si trovino le radici della metafisica dello Spirito hegeliana. Qui non possiamo approfondire la storia di come all'inizio della metafisica moderna, attraverso l'uscita dei possibilia "in possibile esse"  nella ragione divina, cioè delle idee nel Logos, abbia avuto il suo inizio questa fissazione del Figlio nell'Altro da Dio e l'esperienza dell'impotenza del Padre, che è rimasta il tema determinane fino al tentativo di superamento e compimento in Hegel. Nei capitoli che seguiranno, nel passo sistematico della nostra ricerca, qualcosa di ciò verrà espresso, senza poterne dare indicazioni storiche più precise, per non far saltare in aria il percorso della cosa stessa. Ora abbiamo solamene voluto far vedere quale importanza abbia la giusta comprensione della differenza dell'essere stesso nei confronti di Dio, o meglio della differenza in Dio, per una interpretazione legittima della differenza ontologica. 

(Il percorso storico di quanto sviluppa qui Ferdinand Ulrich in modo sistematico, può essere approfondito per esempio in Hans Urs von Balthasar, Im Raum der Metaphysik, Teil 2 Neuzeit, Einsiedeln 1965 (traduzione italiano per i tipi della Jaca Book, "Lo spazio della metafisica. Seconda parte, la modernità, Milano 1971)  oppure in Massimo Borghesi, La terza età del mondo. L'utopia della seconda modernità, Roma 2020. Tra il teologo svizzero e il filosofo italiano vi sono certo momenti interpretativi simili, ma direi che nel primo il giudizio sulla modernità sia più quello di una dissoluzione del sum nel cogito, dell'ontologia nella gnosi, mentre il secondo vede una legittimità del moderno e delle sue intuizioni riguardanti la libertà e l'educazione del genere umano (Lessing), sebbene critica. Per quanto riguarda la posterità di Gioacchino da Fiore rimando ovviamente a Henri de Lubac, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, 1971, 1981, 2014 (in italiano: Jaca Book, Milano 1984, 2016)   RG) 

V. Il senso necessario dell'essere

1. Il "ne-cessarium" e il "Not-wendige" 

(Non mi è possibile tradurre questa differenza. Nella parola "necessarium", forse si deve leggere qualcosa che "non cessa", che "non smette". Ulrich la esprime in questo capitolo nel senso di "inevitabile". Nella parola tedesca "notwendig", come ho già spiegato e come specifica Ulrich in questo capitolo, vi è l'idea di "superare il bisogno": necessario è ciò che supera (wenden = volge) il bisogno (Not). Continuerò a tradurre comunque la parola "notwendig" con "necessario" e lascerò invece "necessarium" in latino. Il "senso necessario dell'essere" è in tedesco "der notwendige Seinsinn". Ulrich non intende queste parole come contraddittorie, ma come illuminazione di due aspetti.  RG) 

(13.2.21) Dopo che il "luogo dello sviluppo speculativo" è venuto fuori con chiarezza, possiamo, nonostante tutte le tentazioni, senza ulteriori preoccupazioni, esporre il movimento di sussistenza. Non è più possibile interpretare male questo intento, se noi rimaniamo continuamente in un atteggiamento di apertura nei confronti del senso necessario dell'essere, inforza del cui potere la crisi dell'essere può essere compiuta.

(Rimandiamo alla frase già tradotto il 6.1.21:  "Noi chiamiamo l'"inizio" dello sviluppo speculativo della differenza tra essere ed essente: crisi dell'essere, a condizione che in essa il medesimo uso di essere e "nulla" giunga alla decisione nella sostanza concreta, che ha superato da sempre questo movimento nell'essere positivamente posta da Dio. (Ferdinand Ulrich)"RG)

Il senso necessario dell'essere ordina l'essere "nella ragione", dall' arroganza della pseudo sussistenza, nella nullificazione, cioè nella sussistenza (corsivi del traduttore). Esso sigilla se stesso nel "nulla" della differenza dell'essere con l'essente.

