domenica 19 maggio 2019

Appunti per una teologia cattolica dei tre monoteismi - a partire da uno spunto di Henri de Lubac

Lipsia. L' ebraismo, il cristianesimo e l'Islam contraddicono le teorie dello sviluppo religioso, che hanno un certo senso per comprendere altre forme religiose. Prima della "Egira" gli arabi non erano per nulla un'unità, spiega padre Henri de Lubac. Gli ebrei festeggiano il loro trionfo come religione in un momento di declino e di prigionia. Gesù di Nazareth non sarebbe neppure stato percepito da una analisi sociologica attenta ai fenomeni religiosi importanti del tempo. 
Vi è una elezione che Dio fa! Non che fa il popolo o un singolo, che lo rende un Dio singolare che non è una via, una verità ed una vita tra le altre. Al cospetto di questo Dio la cosa più intelligente da fare non è festeggiare un trionfo religioso sugli altri, ma disinteressarsi a se stesso, per lasciare parlare sempre di più Lui. Usare questa sua singolarità per declassare le altre religioni monoteistiche non ha nessun senso, perché si tratta del "medesimo", anche se non dello "stesso" Dio (Robert Spaemann) - non è lo "stesso" Dio nelle parole che usiamo per parlare di Lui. Non tanto nelle Scritture sacre, ma nel modo in cui le interpretiamo. Anche sulla questione della Trinità, secondo Klaus von Stosch, c'è solo un passaggio nel Santo Corano che la contraddica esplicitamente, ma non è ben chiaro se non si tratti di una contraddizione di un'interpretazione difettiva della Trinità stessa. Anche con il buddismo, come dimostra l'amicizia tra Luigi Giussani e Shodo Habukawa, non dovrebbero nascere questo tipo di problemi - tanto più che il buddismo non ha un Dio personale che si metta in concorrenza con quello personale delle tre religioni monoteistiche. 
La mia insistenza sul Logos universale e concreto che è Cristo capace di integrare tutto ciò che è bello, buono, libero, vero non deve farci dimenticare la singolarità di Cristo. Può farsi sentire molto forte nella nostra intimità il suo "o con me o contro di me", ma questo invito non è mai rivolto contro il Padre, il medesimo Padre degli Ebrei e dei Mussulmani. Piuttosto contro nostre interpretazioni riducenti l'amore e la gloria di Dio.
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Caro (...) , sei tu l'esperto, io cerco solo di argomentare tenendomi stretto a ciò che dici e a ciò che so. 1. Secondo Klaus von Stosch la questione delle interpretazioni non è finita, l'Islam è una realtà vivente; insomma non c'è solo l'origine e ciò che è venuto dopo, ma ciò che potrà venire ancora - queste tre dimensioni sono connesse, ma non fatalmente incastrate: Lo Spirito soffia dove vuole, questo vale anche per l'Islam. Questo è anche il motivo per cui ritengo provvidenziale e geniale ciò che sta facendo Papa Francesco - dialogare in primo luogo con le forze che vogliono il dialogo (Emirati, Marocco e ancor più il grande Imam Al-Tayyeb - per il quale e con il quale io prego spesso a livello interiore), senza perdersi in analisi solo politiche - per esempio sul ruolo degli Emirati nella guerra in Yemen; 2. Per quanto riguarda il punto che il cristianesimo non riconosce "la profezia di Muhammad" (sia rispettato il suo nome) io penso che anche nel percorso aperto dal Vaticano II sia possibile vedere una via da percorrere. La cosa più geniale che abbia letto è quella che ha scritto Padre Paolo Dall'Oglio: "Se imparassimo a leggere il mistero della Chiesa nell'esclusione e non solo nell'elezione" (cfr. Paolo Dall'Oglio. La profezia messa a tacere, a cura di Riccardo Cristiano, Milano 2017, 108). Sta commentando la vicenda di Abramo e di Ismaele e le lacrime di Agar (Gen 21,8-21), Insomma vi è un'esclusione che può essere letta come "figura polare" (per l'espressione cfr. Romano Guardini, Papa Francesco, Massimo Borghesi) dell'elezione e non come sua contraddizione. Sta commentando una persona che ha vissuto in un convento, Dair Mar Musa al-Habaschi („Kloster des heiligen Moses von Abessinien“), per trent'anni con mussulmani e che ha pagato/ sta pagando con la sua vita per quello che credeva. 3. Wael Farouk ha sottolineato più volte che la singolarità di Cristo non è negata dal santo Corano e sta scommettendo la sua vita, in dialogo con l'esperienza di Comunione e Liberazione, sull'importanza che i singoli credenti e non solo le "forme" a cui appartengono, hanno per lo sviluppo di una religione. 4. La frase di don Giacomo Tantardini, in riferimento a sant'Agostino, è geniale perché mette in evidenza, basandosi su tutto un sapere dei Padri della Chiesa, per cui quest'ultima è come la luna e Cristo è il sole, perché ci ricorda il momento cruciale della nostra confessione di fede, quella che stiamo sentendo in questi giorni nella lettura del Vangelo di san Giovanni: non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me (cfr. Gv 14)? Un abbraccio a te e a tutta la tua famiglia, r

