(Questo articolo, di cui mi prendo ovviamente la responsabilità, è stato scritto dopo aver integrato alcuni consigli di due amici giornalisti e di un docente di filosofia americano. Insomma presuppone un lungo lavoro di stesura e riflessione. Ringrazio di cuore gli amici che hanno partecipato attivamente a questo mio lavoro. RG)
Ovviamente non è possibile fare un paragone simmetrico tra il papa (Francesco) e il presidente degli USA (Donald Trump). Il primo rappresenta, in nome di Cristo, la Catholica (si può insistere con ragione anche sul fatto che egli rappresenti gli uomini di buona volontà, nell’alternativa: o Bergoglio o barbarie, ma questo non è, secondo me, il telos principale del suo essere papa) come comunità di fede, senza limite di tempo, il secondo lo stato federale degli USA per una durata di 4 anni (con la possibilità di essere rieletto per ulteriori 4 anni). La politica ha secondo il Concilio Vaticano II (1962-1965) un valore di relativa autonomia (come prevede il Vangelo in Mt, 22, 21: Ἀπόδοτε οὖν τὰ Καίσαρος Καίσαρι καὶ τὰ τοῦ Θεοῦ τῷ Θεῷ), per cui non è possibile neppure giudicare tout court un politico in forza di ciò che dice e fa un papa, senza fare delle distinzioni dovute. Tanto meno è possibile forzare un paragone nel senso che l’adesione a Francesco implichi necessariamente un no a Trump: questa forzatura è di fatto un segno di incoerenza spirituale, che ci intacca tutti, ma che in questa forzatura si fa vedere nella sua evidenza.
D’altro canto è evidente che tra il papa latino-americano e il presidente degli Stati Uniti vi è una differenza di universi linguistici ed etici innegabile e che essendo entrambi attori sul palcoscenico del mondo è inevitabile un paragone. Il simbolo del primo sono i „ponti“, del secondo „i muri“. Il primo ha un’opzione preferenziale per i poveri, il secondo per i ricchi (in modo particolare quelli dell’industria del petrolio), sebbene molti „poveri“ lo votino. Il primo sta giocando tutto il senso del suo pontificato sulla carta del rispetto della nostra casa comune e dei poveri (come popolo fedele di Dio) (Laudato si’, 2015) e della fratellanza universale di tutti gli uomini (Fratelli tutti, 2020), il secondo il senso del suo mandato politico su un alternativa alla crisi mondiale che metta in primo piano gli interessi degli USA, sia dei ricchi che dei poveri, almeno se si vuole prendere sul serio il fatto che molti poveri lo hanno votato.
Anche l’atteggiamento di questi due grandi attori del palcoscenico mondiale, nei riguardi della pandemia, rivela una grande differenza. Il papa ha preso da subito sul serio il virus, forse anche per il fatto che il Vaticano si trova in Italia, che è stata confrontata subito dopo la Cina ed in modo violento con la crisi, mentre il presidente americano, come tanti negli USA, ha sottovalutato (almeno pubblicamente) il fenomeno virale, che sta coinvolgendo tutto il mondo (nel momento della stesura di questo articolo lo stesso presidente americano è risultato positivo). Il Papa ha fatto gesti importanti, come quello di andare a prendere, per portarlo in Vaticano, in una processione solitaria, un crocifisso che aveva, secondo il santo popolo fedele di Dio, salvato Roma, nello scoppio della pesta nel 1522 - quello della Chiesa di san Marcellino al Corso. Ha benedetto con il Santissimo Sacramento, in una speciale benedizioni urbi et orbi, al cospetto di una piazza san Pietro vuota, il mondo intero. Allo stesso tempo ha richiamato più volte l’importanza di seguire le decisioni legali dello stato, in questione di arginamento della pandemia. L’atteggiamento del presidente degli USA è stato piuttosto di uscite ad effetto, certo per non creare panico, ma anche, sembra, con risultati catastrofali nella gestione della pandemia stessa.