(Se Hans Urs von Balthasar ha rinviato con ragione alla piccola Teresa di Lisieux, come alla santa che ha saputo in anticipo rispondere alle grandi crisi della teologia degli anni settanta (alla pseudo contrapposizione tra praxi ed ortodossia, tra amore del prossimo e amore di Dio, e alla riduzione della speranza in una speranza teologico politica, possiamo con coraggio rinviare a lei per comprendere cosa Ulrich ci dica filosoficamente sul "senso necessario dell'essere" che ci conduce nella "sussistenza", cioè sulla "piccola via" dell'obbedienza quotidiana per amore. RG)

In modo tale che ci sia permesso di imparare ad ascoltare più precisamente le parole "necessario" e "senso dell'essere" e così a comprenderle, vogliamo tentare di esporre a che cosa le parole in quanto tali ci rimangono. Lo facciamo interpretando le parole latina "necessarium" e tedesca "das Notwendige".

Necessario si dice in latino "necessarium", cioè ciò che è inevitabile. "Necessario" significa in questo senso, per il movimento di sussistenza dell'essere: inevitabilmente (unaus-weichlich) giunge l'essere dalla sua crisi alla sussistenza, cioè al suo essere-essente nella res. La ragione non può fermare l'essere nel cammino dalla nullificazione alla res, all'infuori che chiuda gli occhi al cospetto di ciò che è inevitabile e distacchi l'essere, per un suo proprio "uso" riflessivo, da Dio e lo accrediti come "sapere assoluto".

Nella parola tedesca "notwendig" viene espressa un'altro aspetto della crisi dell'essere: il "da dove", il "come" venga superato ("volto" da "volgere"; NdT) il bisogno (difficoltà, necessità; NdT) della sussistenza arrogante. In ciò il "bisogno della contraddizione" deve essere espresso esplicitamente; poiché ci deve pur essere un "bisogno", se deve venire "superato". Il necessario insomma "esige", in un certo qual modo, il bisogno che supera. Senza questo "bisogno" è per così dire proprio nulla.

Ma se il nome è "signum intellegibilis conceptionis" (Nota 113: G.1.34 e Th. 1.13.9.2: "Nomina non sequuntur modum essendi, qui est in rebus, sed modum essendi, secundam quod in cognitione nostra est."), allora, in questa duplice formulazione, è venuta alla luce una particolare concezione metafisica. La parola latina non rinvia particolarmente al bisogno vero e proprio della contraddizione, ma alla inevitabilità dell'essere dell'essente. Insomma intende il "terminus", cioè la realtà positiva (res!) che da sempre è reale e in questo modo ha lasciato il movimento di sussistenza dell'essere come tale, in qualche modo, già dietro di sé.

La parola tedesca "not-wendig" rinvia al bisogno della "sospensione ideale" dell'essere; questo bisogno diventa esplicito a partire da ciò che per l'appunto supera il bisogno di questa sospensione. La parola tedesca ha in tale modo come meta l'esplicitazione dell'essere nella crisi della sua idealità, nella quale esso stesso si usa per il "nulla". È semplice vedere che per un tale pensiero, che pensa in questa parola, facilmente si da il pericolo di rimanere appeso alla "sospensione" dell'essere, o meglio, di sfidare il bisogno stesso a che diventi visibile il necessario in ed attraverso di esso. Può davvero accadere che con leggerezza a partire da qui la contraddizione della sospensione ontologica ideale possa essere resa il punto di partenza dello sviluppo speculativo nella sua interezza e il pensiero possa soccombere al pericolo di non superare la prova della verità nell'idealità dell'essere. Mentre il pensiero nella parola "res" si trova nella tentazione di radicalizzare il "non subsistens", di fissarsi nella "res" e di sacrificare la ragione che percepisce l'essere alla ratio. Queste due aberrazioni si escludono, però, a vicenda, coma abbiamo ancora da vedere.

Non è necessario sottolineare che queste chiarificazione sono tutt'altra cosa che puri giochi di parole. 

