mercoledì 28 marzo 2018

Sul senso dell'essere come dono - in dialogo con don Julián Carrón

Sliema. C’è una pagina di don Carrón nel libro intervista con Andrea Tornielli, „Dov`’è Dio?“, che mi ha davvero sfidato a livello filosofico (in vero c’é ne sono anche altre che sono una sfida esistenziale e preziosa; quanto segue è per filosofi, non accademici, ma filosofi, quindi risparmiatevi pure la fatica di leggere se non avete a cuore la filosofia). Quella sui fiori. Lo stupore per la presenza dei fiori donati gratuitamente. L’essere come dono gratuito esemplificato con l’esempio dei fiori. Una presenza che fa nascere uno stupore. Che ci sia qualcosa invece che nulla: i fiori. La domanda decisiva per il sacerdote spagnolo è: chi li ha donati? Questo mi corregge, anche se, secondo me, lui si contraddice in poche righe. Prima dice con ragione che i fiori sono importanti e poi dice che in se non lo sono perché marciscono. Ma se lo sono solo come „segno“ non sono importanti. Vengono solo usati per un discorso filosofico. No, in vero sono importanti anche se marciscono o forse proprio perché marciscono. Eppure mi corregge. Io sono spinto a soffermarmi sul „cosa“ e non sul „chi“ cioè sull’atto del donare stesso; quest’ultimo però c’è solamente perché c’é un chi che dona e il fiore donato. L’atto stesso in sé non è „niente“, pur essendo „tutto“, perché senza questo atto il fiore sarebbe solo un fiore che marcisce. Sebbene l’essere stato un fiore fiorito è qualcosa che sarà sempre vero. Anche fra cinque giorni quando il fiore sarà sfiorito, sarà un fiore che è stato fiorito, e ciò per sempre. 

Cosa intendo con la frase: „L’atto stesso in sé non è „niente“, pur essendo „tutto“, perché senza questo atto il fiore sarebbe solo un fiore che marcisce.“? L’atto è qui quello del donare. Ma cosa è il donare? Senza questo atto del donare non ci sarebbe il dono. Se non vado a comprare le rose non potrò donarle. Se le rose non sono cresciute non possono essere donate. In un certo senso il dono stesso è presupposto del donare. Il donare è un atto d’amore e presuppone sia a chi venga donato qualcosa sia il dono stesso. 

Ontologicamente l’atto del donare crea addirittura ciò che viene donato: le sostanze finite (pietre, animali, vegetali, persone). Ma in se stesso non è niente. Dio, che dona, è qualcuno e la cosa o persona creata sono qualcosa o qualcuno. In questo senso, anche se non cronologicamente l’atto d’amore che è il dono dell’essere presuppone in modo assoluto Dio che dona e in modo relazionale il dono finito e creato. Se però noi smettessimo di pensare che c’è un atto d’amore la realtà stessa, che don Carrón con ragione mette in primo piano cercando di rispondere alla domanda che gli pone Tornielli: Dove è Dio?, diventerebbe una realtà sterile. Se Dio non si manifesta nel reale è solo una proiezione dei nostri pensieri. Ma il reale è mistero e il suo essere mistero consiste in questo misterioso atto del donare. L’ateista vede il reale, ma non percepisce più l’atto del dono che lo ha generato e creato. L’atto stesso non è creato, ma crea. Nel suo creare è „sovraessenziale“ (Tommaso), non è una cosa tra le altre. Se ci chiediamo che cosa esso sia, arriviamo a quel „medesimo uso delle parole essere e nulla“ di cui parla Ferdinand Ulrich. L’atto stesso è „nulla“, gratuità incondizionata. Solo se questo è vero la „bellezza disarmata“ non è un progetto masochistico, ma ontologicamente vero ed è risposta unica al dramma del nichilismo odierno. 



Ritorniamo all’idea di „segno“. Non ho nulla contro l’idea di segno, ma tutto contro la funzionalizzazione di qualcosa a solo segno. L’amore presuppone ciò che ama non lo funziolnalizza. L’esperienza che qualcosa sia, di per sé, è già motivo di stupore.  Come vogliamo sapere chi ci ha donato i fiori che troviamo nella nostra stanza - oggi ho usato questo esempio con i giovani a Malta per l’alba che abbiamo vissuto insieme e tutti mi hanno confermato che non si accontenterebbero se la mamma rispondesse loro: che ti importa chi te li ha donati, goditi i fiori - così vogliamo sapere chi ci ha donato l’essere. Ma la „teleologia“ dell’esserci dell’essere non può essere solo in chi crea, ma nel dono creato stesso anche se si trova in statu della transizione, della non durata. Un uccellino ci appare nel davanzale e ci da gioia, anche se l’evento è del tutto transitorio. Come il sole sulla pelle qui nella terrazza a Malta in cui sto scrivendo queste righe. 

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