(14.06.19) Henri de Lubac mit permette di riflettere sul "perdurare di una religione" e sulla sua "singolarità"; tema questo importante per il rapporto con gli altri "monoteismi", ma non solo. Egli cerca una via al di là sia dell'evoluzione che della rivoluzione. Quasi che il perdurare di una religione e la sua singolarità siano solamente la sua evoluzione o che invece essa implichi la rivoluzione dialettica di tutto ciò che c'era prima del nostro assenso religioso. in un periodo come il nostro è di vitale importanza riflettere sull'asserzione di 1 2 Corinti 1, 

[19] Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu "sì" e "no", ma in lui c'è stato il "sì".  

In Cristo c'è solo un sì che non è dialetticamente vivo in forza di un no, o di un contro. Noi non siamo credenti, perché non siamo più non credenti o pagani. Diciamo il nostro si, perché uno ha detto si a noi, insomma perché ci ha chiamato. Alcune antitesi o alcune sintesi vengono poi dopo (perché non possiamo far altro che pensare), ma non è il primo passo; non lo è perché non è il nostro primo passo dialettico, ma il Suo primo passo che non si trova nel moto dialettico: tesi, antitesi e sintesi.

Per quanto riguarda il permanere della religione, problema che si pone anche don Carrón, in rifermento al permanere del primo amore che abbiamo avuto per Cristo e che i discepoli hanno avuto per Cristo, de Lubac parla di "radici". La grazia sovrannaturale non è mai "superficiale", si radica nell'umano! De Lubac dice che bisogna stare attenti a non confondere "condizioni" con "cause". L'unica causa del permane di Cristo nella storia e Cristo stesso, poi ci sono delle "condizioni" o "modalità" dell'accadere, ma esse non sono mai la causa dell'accadere stesso. Anche la Chiesa è solo la "luna", mentre è Cristo che è il "sole". 

Per quanto riguarda la singolarità, essa accade in una "storia" in cui l'uomo riceve una "missione": Abramo quella di lasciare la casa paterna, Mose quella del ricevere la legge; Isaia quella di vedere la gloria di Adonai nel tempio, Gesù quella di rivelarci che il Padre è più grande di tutti. Ma  è proprio più grande di tutti perché non ha bisogno di un paragone, se non quello espresso da Karl Barth, in  modo molto radicale: "quando si è visto il vero Dio tutti gli altri dei cadono nella sabbia ed Egli rimane l'unico"; come quando si è vista la donna amata essa rimane unica, senza il bisogno di distinguersi/la dialetticamente dalle altre donne sulla faccia della terra. La preoccupazione prima di Cristo non è quella di predicare la vanità del mondo e dei suoi dei, ma di annunciare la bontà del Padre, in forza della sequela della sua persona.  

La chiamata di Dio crea nuovamente la nostra persona! Nel dono dell'essere diventiamo una persona, nella chiamata di Dio accade anche una nuova creazione, che non distrugge la prima: la nostra missione sulla terra è il compimento del dono dell'essere, la sua figura ultima, di cui di fatto non esiste una "psicoanalisi". In ultima istanza, anche se un buon psicanalista può essere di grande aiuto (per esempio per discernere forme assurde e malate di sacrificio), quest'ultima rimane un fenomeno dell'ateismo, per de Lubac. "Una psicoanalisi della fede non può che fallire" (De la coinaissance de Dieu, 1945, 1948 che leggo nella traduzione tedesca di Robert Scherer e Cornelia Capol, Einsiedeln 1992, 31). 

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