(In un autentico discernimento filosofico degli spiriti Ulrich ci fa vedere sia cosa le due parole, latina e tedesca, che in italiano traduciamo con "necessario", significano, sia le loro tentazioni. Nella inevitabilità che l'ontologia si scontri con la res (nella parola latina "necessarium") viene radicalizzata la non sussistenza dell'essere in modo tale che non esso può offrire alcun orientamento al pensiero. Nella persistenza del bisogno ideale (nella parola tedesca "notwendig") invece si rischia di cominciare a pensare in forza di una contraddizione ontologica, quasi che il bisogno e non il dono dell'essere sia il primerear ontologico del nostro pensiero e del nostro agire. RG)


Interrompo la traduzione pubblica alla pagina 62 e proseguirò in privato. Le parti tradotte fanno comunque vedere lo spessore filosofico di questo libro di Ferdinand Ulrich) 

Lista delle abbreviazioni più frequenti delle opere di Tommaso d'Aquino in HA (nell'ordine in cui appaiono nell'opera di Ferdinand Ulrich che stiamo traducendo) 

V = Quaest. disp. de Veritate 

P = Quaest. disp. de Potentia 

G = Summa Contra Gentiles 

Met = Com. in Libr. Metaph. Arist. 

aTh. = Summa Theologica 

An = Quaest. disp. de Anima

An. = Quaest. disp. de Anima

Quodl. = Quodlibeta 

In de Trinit. = Exp. super Boethii de Trinitate 

S. = Com. in Libr. Sentent.

Phys = Com. in Libr. Phys. Arist. 

Bibliografia 

...

Gilson, E.: "Limites existentielles de la philosophie", dans L'Existence, Collection dirigée par Jean Grenier, Parigi, 1945, p. 69-87. 

- "Réalisme Thomiste et Critique de la Connaissance", Parigi 1947. 

- "L'Etre e l'Essence", Parigi 1948.  

- "Les Principes et les Causes", Revue Thomiste, 52/1952. 

Hegel, G. w. F.: "Phänomenologie des Geistes" (la fenomenologia dello spirito), a cura di J. Hoffmeister, Meiner 1952. 

- "Logik" (Logica), I e II; a cura di H. Glockner, edizione commemorativa. 

Heidegger, M.: Sein und Zeit (Essere e tempo), Halle 1935.

- "Vom Wesen des Grundes" (sulla natura del fondamento), Francoforte sul Meno, 1949.

- Kant und das Problem der Metaphysik", seconda edizione, Francoforte 1951. 

- "Zur Seinsfrage" (Sulla questione dell'essere), Francoforte 1956.

- "Identität und Differenz" (identità e differenza), Neske, Pfullingen 1957. 

Lavelle, L. : "La Présence Totale", Parigi 1934.

- "De l'Etre", Parigi 1947.

- "De l'Acte", Parigi 1937. 

Przywara, E.: "Analogia entis", Monaco di Baviera, 1932 (seconda edizione, 1962; terza edizione Friburgo 1996). 

Duns Scotus: Opus Ox. e Report. Parigi. In: Joan. D. Scoti, Opera Omnia, Parisiis, 1891 sg. 

Siewerth, G. : "Der Thomismus als Identitätssystem" ("Il tomismo come sistema di identità"), Francoforte sul Meno 1939. 

- "Die Apriorität der menschlichen Erkenntnis nach Thomas von Aquino" (L'Apriori della conoscenza umana secondo Tommaso d'Aquino), in "Symposion I, Friburgo i.Br., 1949 

Ulrich, F. : "Inwiefern ist die Konstruktion der Substanzkonstitution maßgebend für die Konstruktion des Materiebegriffes bei Thomas von Aquin, Duns Scotus und F. Suarez" (in che senso la costruzione della costituzione della sostanza è normativa per la costruzione del concetto di materia in Tommaso d'Aquino...), Diss., Monaco di Baviera 1955. 

- "Das Problem eine Metaphysik in der Wiederholung" (il problema della metafisica nella ripetizione), Salzburger Jahrbuch für Philosophie, tomi 5/6, 1961/62, 263-298.