Matt Taibbi ed altri giornalisti e blogger americani ci hanno aiutato a comprendere che tante delle polemiche contro Trump (lo pseudo scandalo della presunta influenza russa nelle elezioni americane…) sono svolte nella modalità con cui si accusa il presidente stesso e cioè con la modalità di fake news. Trump sembra non avere problemi nell’uso ideologico della menzogna, come non hanno alcun problema tanti suoi avversari - anche giornali rinomati come „The new York Times“ non sono senza colpe, tanto per usare un eufemismo. E probabile che uno studio accurato delle scelte di politica estera di Trump - che è nella lista del premio nobel per la pace del comitato norvegese - faranno vedere come tante critiche alla sua persona sono parziali o unilaterali (o del tutto false, come quella che avrebbe preso in giro un disabile), comunque anche la recente polemica del ministro degli esteri, Mike Pompeo contro il Vaticano, criticato via Twitter per il rinnovo, secondo lui irresponsabile, di un accordo tra la Santa Sede e la Cina, fanno vedere che la politica estera degli USA è basata sullo „scontro“, mentre quella vaticana sulla „diplomazia“.
Per quanto riguarda quest’ultima vorrei riflettere su un avvenimento recente. Le recenti critiche armene al Papa, che nella nuova enciclica non avrebbe citato il genocidio armeno, mentre avrebbe citato per cinque volte l’imam del Cairo, potrebbero essere usate come una critica alla capacità diplomatica vaticana, ma in vero sul palcoscenico del mondo, non è sempre possibile tenere conto dei problemi, anche gravi, se considerati dalla prospettiva particolare in cui si trova uno stato. Con la sua visita doppia all’Armenia e all’Azerbaigian (2016) il pontefice romano ha voluto indicare una via del dialogo come risoluzione del conflitto tra questi due paesi. Certo in queste ore gli attacchi turchi e dell’Azerbaigian sembrano negare che una via diplomatica sia possibile, ma allo stesso tempo quest’ultima deve regolare la ragione ultima di una reale uscita dalla crisi stessa: le parole del papa devono servire, per così dire, per tenere uno spiraglio della porta aperta per un procedere diplomatico, anche se al momento non sembra essere possibile ed urge una difesa militare ed un aiuto internazionale a chi è aggredito (come in questo caso lo è l’Armenia).
I quattro principi per la vita sociale di Papa Francesco: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea ed infine il tutto è superiore alla parte chiedono una conversione nell’atteggiamento dei popoli, che vedono piuttosto la loro parte che il tutto, il proprio spazio, piuttosto che il tempo del dialogo, la propria ideologia che la realtà che è sempre poliedrica (ci sono diversi punti che uniscono questa figura geometrica) e non sferica (dove vi è un solo punto in cui ruota tutta la realtà). Certo in questo momento di guerra bisogna appoggiare l’Armenia che vede attaccato il proprio spazio, il proprio particolare, ma nella via lunga della vita neppure il ricordo ideologico del genocidio sarà d’aiuto all’Armenia, ma solo il riconoscimento che la realtà poliedrica implica il vedere il tutto, anche nella prospettiva dell’altro.
Per quanto riguarda l’accordo con la Cina, la Chiesa non è interessata in primo luogo ad un’analisi della struttura leninista del partito comunista sotto XI Jinping, ma a vedere se ci siano possibilità di libertà per l’azione evangelizzatrice della Chiesa. Non si tratta ovviamente di difendere il proprio particolare, dimenticando altri particolari (le minoranze maltrattate dal governo cinese: per esempio gli Uiguri, minoranza di religione mussulmana), ma di un metodo d’azione che per la chiesa non sarà mai di „teologia politica“ (dettami, senza mediazioni, dal piano evangelico a quello politico), ma di scommessa su quel Vangelo che solo può diventare terreno fecondo, anche per i conflitti e le ingiustizie in atto. Anche il messaggio della fratellanza universale non è solo un „idea“ dell’enciclica appena apparsa, ma quel seme nella realtà che se disposto a morire, porterà frutti anche di giustizia sociale nella modalità di una „teologia della politica“, che si distingue dalla „teologia politica“, perchè vuole essere orientamento nei processi diplomatici, e non dettato di norme tratte direttamente dalla teologia o dalla Bibbia. Vorrei, però, anche precisare che i criteri di „teologia della politica“ o in genere i „principi“ della fratellanza, etc. non possono essere applicati in un „ritmo puro“, perché tra le idee e la realtà, anche tra le idee buone e la realtà (in questo caso l’applicazione diplomatica di certi prinicipi) vi è sempre uno scarto, che può essere superato solamente con una decisione dovuta ad un „discernimento degli spiriti“ ad hoc.
In Donald Trump i principi del Papa, che comunque, come ho già accennato, non devono essere considerati come „ritmo puro“, si invertono: lo spazio americano è superiore al dialogo tra i punti diversificati del poliedro della politica internazionale. Il conflitto è superiore all’unità (caso Mike Pompeo), l’ideologia dell’America first è superiore alla realtà che per l’appunto non è mai sferica (l’America al centro e tutti gli altri intorno ad essa), il particolare americano è superiore al tutto.
