sabato 19 maggio 2018

Lettera aperta ad Alberto Franceschini - sul caso Moro ed altro

Lipsia. Carissimo signor Franceschini, 
grazie per l'intervista che ha concesso a Tracce (maggio 2018) che mi ha commosso profondamente; ho dodici anni meno di lei, ma il caso Moro è stato, per un certo senso, l'inizio del mio percorso esistenziale e filosofico. 

Avevo 18 anni ed andavo al liceo scientifico Ettore Majorana nella periferia di Torino. Mio insegnante di filosofia era allora Francesco Coppellotti, il traduttore di Ernst Bloch, che vedeva nella sua nascita a Ludwigshafen (invece che a Mannheim) un segno della sua appartenenza operaia, come per me lo sono stati gli anni che ho vissuto a Mirafiori Sud. 

La mia mamma (suzzarese) per sua scelta, non per diretta necessità, decise di lavorare negli anni 80 anni alla Fiat a Torino e guardava con simpatia quella "marcia dei quarantamila" di cui Lei parla nell'intervista con Paolo Perego. Nell'Ottanta venne ucciso nel bar vicino al nostro liceo, Matteo C. Dal 1978 fino al 1980 faccio un percorso tutto mio che forse ha solo un punto di chiarezza: il mio amore per il mio insegnante di filosofia e l'inizio di un scambio di lettere con Hans Urs von Balthasar. Nel liceo difendo, quasi da solo, la posizione di Leonardo Sciascia che riconosceva come vere le lettere di Moro e la necessità di trattare. Nel 1980 attacco alla scuola un grande volantone chiedendomi pubblicamente se sia compito della polizia ammazzare giovani in un bar (come nel caso di Matteo) o difendere la vita dei cittadini. Matteo è stata l'unica persona della scena terroristica con cui avevo parlato direttamente, non ho mai fatto un incontro come il suo a Pecorile, ma con l'incontro con la filosofia dell'Utopia mi distaccai dalla vita della Chiesa (dal 1980 al 1987). Avvertivo l'esigenza di un'ontologia del non essere ancora e sebbene attraverso von Balthasar venni a conoscere il Movimento di Comunione e Liberazione non mi convinse perché troppo legato al "già" e troppo poco al "non ancora". Nel carcere Lei esperimenta la Chiesa come maestra di umanità, come studente fuori dal carcere per me CL era troppo politicizzata o se vuole troppo andreottiana. Di fatto al cospetto del caso Moro mi trovavo ad avere come "compagno" di lotta Sciascia e non gente cattolica. La mia gente insomma mi aveva lasciato da solo di fronte a questo momento di crisi. Questo accadeva in un tempo in cui il parroco di Mirafiori Sud, don Paolo Gariglio, lasciava Mirafiori per andare a Nichelino; insomma la persona che aveva avuto più influenza su quel bambino e giovane che ero non era più presente nel momento della crisi e le lettere di Balthasar segneranno un percorso che non è finito neppure ora, ma che in quel momento erano nello stato di un "seme", piuttosto che di una "presenza". Potrei continuare per ore, ma ora giungo a ciò che mi ha commosso della sua vita. 

Lei ha una grandissima capacità di "confessare" sia la sua fede religiosa, sebbene umana e non divina e di confessare i propri errori. Questo atteggiamento di confessione è ciò che più mi ma colpito nella teologia di Balthasar: sulla Croce Gesù, che non a caso parla di sé più come "Figlio dell'uomo" che come "Figlio di Dio", anche se rinvia - a differenza di quanto pensasse Bloch - al Padre non come Padrone, ma come fonte di Amore gratuito, confessa tutto il peccato del mondo, anche quello successo a via Fani. Come si vede anche dal grave caso delle dimissioni di tutti i vescovi cileni, abbiamo nella Chiesa il bisogno di questa radicale confessione del peccato: senza di essa non vi sarà la risurrezione, cioè l'assoluzione del peccato. 

Nei mie anni tedeschi c'è stata una svolta piuttosto conservatrice, dovuta all'incontro con il filosofo tedesco Robert Spaemann, che tra l'altro ha scritto una critica alla filosofia utopica, ma il vero incontro che mi ha portato a non pensare ultimamente per nulla nelle categorie di conservatore e progressista è stato l'incontro con un filosofo che è diventato anche uno dei miei amici più cari: Ferdinand Ulrich. Con lui ho imparato a vedere la realtà come "dono", l'essere come dono di amore gratuito, come un "già" semplice e completo, ma anche come "una non sussistenza", perché questo dono non è "nulla" (lo rivela anche il linguaggio quando rispondiamo ad un grazie: "non fa nulla"). Solo questo nulla dell'amore gratuito può rispondere a quel nulla di cui parla Lei nella sua intervista: il deserto da attraversare e dove non si sa dove aggrapparsi. Solo l'amore è credibile. 

Dopo 28 anni di Germania e 16 nella sua parte est, quella che è stata la DDR, comincio ad avere sempre meno il bisogno di forme di "proselitismo dell'assoluto", ciò di cui ho bisogno sono persone autentiche come Lei. 

Con grande stima, Suo Roberto Graziotto 

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