Dialogo con Massimo Borghesi sul libro 

Caro Roberto

 qui ci vorrebbe un trattato. Mi limito ad una osservazione. Tu scrivi:<<l'essere è un atto d'amore e non una cosa, di cui possiamo lamentare la perdita o di cui possiamo festeggiarne un possesso>>. Questo, però, non vale per l'essere "in generale". Terremoti, epidemie, guerre, malattie, morte, non manifestano l'essere come amore. In ciò la potenza delle obiezioni manichee. L'essere come amore si disvela nell'amore e in esperienze di gratuità. Ma il senso ultimo affonda nel mistero e nella fede nel Cristo crocifisso. Una seconda osservazione riguarda la dicotomia essere/avere. Tu dici <<l'essere non è una cosa>>. Rispondo: <<l'essere è anche fatto di cose, di materia, di minerali, di chimica>>. Per Marcel l'essere si contrappone all'avere; per Martin Buber l'essere (la relazione io-tu) supera e ingloba quella dell'avere (io-esso). Per Buber noi possiamo legittimamente "usare" del mondo, delle cose del mondo. Così come possiamo utilizzare gli altri. Ma non posso mai considerare l'altro come una semplice cosa del mondo. Nella relazione con altri, ed anche con la natura, l'essere precede e determina l'orizzonte dell'avere. Qui si situa la condizione trascendentale dell'ecologia. Un caro saluto.

Massimo, carissimo, grazie per le precisazioni. Ho cominciato ha tradurre un po‘ dell‘ HA. La mia nota era un primo passo di un lungo lavoro di 500 pagine. Traducendo e commentando terrò conto di quello che dici. Grazie.

Massimo
, vorrei dire comunque due cose su cui ho pensato questa notte. Quello che tu chiami l'essere in generale per Ulrich sarebbe un essere astratto, non perché le cose che tu dici siano astratte (terremoti, epidemie, guerre, malattie, morte), ma perché anche queste cose possono e devono essere pensare e viste in relazione a quell'atto di amore (come sua perdita, come sua partecipazione...). Allo stesso credo che la tua precisione abbia senso, ma debbo pensarci su. Secondo punto: è vero l'essere è fatto di cose e materia, di minerali e di chimica. Ulrich parla nel libro che ho cominciato a tradurre di un movimento in cui l'essere si rende finito (movimento di finitizzazione): si, si rende finito nelle cose, nelle persone, nella materia, nella chimica. Infine la dimensione ultima e non anticipabile della gratuità è la croce di Cristo. Etc, Grazie di aver dialogato con me.

Dialogo con Don Federico Picchetto

(13.12.20) Caro Roberto,

Trovo un po’ di tempo in questo frastuono continuo di cose e incombenze per rispondere alle belle provocazioni e condivisioni di cui mi hai reso destinatario.

Anzitutto vorrei davvero fugare ogni dubbio circa il protrarsi delle mie risposte. Non vi è in esso nessuna sfrontatezza o stanchezza, nessuna contrarietà o biasimo, solo difesa dall’assedio degli automatismi che ci impongono oggi di rispondere senza pensare. Mentre sento che le cose che ci diciamo necessitino di pensiero, di relazione seria col pensato e con pensante. 

Davvero non è mai scaduta questa nostra stima esposta alla mercé del tempo e all’usura di una velocità che oggi consuma e non radica. Mi colpisce oggi, nell’agiografia di Lucia, che la Santa dopo l’incontro con Agata divenne così pesante che neppure cento uomini riuscivano a spostarla. Come si legge chiaramente in queste parole che razza di solidità introduca nella vita l’amicizia cristiana che il Servo di Dio Giussani non a caso definiva “virtus”. La nostra amicizia non è consuetudine, non è sentimento o condivisione ideologica, ma virtus, “pratica” la direbbero i Buddhisti, con cui raggiungere di più e con più conforto quel punto irriducibile del nostro Io che è il dono gratuito dell’Essere che ci costituisce, ci definisce e ci anima.

Concludo con quanto hai affermato di Giussani e di Ulrich: davvero la loro scaturigine spirituale e intellettuale risiede nel percepire angusto lo spazio della conservazione in cui negli anni cinquanta si pensava che si potesse rinchiudere la trasmissione della fede.

Essi contestarono i bastioni perché avvertirono, a mio parere, un’emergenza cristologica: il Verbo corse verso la Creazione non per motivi di riscatto, non per bisogno né per rimediare all’umana natura, ma per amore all’umano, per desiderio della finitudine come la frontiera ultima, definitiva, del divino. Il corpo non come carcere o incidente di percorso, ma come luogo - tempio - del divino, la salvezza non delle anime o degli spiriti, bensì delle storie. La storia stessa non come scenografia dell’azione di Dio, ma come intenzione ultima di Dio verso l’umano, come datità del Bene all’uomo. Satana irrompe in questa bontà e instilla il dubbio che la storia non sia finalizzata al bene. Egli introduce una scissione non nel pensiero, come osò dire Hegel, ma nell’Unum che è il dono e la storia, l’Essere-come-dono e l’Essere-gettati-nella storia. 