Questo non significa che non vi siano momenti di verità nella politica di Trump, che più dei democratici ha saputo interpretare i bisogni del „proletariato americano“ (per usare questo antico termine marxista) e che in un certo senso, pur nella sua pregiudiziale economica a favore del potere che deriva dal petrolio, ha saputo svelare le intenzioni „democratico giacobine“, insomma di chi ha mutato l’intenzione buona di „Black Lives Matter“ in uno scontro violento contro le forze dell’ordine e nella difesa di temi che non hanno nulla a che fare con la morte di Georg Floyd e di altri o con il tema del razzismo, ma in difesa di valori che mettono in questione radicalmente la natura dell’uomo e della donna per la difesa di un’ideologia gender ad oltranza. Temi questi che interessano Netflix, non i poveri americani. Certo anche la teoria gender ha un momento di verità ed è giusto difendere persone omosessuali o transessuali, ma come sempre ha sottolineato Papa Francesco: la difesa degli individui omosessuali o transessuali deve essere distinta dalla propaganda di lobbies che hanno come unica meta la distruzione di ogni riferimento alla „natura“ (Cfr. Robert Spaemann) dell’uomo - per il tema di cui stiamo trattando questa significa la „normalità“ del rapporto maschio femmina nei confronti dei omosessuali e transessuali, anche se quest’ultimi devono essere difesi a livello legale. Anzi la non difesa dei diritti personali delle suddette persone implica anche un manco a livello della moralità.
Evangelii gaudium e exinanitio: infine mi sembra chiaro che Donald Trump agisca in forza di una „volontà di potenza“ che ritiene essere l’unica modalità di azione politica, mentre il Papa agisce in forza di un senso evangelico della gioia per tutti gli uomini e del mistero della exinanitio (cfr. la sua prima lettera apostolica), che servono di orientamento ultimo per una teologia della politica al servizio dei più deboli, sia che essi siano poveri economici o migranti ed a difesa della nostra casa comune e della fratellanza di tutti gli uomini. Alla fine dei conti il Papa sa che nella Croce, non nel trionfo, si trova l’unica e singolare salvezza del mondo.
Infine vorrei tenere conto di un’obiezione forte e sostanziale che si potrebbe fare leggendo il mio articolo e riguarda il „tempo" in cui ho scritto questo articolo che ha un carattere „apocalittico“ (rivelatore) e „profetico“ e non di attualità politica, nel senso stretto del termine, anche se si incrocia con essa. È un articolo di „teologia della politica“ e non di „teologia politica“, per usare il linguaggio del filosofo italiano Massimo Borghesi sopra spiegato. Ecco l’obiezione: si potrebbe leggere il mio articolo come contrapposizione politica a Trump (sebbene io mi sia impegnato a cercare anche i momenti di verità nel presidente americano), in favore di Joe Biden, che è il competitor, nelle elezioni americane che si svolgeranno in Novembre, mentre il Papa non lo è. A differenza di quella che in tedesco si è autodefinita „Qualtitätspresse“ (i giornali sedicenti rinomati) io non penso, come non lo pensai nel 2016, che Trump perderà le elezioni; già questo fatto indebolisce l’obiezione sostanziale. È notizia dell’ultima ora che il giornale rinomato „The New York Time“ si è schierato a favore di Biden. Questa non è certo la mia posizione e mi sembra piuttosto un atto disperato per un giornale che voglia tenere conto della differenza tra giudizi di valore e giudizi di fatto, che dovrebbe essere il cuore di un giornalismo „qualitativo". Con il Papa e con i vescovi delle villas latino americane non ritengo che si possa sostenere una politica abortista. I bambini non nati, che nella ideologia di Biden sono sopprimibili fino al nono mese, fanno parte in modo speciale di quei poveri di cui ho parlato nell’articolo. Infine in un senso meno „apocalittico“, ritengo giusta la posizione del cardinale ed arcivescovo di New York, Timothy Dolan: egli non si schiera (ma dialoga con entrambi) perché entrambi i concorrenti, Trump e Biden, dicono e fanno alcune cose che aiutano la Chiesa, come dicono e ne fanno altre cui la Chiesa non può consentire.
Roberto Graziotto (1960), docente di filosofia, storia, religione e latino in un liceo della Sassonia Anhalt e di religione e storia in una scuola professionale della stessa regione.
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