Perdonami questi confusi abbozzi di qualcosa che mi si presenta oggi come la liberazione da ogni moralismo e mondanità spirituale.

Un sincero pensiero in Cristo,
A te e a Kostanze,

don Federico

(15.12.20) Caro don Federico, non ho risposto subito in modo che i fatti, non le parole, possano farti comprendere che tu sei un uomo del tutto libero, di rispondermi o di non rispondermi, o di rispondermi in dieci anni. O in cielo.                             

Sono comunque d'accordo con te che "le cose che ci diciamo necessitino pensiero" e "una relazione seria". Alcune tue frasi sono molto belle e vorrei che non andassero perse - quindi ti chiedo di poterle mettere, se vuoi, in fondo al mio post (nel mio blog) in cui sto traducendo il capolavoro filosofico di Ferdinand Ulrich (Homo Abyssus: HA).          

Anche io penso che l'amicizia sia una virtus, un criterio per dire e non dire, per fare e non fare. Anch'io penso che l'incarnazione del Figlio non è primariamente riscatto, ma amore gratuito. L'unica cosa in cui io sarei cauto è nel scrivere "Essere come dono" con la maiuscola. Spero con la traduzione di HA di far comprendere che l'esse non è Dio; certo Dio è I"ipsum esse subsistens", ma l'esse commune, che viene donato, non è accanto a Dio qualcosa; è un atto, che è similitudine della bontà di Dio, ma non Dio stesso.   
                                                                                               
Per questo parla Ulrich del "medesimo uso di essere e "nulla" " - l'essere è quel nulla che è il cuore ultimo della realtà stessa. Non avarlo compreso, identificando "esse commune" con "ipsum esse subsistens" ha provocato quel cortociricuito teologico che pensa che la gratuità sia solo cosa divina, quindi irragiungibile dall'uomo e che ha ridotto la "gratia" in un "deus ex machina". No, l'esse commune, comune a tutti gli uomini, è dono gratuito. Un nulla, l'unico nulla che distrugge davvero dall'interno il nichilismo. Nessun carisma lo può fare, per questo il Papa ci aveva invitato nel 2015 a decentrarci.  
                                                                                                                                                         "Tracce", che contiene cose molto belle, è per questo motivo, per me,  quasi illegibile: è una continua prolificazione di magie: i gesti della scuola di comunità, etc. Ma nessun gesto è espressione di vera ed autentica conversione: questa si vede solo nella gratuità di un fiore colto e donato. Tuo, R

(21.12.20) Se penso che un giorno tutti questi orpelli di Tracce, di cui tu dici così puntualmente, cadranno e faranno posto alla nuda croce... quanta strada ancora da fare! Vincere la religione come magia non è semplice, è l’eterna tentazione dell’uomo di pensare che un Dio gli tolga strada, gli tolga fatica... ma questa non sarebbe misericordia, solo puro paternalismo. Cosa che negli uomini è incomprensibile, in Dio sarebbe solo negazione della libertà.

Buona attesa!
Don Federico

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Un post in dialogo con Rodrigo Guerra López

Carissimo Rodrigo, grazie per questa tua bella conferenza introduttiva alla filosofia di Giovanni Paolo II. Mi è piaciuto molto l'orientamento fenomenologico del pensiero di Karol J. Wojtyla. Non un ritorno a Tommaso è essenziale, ma un andare/ritorno alla cosa! Questo pensiero fenomenologico permette  a Wojtyla di non cadere nell'errore epistemologico di partire dall'errore stesso, pensiero questo che corrisponde nella filosofia di Ferdinand Ulrich all'errore ontologico di partire dalla "contraddizione". Sia l'errore epistemologico che quello ontologico portano al nichilismo attuale. Il pensiero fenomenologico permette al futuro papa di affrontare la modernità (in modo particolare il tema della libertà) nel senso di una "legittimità critica del moderno" (Del Noce, Borghesi). Quello che forse è la specificità di Ferdinand Ulrich è il "discernimento degli spiriti" nella filosofia, che gli permette sempre molto concretamente di vedere sia ciò che deve essere criticato, sia ciò che è "legittimo".  Il pensiero fenomenologico permette infine a Wojtyla di arrivare alla persona come fine, nella modalità che spieghi tu nella conferenza. Su questo punto Robert Spaemann ha scritto cose molto importanti - sia sulla differenza tra cosa e persona, sia sull'idea che la persona non può essere ridotta solo al "cogito"; il "sum" della persona è definito dalla sua appartenenza ad altre persone. Il contributo di Ferdinand Ulrich sta nel aver espresso, secondo me in modo unico (Balthasar ne ha capito subito la portata), che il "fine" della persona consiste nell'essere espressione massima del dono gratuito dell'essere come amore. In questa metafora del "dono", che è sia poetica che strettamente filosofica, si trova il criterio ultimo di autenticità della persona stessa: il "bonum" è davvero "diffusivum sui" proprio nella gratuità dell'essere. Ulrich parla di un uso medesimo di essere e "nulla", dove il nulla non è quello nichilistico, ma per l'appunto quello della gratuità (Umsonst) dell'amore; solo in quest'ultimo è possibile superare il perverso uso di essere e nulla, che è il nichilismo. La sfida che ci pone Ulrich come Wojtyla è davvero filosofica e non un rinvio ad un teologico deus ex machina. Ti abbraccio, Roberto 

Queridísimo 
Rodrigo
, gracias por esta hermosa conferencia introductoria tuya sobre la filosofía de Juan Pablo II. Me gustó mucho la orientación fenomenológica del pensamiento de Karol J. Wojtyla. No es imprescindible una vuelta a Thomas, sino una ida/vuelta a la cosa. Este pensamiento fenomenológico permite a Wojtyla no caer en el error epistemológico de partir del error mismo, pensamiento que corresponde en la filosofía de Ferdinand Ulrich al error ontológico de partir de la "contradicción". Tanto el error epistemológico como el ontológico conducen al nihilismo actual. El pensamiento fenomenológico permitió al futuro Papa abordar la modernidad (especialmente el tema de la libertad) en el sentido de una "legitimidad crítica de lo moderno" (Del Noce, Borghesi). La especificidad de Ferdinand Ulrich es quizás el "discernimiento de los espíritus" en la filosofía, que siempre le permite ver muy concretamente tanto lo que debe ser criticado como lo que es "legítimo". El pensamiento fenomenológico permite finalmente a Wojtyla llegar a la persona como fin, del modo que usted explica en la conferencia. Sobre este punto Robert Spaemann ha escrito cosas muy importantes, tanto sobre la diferencia entre cosa y persona, como sobre la idea de que la persona no puede reducirse sólo al "cogito"; lo "sum" de la persona se define por su pertenencia a otras personas. La aportación de Ferdinand Ulrich consiste en haber expresado, a mi juicio de forma única (Balthasar comprendió enseguida el alcance), que el "fin" de la persona consiste en ser la máxima expresión del don gratuito del ser como amor. En esta metáfora del "don", a la vez poética y estrictamente filosófica, se encuentra el criterio último de autenticidad de la persona misma: el "bonum" es verdaderamente "diffusivum sui" precisamente en la gratuidad del ser. Ulrich habla del mismo uso del ser y de la "nada", donde la nada no es la nihilista, sino precisamente la de la gratuidad (Umsonst) del amor; sólo en ésta es posible superar el uso mismo perverso del ser y de la nada, que es el nihilismo. El reto que Ulrich nos plantea como Wojtyla es verdaderamente filosófico y no una referencia a un deus ex machina teológico. Te abrazo, Roberto 
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Ein persönliches Zeugnis über Ferdinand Ulrich, den kleinen Pilger Jesu 

Die Begegnung mit dem kleinen Pilger Jesu war und ist für meine Frau und mich die Begegnung mit einem echten Zeugen der Gratis Liebe Jesu. Die erste Begegnung am Anfang der neunziger Jahren, in einer Pfarrei in München, in der Nähe der Universität, bedeutet für mich eine Erfahrung der qualitativen Zeit, die jegliche Form von chronologischer Zeit übersteigt: 2 Stunde mit ihm waren entscheidender als 5 Jahre mit einem Lehrer in dem Gymnasium, um ein Beispiel zu machen. 
Die Zeit mit ihm war und ist eine Zeit der Umkehr, eine Zeit der beichtenden Begegnung mit Jesus, der auf den Kreuz die ganze Sünde der Welt, auch die meine, gebeichtet hat. Mir war stets präsent, dass in dem kleinen Pilger Jesu sich die Stellvertretung ereignete: er konnte und kann im Gebet und auf Erde im Leiden Dinge für Dich tragen, die uns (als Beispiel), meiner Frau und mich, ermöglichten unsere Ehe, auch in einer der säkularisierten Gegend der Welt, aufrechtzuerhalten, als eine Gabe der Gratis Liebe Jesu. 
Einem Abend meine Frau erzählte ihm etwas, das sie seit langer Zeit belastete, der kleine Pilger  Jesu verzichtete auf seine Abendbrot, und das Problem war weg. Meine Frau ist nicht jemand, der man mit Worten beeindrucken kann: der kleine Pilger Jesu erreicht ihr Herz mit einer Präsenz, nicht mit Worten. Mit einer diskreten Präsenz. Diskretion ist eine Form der Liebe, das haben wir auch von ihm gelernt. 
Die Gespräche mit ihm, seien sie über die Erziehung unserer Kinder (in besonders über die Kraft des liebenden Loslassen) oder über Homo Abyssus, den ich angefangen habe auf italienisch zu übersetzen, waren stets eine überraschende Hilfe als Konkretisierung von dem, was er "notwendiger Seinsinn" nannte: einen Sinn, der die Not wendet, überstiegt. Die "selbige Verwendung von Sein und "Nichts"  war in der Begegnung mit ihm nicht nur ein philosophischer Inhalt, aber erfahrene Liebe, die für "nichts" gegeben wird. Dem Nihilismus unserer Zeit entgegnete Ulrich die tiefe Kraft der grundlosen Liebe, die gratis und frustra ist, die Umsonst ist - also für nichts. Der Nichts der Liebe entkräftete und entkräftet von innen her das Nihil des Nihilismus. 
Die letzte Begegnung im Elisabethinum war die Konkretisierung von dem, was er von Pater Klein SJ gelernt hatte: "Ubi Petrus, ibi Ecclesia. Ubi ecclesiale, vita aeterna" (Ambrosius).  
Stets hat er auf Jesus nicht auf sich gezeigt: Er hat die Welt gerettet, nicht der kleine Pilger oder irgendjemand anderen, unter den Menschen. Solus Christus 
Ich bitte um Entschuldung für die Kürze, aber ich habe gelernt von ihm, dass auch die Stille - seine erste Begegnung mit Balthasar bestand in einer langen und intensiven Stille - ein Zeugnis ist und sicher könnte ich viel länger über ihn reden, aber ich denke, dass in diesen Worten entstanden in der Stille der Nacht, schon viel gesagt worden ist. 
Roberto, ein kleiner Freund Jesu, in der Nacht zum Sonntag, dem 22.11.20 

(traduzione di questa lettera corretta da me, ma fatta con il traduttore automatico deepl. com: 
Una testimonianza personale su Ferdinand Ulrich, il piccolo pellegrino di Gesù 

L'incontro con il piccolo pellegrino di Gesù (come amava chiamarsi Ulrich) è stato ed è per me e per mia moglie l'incontro con una vera testimonianza dell' amore gratuito di Gesù. Il primo incontro all'inizio degli anni Novanta, in una parrocchia di Monaco di Baviera, vicino all'università, ha significato per me un'esperienza di tempo qualitativo che trascendeva qualsiasi forma di tempo cronologico: 2 ore con lui sono state più decisive di 5 anni con un insegnante del Ginnasio, per fare un esempio. 
Il tempo con lui è stato ed è un tempo di conversione, un tempo di incontro-confessione con Gesù, che ha confessato sulla croce tutti i peccati del mondo, compreso il mio. Mi è sempre stato presente che nel piccolo pellegrino di Gesù il mistero della sostituzione vicaria si è realizzato in modo reale: egli poteva e può, nella preghiera e sulla terra nella sofferenza, portare per Te cose che hanno permesso a noi (a titolo di esempio), a mia moglie ed me, di rimanere nel nostro matrimonio, anche in una delle zone più secolarizzate del mondo, come dono dell'amore gratuito di Gesù. 
Una sera mia moglie gli disse una cosa che la preoccupava da molto tempo, il piccolo pellegrino di Gesù rinunciò alla sua cena e il problema sparì. Mia moglie non è una persona che si lasciava e si lascia impressionare dalle parole: il piccolo pellegrino di Gesù raggiunse il suo cuore con una presenza, non con le parole. Con una presenza discreta. Che la discrezione è una forma d'amore, l'abbiamo imparato anche da lui. 
Le conversazioni che abbiamo avuto con lui, sia sull'educazione dei nostri figli (soprattutto sulla forza di amare come lasciar-andare) sia sull'Homo Abyssus, che ho cominciato a tradurre in italiano, sono sempre state un aiuto sorprendente nel concretizzare quello che lui chiamava "il senso necessario dell'essere": un senso che "volge" il bisogno, lo trascende. "Il medesimo uso dell'essere e del "nulla" è stato nell'incontro con lui non solo un contenuto filosofico, ma esperienza dell'amore donato per "nulla". Ulrich ha contrastato il nichilismo del nostro tempo con la forza profonda dell'amore senza fondamento, che è gratis e a volte frustrante, che è umsonst - in altre parole, viene compiuto senza una ricompensa (de nada). Il nulla dell'amore indebolisce e supera il nichilismo dall'interno. 
L'ultimo incontro nell'Elizabethinum è stata la concretizzazione di quanto aveva imparato da p. Klein SJ: "Ubi Petrus, ibi Ecclesia. Ubi ecclesiale, vita aeterna" (Ambrogio) (su quest'ultimo incontro ho scritto un post nel mio blog).  
Per tutta la sua vita non ha rinviato a se stesso, ma a Gesù, che ha salvato il mondo; questo no lo fa il piccolo pellegrino o chiunque altro uomo. Solus Christus! 
Mi scuso per la brevità, ma ho imparato da lui che il silenzio - il suo primo incontro con Balthasar è stato un silenzio lungo e intenso - è anche una testimonianza e potrei certamente parlare di lui ancora a lungo, ma credo che in queste parole, nate nel silenzio della notte, molto sia già stato detto. 
Roberto, un piccolo amico di Gesù, nella notte di domenica, 11/22/20 

La mia amica Michele A. su questa mia testimonianza: 

In dieser selben Nacht, nach einer Stunde Anbetung (cfr. die weltweite Anbetung 21 November, als Vorbereitung des Eucharistischen Kongress in Budapest 2021) empfange ich tief in meiner Seele dieses Zeugnis. Deo gratias et Mariae. In dieser Stunde (ab 4Uhr) gab Jesus mir wieder die Worte vom kleinen Pilger, die er vor zehn Jahre mir sagte in Namen Jesus: er stand auf, nahm sein hölzernes Kreuz, lag es vor mich, und fragte: "Was hätte Ich mehr für dich tun können, das Ich nicht getan habe, sag mir? Was fehlt, das ich nicht getan hätte?" Die Stille, die betendvolle Stille ist Leben und Liebe in mir geworden. (Pardon, Entschuldigung für meine schlechten Sprachkenntnisse. Ich habe alle Gespräche immer sofort auf französisch übersetzt und behalten in meiner Seele).

(traduzione: Quella stessa notte, dopo un'ora di adorazione (cfr. Adorazione mondiale del 21 novembre, in preparazione al Congresso eucaristico di Budapest 2021), ricevo questa testimonianza nel profondo della mia anima. Deo gratias et Mariae. In quest'ora (dalle 4 del mattino) Gesù mi ha dato di nuovo le parole del piccolo pellegrino, che mi ha detto dieci anni fa nel nome di Gesù: si è alzato, ha preso la sua croce di legno, l'ha messa davanti a me e mi ha chiesto: "Cos'altro avrei potuto fare per te che non ho fatto, dimmi? Cos'altro avrei potuto fare per te che non ho fatto?". Il silenzio, il silenzio orante è diventato in me vita e amore. (Perdona, scusa la mia scarsa conoscenza della lingua. Ho sempre tradotto tutte le conversazioni immediatamente in francese e le ho sempre tenute nell'anima).



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